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L’impresa fucina del conformismo

5. Conseguenze etiche della medialità

5.1. L’impresa fucina del conformismo

Anders si serve dell’immagine dell’impresa (Betrieb) per farne il modello dell’attività mediale, “la fucina, lo stile di lavoro, il modello del livellamento” (AM1, 298).

Il principio ‘mediale’ conformistico è vigente in ogni azienda, sia nella grande fabbrica meccanizzata (nella quale si consuma la separazione dell’opera dall’operaio) sia nell’istituzione burocratica (“fatta di interdipendenze formalizzate e di divisione spinta delle mansioni”, Revelli, p. 35): l’azienda è “dunque il luogo dove viene creato il tipo dell’uomo «mediale – senza coscienza», il luogo di nascita del conformista”(AM1, 297).

La medialità esprime, come già visto, la trasformazione che subisce nella modernità il concetto di ‘lavoro’ e di ‘azione’, il loro passare l’uno nell’altro, il loro reciproco camuffamento; in essa si attua la fatale sostituzione della responsabilità tecnica a quella morale: infatti non occorre nemmeno che il lavoratore, espropriato della possibilità di conoscere lo scopo del proprio lavoro, “abbia una coscienza. Anzi l’azione, esaminata o addirittura dettata dalla coscienza individuale, è sospesa e sostituita dalla coscienziosità” (AM1, 296-297), dal corretto svolgimento della propria attività.

Dunque: “mentre il lavoratore in quanto tale è ritenuto morale in ogni caso..lo scopo e il risultato del lavoro sono considerati, per principio «moralmente neutrali» - ed è questa una delle caratteristiche più funeste della nostra epoca; qualunque sia l’oggetto del lavoro, il prodotto del lavoro è sempre «al di là del bene e del male» (...) in nessun caso il lavoro stesso «olet»” (AM1, 297; vedi AD, 82 e 145)173.

Ma analoga trasformazione ha subito anche la dimensione dell’agire, la cui moralità, all’interno di una organizzazione, di una impresa, “viene sostituita da quella della bontà del funzionamento” (AM1, 257): dal momento che l’agire presuppone (oltre naturalmente la libertà di scelta) la capacità di giudizio e questa,

173 Questa indifferenza rispetto all’aspetto morale del lavoro, il fatto che ad esso spetti “eo ipso lo

stesso valore positivo” (Linguaggio e tempo finale, 101), dipende, secondo Anders, anche dal fatto che la razionalizzazione produttiva ha reso i sempre più scarsi lavori tanto più preziosi e ricercati, al punto che “anche loro, poiché non crescono spontaneamente, debbono essere creati

appositamente, diventando loro stessi dei «prodotti». Dei «prodotti di secondo ordine»” (ivi),

esempio questo di inversione tra mezzi e fini: il lavoro, seppur considerato dal singolo come ‘mezzo’, diviene ora uno ‘scopo’, che può essere raggiunto solo con la produzione di prodotti sempre nuovi, attraverso nuovi bisogni (vedi AM2, 89).

a sua volta, la possibilità di poter valutare adeguatamente una situazione attraverso la conoscenza complessiva dei suoi aspetti, quando questi presupposti vengono a mancare - come nel caso della divisione del lavoro e della specializzazione che, all’interno dell’azienda, fungono da “paraocchi” (AD, 81) – non si può più parlare “di «azioni» nel vero senso della parola e neppure più di «attori» che avrebbero un «diritto alla responsabilità»” (AM2, 60).

La medialità, “l’illimitata mediazione dei nostri processi lavorativi” (Eichm, 30), radicalizza il dislivello prometeico e costituisce una delle radici del ‘mostruoso’: Auschwitz come simbolo dei campi di concentramento organizzati dai nazisti è infatti, secondo Anders, espressione di un processo di lavoro mediale, la produzione di “cadaveri a milioni” (Opinioni, 72): “L’impiegato dei lager non ha agito, ma, per quanto orrendo ciò possa apparire, ha lavorato” (AM1, 299).

La medialità spiega perché uomini comuni, apparentemente normali, con vite e comportamenti passati irreprensibili, si siano resi autori delle infamie commesse durante la Shoa e, soprattutto spiega la loro indignazione, di fronte ai giudici, per essere considerati responsabili di questi delitti: “Sarebbe completamente errato prendere questi accusati per esemplari casuali di esseri disumanizzati ed incalliti. Se non erano in grado di sentire rimorso, vergogna o una qualunque altra reazione morale, non si deve dire che ciò fosse «benchè» avessero collaborato, ma perlopiù perché avevano soltanto collaborato; e alle volte anche proprio perché avevano collaborato, cioè: perché per loro «essere morali» coincideva eo ipso con la «medialità» al cento per cento e quindi (per aver collaborato) avevano la coscienza pulita” (AM1, 295).

Ma lo stesso atteggiamento di discolpa (Unschuldhaltung), derivato dall’aver solo collaborato - che Anders ha chiamato una volta “effetto di legittimazione” (Legitimationseffekt, vedi: Besuch, 193) - hanno tenuto anche i piloti che formavano la squadra di volo responsabile dei bombardamenti atomici sul Giappone alla fine della II Guerra Mondiale: anch’essi, semplici membri di un apparato altamente differenziato, che agisce attraverso una catena di decisioni e segmenti di azioni, hanno soltanto collaborato, senza sapere cosa in realtà stessero facendo, anch’essi (con l’eccezione dell’ufficiale Claude Eatherly) non hanno sentito la minima colpa della loro azione.

Tra il 1959 ed il 1961 Anders intrattiene una lunga corrispondenza174 con Claude

Eatherly, il pilota dell’aereo di ricognizione americano che il 6 agosto 1945, constatate sufficienti condizioni di visibilità, aveva dato via libera al bombardamento atomico su Hiroshima.

Sconvolto dai sensi di colpa per l’enorme massacro commesso, Eatherly avrebbe dapprima cercato di soffocarli attraverso comportamenti delinquenziali ed asociali (fino al tentativo di suicidio) per poi impegnarsi, rinnegata la sua attività di soldato e grazie all’amicizia con Anders, nel movimento pacifista.

Al di là della veridicità o meno di questa versione, effettivamente criticata da molti175, l’importante è il significato che Anders dà a questa figura, da lui

interpretata come un personaggio simbolo, “incolpevolmente colpevole” (schuldlos schuldig) (La coscienza, 21): incolpevole, per essere stato all’oscuro della spaventosa potenzialità distruttiva della bomba, colpevole, per essere diventato comunque “un pezzo di apparato complice del crimine” (Discorso, 79). Egli rappresenta dunque un ‘precursore’, la figura “simbolo di un’epoca, il simbolo della problematica con la quale noi, nell’ era della terza rivoluzione industriale, dobbiamo comportarci globalmente” (ibid, pp. 89-90): allo stesso modo di Eichmann infatti, di cui noi tutti siamo figli, “noi al giorno d’oggi non siamo altro che innumerevoli Claude virtuali” (ibid, 79), tutti “nella stessa barca’, anzi (...) figli di una stessa famiglia” (La coscienza, 22).

Ma simbolo Eatherly lo è, e questo lo distingue da Eichmann, facendone una figura positiva, anche del futuro: “l’eccezionalità della sua esperienza [è] costituita proprio nella comprensione (anche se, necessariamente, inutile) e nel pentimento per qualcosa a cui egli aveva soltanto collaborato; nel fatto che egli si sia ‘fatto carico’ moralmente ed emozionalmente di un’azione che in realtà non aveva ‘intrapreso’(Discorso, 80), lo rende, secondo Anders, “in qualche modo il nostro maestro” (La coscienza, 22).

174 Pubblicata nel 1961 con il titolo Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem

Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders, a cura ed introduzione di Robert Jungk,

1961 (ristampata in Hiroshima ist überall, 1982); trad.it., La coscienza al bando, Il carteggio con

Eatherly, 1961.

175 Nella prefazione del 1982 del testo Hiroshima ist überall, che conteneva la ristampa di questo

carteggio, Anders si riferisce espressamente a due pubblicazioni, entrambe del 1964, fortemente critiche nei confronti della sua ricostruzione dell’intera vicenda di Eatherly, quella di Friedrich Torberg e quella dell’americano William Bradford Huie. A questo proposito vedi Georg Geiger, 1991 e Jürgen Doll, Günther Anders, la guerre froide et l’Autriche in AA.VV., Austriaca, 1992, pp.49-61.