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La morale di Anders: solidarietà

8. Il ‘salto’ nella moralità

8.1. La morale di Anders: solidarietà

Che il ‘nostro diritto alla sopravvivenza’ non sia realmente tale per Anders (che quindi ‘teoreticamente’ Nietzsche abbia ragione, vedi K, 216), che non possa cioè essere filosoficamente giustificato, lo abbiamo già visto.

Che l’esistenza dell’umanità non possa essere positivamente fondata non significa però che non debba esserci: “quale senso deve avere il fatto che esista un’umanità e non piuttosto che non ne esista alcuna, tutt’al più ha un senso nel campo della ragione teorica (anche se non è possibile rispondervi), ma al contrario non presenta alcun interesse per la ragion pratica. Essa non riguarda il moralista. Questi si accontenta della penultima domanda. E si può dire fortunato se riesce ad ottenere una risposta per il penultimo stadio” (AM2, 362; vedi Essere, 83-84). In questo consiste la “ostinata incoerenza” (eiserne Inkonsequenz) (KS, 198) di Anders: “Sii morale, sebbene tu non possa fondare, anzi persino se ritieni infondabile, il fatto che ‘il dovere deve essere’” (PS, 51); ‘agisci, sebbene contingente, come se (als ob) tu non lo fossi’ (vedi K, 13).

principio trascendente” (Matz, 53)) - pare trascurare l’essenziale differenza che corre tra l’apocalisse ‘senza regno’ di Anders e quella, che inaugura la vera storia, di Bloch.

Del resto in più occasioni Anders ripete: “Se sono disperato, ciò non mi riguarda!” (Opinioni, 101; Aant, 58; Uomini, 17): per larga parte della sua vita egli si è impegnato ed ha lottato per la sopravvivenza dell’umanità, come se questa non fosse contingente, senza perdere un minuto a domandarsi “per quale motivo ho agito così” (K, 197).

Al contrario del teologo cristiano, che anelava all’Apocalisse come liberazione ed inizio di un nuovo mondo, Anders si propone come scopo quello di ‘spostare’ questa fine, prolungando il più possibile quella che rimane per lui ‘l’ultima epoca’. La sua filosofia perciò, per riprendere un concetto di Reimann (p. 154), non è escatologia, ma piuttosto katechontik: “Nostro compito di oggi è al contrario, informando sulla situazione da fine del mondo in cui ci troviamo, impedire che essa si realizzi effettivamente” (AD, 219)232.

Anders si presenta perciò come un “prophylaktischer Apokaliptiker”(AD,179): consapevole della possibilità della fine del mondo, il suo compito consiste essenzialmente nel rimandarla indefinitivamente, nel “rendere infinito il tempo della fine” (AD, 221).

Perciò la morale di Anders si disinteressa della teoria, fa a meno della ricerca del senso ultimo, pratica una ‘ascesi metafisica’: ”Il nostro motto non è il «credo quia absurdum», ma tuttavia qualcosa di molto simile: «Se non lo sappiamo, che ce ne importa» (Essere, 84).

Egli stesso ha definito il suo impegno come un “disertare nella prassi” (AM2, 6; Uomini, 9): perché l’abbia fatto “non ha bisogno di alcuna giustificazione, se è vero che, come si mormora in giro, «ciò che è morale si capisce da sè»” (AM2, 6). L’urgenza richiede perciò di rinunciare alla fondazione teorica della morale per diventare morali: “Poiché se c’è chi è sul punto di affogare, non è lecito starsene a riva a discutere il problema filosofico o teologico della ragione per cui bisogna dare un valore alla vita di costui” (Essere, 23), “Quando la casa brucia, non è il caso di chiedere della legittimità dei pompieri”(Essere, 58).

La sua è dunque una morale essenzialmente reattiva, (“difensiva” la definisce Reimann, p. 152); se il mondo fosse buono non ci sarebbe bisogno di morale: “Moralmente auspicabile non è quella situazione, nella quale possibilmente molti uomini praticano o dovrebbero praticare la moralità (contro il mondo); ma al contrario quella in cui giunge al minimo la possibilità, la ‘tentazione’, di essere

232 Sul concetto di katèchon, qui inteso semplicemente nel senso di ‘qualcosa che impedisce’ (in

disumani. Cioè dove, espresso in modo paradossale, la morale è ‘superata’ e può scomparire (…) In un mondo buono le virtù diventano superflue” (TuG, 200)233.

Diventare ‘moralisti’ non è perciò una scelta, ma un obbligo imposto dalla realtà: “Già, crede forse che sia un piacere essere un banditore antiatomico giorno dopo giorno, anno dopo anno? Non c’è niente di più noioso” (Opinioni, 99).

E’ l’esperienza della sofferenza, già sperimentata a partire dalla giovinezza (come testimoniano i ricordi autobiografici in Opinioni), che fa dire ad Anders: “Già, ma la domanda non è: «Come si diventa moralisti?»; essa deve piuttosto suonare: «Come può succedere a uno di non diventarlo?»” (Opinioni, 41); è il richiamo alla comune minaccia che pende su tutti gli uomini la base per enunciare un imperativo che riguarda l’umanità nella sua totalità: “Se ci è lecito variare il detto rankiano ‘ugualmente vicini a Dio’, potremmo dire che ‘ognuno di noi è ugualmente vicino alla fine possibile’. E perciò ognuno di noi ha lo stesso diritto, e lo stesso dovere, di elevare ad alta voce il suo monito. A cominciare da te” (La coscienza, 36).

La morale di Anders non si propone di realizzare una qualche società ideale od una certa idea del bene , né semplicemente di astenersi dal commettere il male: essa nasce come gesto di rivolta (alla Camus) contro l’immoralità della storia, il male che, diventato ‘spirito oggettivo’, abita oggi il mondo intero, come “ultima ratio contro l’immoralismo (Unmoral) atomico” (Reimann, p. 154).

L’esperienza della sofferenza gli ha fatto trovare, secondo Brumlik, “un nuovo contesto, una nuova base, una nuova patria (…) L’ontologia esistenziale diventa esistenzialismo nel momento in cui il soggetto, non potendo più contare su una qualsivoglia base morale, cerca tuttavia di dare un senso alla sua vita (…) Evitare nuove vittime, ulteriori sofferenze, diventa così l’ultimo imperativo, ora non più formale, ma saturo di esperienza, di una Morale del tempo finale” (p. 144).

Anche per questo Anders lascia gli Stati Uniti per ritornare in Europa, perché essa è, prima di tutto, la terra delle vittime: “Perché si è a casa dovunque sono morte delle vittime innocenti” (TuG, 95).

L’imperativo della morale kantiana non ha impedito gli orrori del Novecento: questa gli appare anzi (anche se, come vedremo subito, egli intrattiene con Kant un rapporto non univoco) come caratterizzata dalla ‘mancanza di amore’ (Lieblosigkeit), dalla ‘indifferenza nei confronti degli uomini’

233 “Il sapone esiste perché ci sono panni sporchi. Principi morali invece perché c’è una vita

(Menschenindifferenz) (K, 25-26): ad essa egli preferisce - come Brecht, che rifiutava come ‘preteschi’ i termini ‘dovere’ e ‘morale’ - una parola “incomparabilmente più vicina al Cristianesimo” (K, 25) o comunque “alla dimensione del religioso” (UsM, 121): ‘benevolenza’.

8.1.1. Excursus su Kant

In questa posizione dualistica - nella distinzione cioè che egli fa tra un approccio teorico segnato dal nichilismo ed un atteggiamento concreto, pragmatico, nei confronti della vita - si mostra in modo decisivo l’influsso di Kant: la sua distinzione tra “le questiones iuris e le questiones facti (anche quelle dei fatti metafisici)” (AM1, 77), rimane un dato definitivo, dal quale non si può arretrare, ma che non si può neanche superare, come ha creduto di fare Hegel con il suo superamento della Moralità in Eticità (vedi, PS, 48).

Il passaggio, compiuto da Kant, all’etica fondata sul principio dell’autonomia dell’uomo, che fa a meno del fondamento religioso, rappresenta per Anders un punto di svolta fondamentale nella filosofia: è merito suo infatti quello di aver realizzato “un’inversione di religione e morale preparata da lungo tempo: l’esistenza di Dio non era più propriamente alla base della morale; piuttosto, la coscienza divenne la prova dell’esistenza di Dio” (Kafka, 97)234.

Il rapporto di Anders nei confronti di Kant (nella cui riflessione, come rileva Lohmann M, egli scopre alcuni aspetti non notati dalla critica, come la definizione, prima di Marx, della religione come ‘oppio dei popoli’) è caratterizzato soprattutto da uno dei temi tipici del repertorio critico kantiano, quello che si riferisce al formalismo della legge morale (vedi K, 20 e 80): esso culmina nella definizione della morale kantiana come “obbedienza cadaverica” (Kadavergehorsam), addirittura anticipatrice del nazismo.

La negazione della sensibilità rispetto al dovere guidato dalla ragion pratica, l’obbedienza all’autorità come comandamento morale (vedi K, 194), il disinteresse nei confronti delle conseguenze dell’agire (“Ciò che io ho maledetto come programmatica mancanza di finalità dell’odierno fare, egli l’ha apprezzata due secoli fa” K, 243) avvicinano infatti, secondo lui, la sua morale di un solo passo a quella di Eichmann (vedi K, 243).

234 Se rimane ancora in Kant (che si merita per questo l’appellativo, già usato da Anders per

Heidegger e Kafka, di ‘ateo che si vergogna’, vedi Kafka, 85) l’affermazione dell’esistenza di Dio (come postulato della ragion pratica), questo è avvenuto, secondo Anders, soprattutto per motivi contingenti, dipendenti dalla situazione storico-politica del tempo.

Tuttavia Anders sa bene che se questa è una possibile interpretazione dell’imperativo categorico, se esso può essere “frainteso come obbedienza cadaverica oppure trasformato in funzione di questa”(K, 22)235, questo è possibile

solo attraverso una forzatura, che contraddice il principio di universalizzazione su cui esso si basa.

In un altro passo infatti egli definisce l’imperativo categorico, in contrapposizione a quello kafkiano della illibertà, come l’ “espressione più grandiosa della libertà del soggetto che non può conoscere o riconoscere alcun ‘dovere’contenutisticamente determinato, perché la garanzia reciproca di libertà dei soggetti costituisce proprio il contenuto dell’agire morale”(Kafka, 92).