2. L’uomo è antiquato
2.9. Fine delle ideologie, società ed individuo: elementi di confronto con le tesi della Scuola di Francoforte
3.2.1. Excursus: Aspettando Godot
La “neutralizzazione di attività e passività” (Sprache, VI,17) in cui consiste la medialità non è però un processo effettivamente ‘neutrale’: in essa infatti è facile scorgere quella figura della passività, del ‘venire vissuti’, che Anders aveva definito “la terribile scoperta della vita odierna” (UsM, 73) ed aveva trovato rappresentata nelle opere di Kleist, Kafka, Döblin.
Solo che ora la situazione è ancora più radicale: se infatti i personaggi di questi grandi autori, Kohlhaas, K., Biberkopf, appaiono “abstracti: sradicati, avulsi” (AM1, 230) dal mondo, “in qualche modo tutti questi avevano ancora un «mondo» (…) Non erano ancora arrivati al non-mondo. Soltanto le creature di Beckett vi sono arrivate” (AM1, 231).
Nel famoso pezzo teatrale Aspettando Godot Anders trova rappresentata infatti la condizione storica in cui “anche il fare è diventato una variante della passività (…) ha assunto la forma di un fare senza scopo o di un non fare. Nessuno potrà certo negare che Estragon e Vladimir, che non fanno assolutamente nulla, siano i rappresentanti di milioni di uomini attivi” (AM1, 232), in cui dunque la definitiva affermazione della razionalità strumentale, facendosi fine a se stessa, sancisce la perdita di ogni scopo e, con esso, la perdita del mondo.
Vladimir ed Estragon sono “creature che non hanno più nulla da fare, perché non hanno più nulla da fare con il mondo” (AM1, 232), la loro è “un’attività
rudimentale che riesce ancora a produrre un effimero movimento nella poltiglia del tempo, [ma] non è più un vero «agire»; perché non ha altro scopo se non quello di mettere in movimento il tempo”: la loro attività si è dissolta a semplice ‘passatempo’, il cui unico scopo è “la «conseguenza» nel senso di «successione di tempo»” (AM1, 237), con la rinuncia ad ogni altro genere di conseguenza.
La fine del fare, del lavoro (sia nel senso di reale disoccupazione, che della sua trasformazione in semplice ‘collaborare’, in medialità come forma priva di scopo che assume ogni pseudo-attività umana) significa dunque per Anders non solo perdita di mondo – in quanto perdita dell’unico mezzo che permette una reale esperienza del mondo123 (e siccome “dove non c’è mondo non ci può essere
collisione col mondo” AM1, 231, questa esistenza non può essere rappresentata attraverso la tragedia, ma solo come farsa) – ma anche paralisi del tempo e conseguentemente della storia, “perché il tempo è storia” (AM1, 241) ed esso “procede solo per quella vita che persegue essa stessa uno scopo e si dirige verso qualche cosa” (AM1, 236).
Rispetto a questa condizione di ‘essere senza tempo’ il mondo di Pozzo e Lucky (i due personaggi che irrompono sulla scena accanto a Vladimir ed Estragon) appare a questi ultimi invidiabile: sebbene dominato dal principio del dominio, segnato dalla lotta e dall’antagonismo (tra uomo e uomo, tra classe e classe), esso appare comunque in movimento, proprio perché è questo antagonismo che, come afferma la filosofia dialettica, guida la storia.
E’ in questo mondo, nella cui disparità riecheggia la coppia servo-signore della hegeliana Fenomenologia (in cui il servo è comunque, come Anders aveva affermato nell’introduzione a UsM, ‘privo di mondo’), che Anders sembra vedere “il reale: perché ciò che «è» è dominio e lotta per il dominio” (AM1, 241).
Un mondo, una condizione, dunque, se non desiderabile, almeno invidiabile rispetto all’attesa: Godot infatti “non è che il nome del fatto che l’esistenza che
123 Kramer, secondo il quale Anders interpreta la disoccupazione come causa principale della
perdita di mondo, obietta che “ciò sarebbe effettivamente plausibile, se il ‘lavoro’ fosse effettivamente l’unico modo a disposizione dell’uomo per fare esperienza del mondo”: in realtà “anche l’ozio ad esempio o il gioco sono attività o meglio modi di rapporto creatori di mondo e formatori di personalità, che rendono possibile una esperienza mondana” (p. 140).
In effetti egli accenna con queste considerazioni, almeno implicitamente, alla contraddizione già rilevata dalla Arendt (e poi da Jonas, nella sua critica a Bloch) nel concetto di lavoro di Marx, da un lato definito (sulla base di una eredità hegeliana) come essenza dell’uomo, dall’altro concepito come impedimento alla piena realizzazione di questo (utopia del regno della libertà).
continua senza senso crede erroneamente di essere un’ «aspettativa», un’ «aspettativa di qualche cosa»” (AM1, 233).
La vicenda di Vladimir ed Estragon perciò “rispecchia il nostro destino, il destino dell’uomo di massa” (AM1, 238): essi infatti nonostante la loro inattività e la mancanza di senso della loro esistenza “vogliono tuttavia «continuare» (...) come (...) i comuni uomini di massa” (AM1, 232), non “ci pensano nemmeno a considerare la loro esistenza come un «nulla» o «di nulla». Anzi sono «metafisici», cioè non sono capaci di rinunciare al concetto di senso (...) sono i guardasigilli del concetto di senso in una situazione manifestatamene insensata” (AM1, 234).
E “persino quelli fra loro che sono nichilisti vogliono continuare a vivere, perlomeno a «non non-vivere»” (AM1, 232), ma non perché, alla maniera di Heidegger, pensino di “eliminare la contingenza e di tramutare ciò che è stato loro gettato in un progetto positivo” (AM1, 234), bensì “perché vivono senza senso, ossia perché la decisione di non continuare a vivere, la libertà di farla finita, è ormai paralizzata dall’abitudine al non fare o al non fare da sé. O, infine, senza alcun motivo speciale; continuano a vivere perché ormai ci sono; e perché per vivere non occorre nient’altro che esserci” (AM1, 232) e “considerato che continuano a esistere ogni giorno, riesce loro impossibile non concludere che aspettano; e considerato che «aspettano» ogni giorno, non possono fare a meno di concludere che aspettano qualche cosa” (AM1, 233).
Attraverso queste figure Beckett non ci presenta “quindi nichilismo, ma l’incapacità dell’uomo di essere un nichilista persino in una situazione che non potrebbe essere più senza speranza di così” (AM1, 234).