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2. L’uomo è antiquato

2.9. Fine delle ideologie, società ed individuo: elementi di confronto con le tesi della Scuola di Francoforte

3.1.1. Il tempo libero

Alla trasformazione del lavoro in una non-attività, alla sua riduzione ad un “servire” o “aspettare”, privo non solo di una evidente finalità, ma soprattutto di sforzo fisico consegue, secondo Anders, la notevole espansione e l’aumento di considerazione sociale dello sport e delle attività del tempo libero, secondo la logica per cui “quanto più privo di fatica diventerà il lavorare (…) tanto più l’uomo, che «per sua natura» è fatto per lavorare, deve recuperare la fatica a cui non può assolutamente rinunciare e la voluptas laborandi, altrettanto irrinunciabile, legata strettamente a quella; dunque deve trasferirla nel suo tempo libero (AM2, 93; vedi anche Sprache III, 51).

Lo sport assolve perciò una funzione compensatoria, fornendo ciò che è stato ormai sottratto al lavoro: sforzo fisico, raggiungimento di risultati personali, piacere della concorrenza, bisogno di solidarietà. Ma la libertà che esso sembra promettere, “dato che procede, come gioco e divertimento, in modo del tutto volontario”, è un’”apparenza” (AM2, 93) ingannevole, in quanto esso ed in generale il tempo libero, l’ozio, sono determinati dalle modalità del lavoro, “dagli oggetti che a tal fine vengono offerti come merci e queste a loro volta sono determinate come controtipi dalla modalità del lavoro di oggi” (AM2, 94).

Il tempo libero dunque si struttura come il tempo di lavoro (da cui si differenzia solo per la mancanza di una retribuzione salariale), anzi, rispetto alla “regolazione” di questo, si presenta, nell’analisi di Anders, addirittura meno libero, in quanto “si presta a qualsivoglia regolamentazione e strutturazione occulte” (AM2, 155). Perciò la fine della giornata di lavoro nella fabbrica significa che “cominciano le ore del nostro essere impiegati senza limiti e senza contratto, le ore melmose che dobbiamo attraversare, con il sudore dell’ozio sul volto” (AM2, 155), sottoposti alle inevitabili attrattive proposte dai mass-media e dalla pubblicità.

Anche durante il tempo libero, nel quale ci dedichiamo agli hobby, rimaniamo perciò, secondo Anders, ‘impiegati’ dalla industria del tempo libero (vedi anche AM1, 216)120.

120 Anche la Arendt condivide la preoccupazione espressa da Anders quando afferma, all’inizio di

3.2. La medialità

In conseguenza del venir meno, nel lavoro moderno, della immediata visibilità del telos, cioè dello scopo concreto, materiale (il prodotto, l’ergon), che per definizione distingue il produrre (herstellen, machen) dal fare, dall’agire (handeln, tun), sparisce anche la tradizionale distinzione (di origine aristotelica) delle attività umane in due classi: praxis e poiesis, “perché il lavoro alla macchina o la collaborazione irreggimentata non si rivolgono ad un τελος e non raggiungono lo scopo, né più né meno che l’andare a passeggio” (AM1, 300), per usare l’esempio aristotelico che definisce un tipo di azione che ha in se stessa il suo scopo.

Se il lavoro odierno non è dunque più un vero fabbricare (machen) nel senso di produrre (herstellen) - in quanto non è indirizzato ad un telos esteriore, in quanto cioè in esso “causa ed effetto sono staccati l’uno dall’altro” (cioè l’effetto, il prodotto del lavoro, supera la causa, il lavoro dell’operaio a tal punto che chi lavora “non riconosce più come proprio l’effetto del suo fare, dunque non si identifica più con il suo prodotto” AM2, 58) - e somiglia perciò sempre più all’agire, di quest’ultimo non ha in realtà ciò che lo caratterizza in modo originale e cioè il fatto di essere un ‘fare’ che ha in se stesso il proprio scopo (come ad esempio, leggere o suonare il pianoforte): il lavoro si riduce a «fare» unicamente perché è «decapitato» del suo telos (vedi AM2, 63-4).

lavoro, che l’avvento dell’automazione sembra promettere, rischia di rivelarsi come una delusione. Infatti: “è una società di lavoratori quella che sta per essere liberata dalle pastoie del lavoro ed è una società che non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere conquistata (…) Ci troviamo di fronte alla prospettiva di una società di lavoratori senza lavoro, privati cioè della sola attività rimasta loro. Certamente non potrebbe esserci niente di peggio” (Vita activa, pp. 4-5).

La speranza di Marx e dei teorici del movimento operaio “ - che il tempo libero potesse emancipare definitivamente gli uomini dalla necessità e rendere produttivo l’animal laborans – si basava sull’illusione di una filosofia meccanicistica secondo cui la forza-lavoro, come ogni altra energia, non deve andare mai perduta, così che, se non è spesa ed esaurita nel lavoro faticoso per vivere, potrà dar vita automaticamente ad altre, ‘superiori’, attività..Un centinaio d’anni dopo Marx comprendiamo l’errore di questo ragionamento; il tempo libero dell’ animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci ed insaziabili sono i suoi appetiti” (ibid, p. 94).

Se uguale è la preoccupazione dei due pensatori, diversi sono i presupposti sulla quale essa nasce: rispetto alla nostalgia di Anders di un rapporto ‘produttivo’ con il mondo, da homo faber, prevale nella studiosa tedesca il rammarico rispetto ad una immagine di uomo, ormai smarrita, definita prevalentemente dalla sua partecipazione alla vita della polis.

Posizione differente quella di Marcuse: “Nella situazione attuale i tratti negativi dell’automazione sono predominanti: accelerazione dei ritmi di lavoro, disoccupazione tecnologica” (L’uomo a una

dimensione, p. 49). Esistono tuttavia tendenze centrifughe all’interno della stessa produzione

tecnologica tali da ipotizzare la possibilità di nuove forme di esistenza umana. “Dovesse mai divenire il processo di produzione materiale, l’automazione rivoluzionerebbe la società intera (…) L’automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale dell’uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà” (ibid, p. 56).

In realtà anche l’agire subisce, secondo Anders, un processo di degenerazione; anche in esso cioè si manifesta la stessa separazione tra causa ed effetto appena esaminata nel lavoro: come al lavoratore, inserito in un contesto di lavoro articolato e complesso, non è possibile comprendere e tantomeno farsi responsabile dell’utilizzo del prodotto alla cui produzione ha comunque contribuito, così a chi agisce come membro di una catena di azioni all’interno di un apparato altamente differenziato (come Anders intende dimostrare attraverso l’esempio del pilota di Hiroshima) non è possibile capire realmente l’effetto del suo fare: questo gli appare infatti come un qualsiasi lavoro (“Lavoro – forma travestita dell’agire” “Arbeit – die Tarnform der Handlung” AD, 101) che, simile a quello prestato alla macchina, si esaurisce in un semplice collaborare (Mit-Tun),

Auslosen (azionare); cioè, in sostanza, in un “non sapere cosa si sta facendo”121.

All’interno delle moderne condizioni di vita dominate dalla normatività del fare tecnico e da quella incorporata nei prodotti (vedi AD, 38) le tradizionali distinzioni aristoteliche cominciano dunque a diventare obsolete: come abbiamo visto, infatti, entrambe le forme di attività hanno subito un processo degenerativo, entrambe sono sorpassate da una terza che ha monopolizzato tutta la prassi: il ‘servire’ (Bedienen) (vedi AM2, 60)122.

Solo introducendo nuove categorie, in sostituzione di quelle obsolete della tradizione classica, diventa possibile ad Anders sottrarsi alle difficoltà che il loro utilizzo comporta all’interno di un mondo dominato da modelli di razionalità diversi da quelli classici.

Anders parla perciò di “servire”, “azionare” e mette in risalto ciò che è caratteristico di questa pseudo-attività, cioè il suo essere né attiva, né passiva, ma “mediale”.

121 In consonanza con le tesi della Arendt in Vita activa circa il dominio odierno dell’animal

laborans Anders afferma in BvM: “Il tipo dell’odierno lavoro industriale ha da lungo cessato di

essere una specialità; perché, al contrario – e in ciò consiste ciò che chiamo la ‘distruzione dell’agire’ – quasi ogni attività umana si è assimilata a questo tipo di attività; perché il lavoro, che una volta era un tipo di azione tra le altre, si è allargato alla forma generale, cosicché ora tutti gli altri tipi di azione appartengono ad essa come varianti” (p.32).

122 In questo modo Anders si sottrae, da un lato “alla discussione sulla sostituzione dell’agire con il

produrre, della praxis con la poiesis” (Hildebrand, 1990, p. 148), che agita buona parte della filosofia moderna, da Kant ad Habermas, e che basa la propria validità proprio sulla conferma (pur con diverse accentuazioni e nuove riformulazioni) delle categorie aristoteliche; dall’altro, al confronto con la Arendt, che di queste categorie si era servita per sostenere la concezione secondo cui in Platone sarebbe avvenuta la sostituzione dell’agire politico con l’ “operare” e queste aveva poi completato con l’aggiunta di una terza categoria, l’Arbeit (l’attività che corrisponde allo sviluppo biologico ed al metabolismo del corpo umano) sotto il cui dominio sarebbe poi caduto, secondo la sua interpretazione, lo stesso homo faber produttore di opere.

Con il termine “medialità” egli intende non solo, in particolare, il fenomeno del tutto moderno per cui “il lavorare è diventato oggi un «collaborare» organizzato dall’azienda ed inserito nell’azienda” (AM1, 294), nel quale non è ormai più possibile distinguere il rapporto tra attivo e passivo, “determinare dove cessa l’esser fatto fare e dove comincia il fare da sé” (AM1, 295), ma anche lo stile della nostra esistenza in generale (AM1, 295): “gli avvenimenti con cui abbiamo a che fare nei sistemi conformistici sono un processo unico, un processo mediale” (AM2, 133).

“Il concetto di ‘medialità’ ha in Anders un significato che va al di là dell’astratto processo di lavoro. Esso rappresenta generalmente il superamento di ogni precedente differenza, della distinzione tra attivo e passivo, lavoro e tempo libero, produzione e consumo, realtà e finzione, immagine e riproduzione, pubblico e privato” (Kramer, p. 103).