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Il nichilismo di Anders: filosofia della contingenza

6. Il mondo, senza uomo della bomba

7.2. Il nichilismo di Anders: filosofia della contingenza

In effetti inequivocabile e ripetutamente confermata è la dichiarazione di nichilismo, l’ ”irrefutabilità del nichilismo” (AM1, 327), da parte di Anders, che si dichiara anzi “doppiamente nichilista” (K, 197; 123), dal momento che ritiene non solo infondabile la domanda “perché si debba dovere” (AM1, 327; K, 197), ma anche quella “perché si debba essere”: sia il dovere (la morale) che l’essere (l’ontologia) sono contingenti208.

Contingenza e nichilismo sono in Anders strettamente legati; il secondo si presenta e si coniuga nella sua visione fondamentalmente nella forma di ‘filosofia della contingenza’: una filosofia che meriti questo nome si realizza infatti, per Anders, solo «sub specie contingentiae» (La natura eretica, p.55).

Filosofare sub specie contingentiae significa svegliare dall’ingenuo sonno, nel quale vivono, con i loro pregiudizi ontologici, gli “‘habitué[s] dell’essere“ (K,

208 Ovvio presupposto teorico di questa posizione è la dichiarazione di ateismo da parte di Anders:

questo, più che essere dovuto al predominio della moderna visione scientifica del mondo (vedi K., 82-83) è, nel suo caso, la risposta alla questione fondamentale di ogni teodicea, che dopo Auschwitz (ed ora anche Hiroshima), si ripropone in forma drammatica ed estrema (vedi, come esempio, K, 32-34).

65): lo stupore filosofico nasce infatti laddove l’essente diventa così sorprendente, che il suo non essere è più plausibile che il suo “essere invece” (Doch-sein, K, 313); dove non è visibile nessun motivo e nessun senso, perché ci sia e perché sia proprio questo e perché sia proprio così209.

Sebbene la pretesa di originalità che egli rivendica a questo proposito (vedi K, 11) possa essere ridimensionata, si può certo convenire che raramente altro filosofo ha radicalizzato, come lui, questo pensiero.

Cos’è dunque per Anders il contingente?

Le definizioni di Troelsch (che egli cita in NE, 23) e quella del Kant precritico (vedi K, 171) risuonano ancora, seppur in senso negativo, di un senso teologico, che certamente non sarebbe coerente con le posizioni di Anders.

Sul presupposto di un altrettanto ripetutamente affermato ateismo il contingente non può essere per lui se non il “non voluto da nessuna volontà divina, l’essente che non si dirige verso nessun porto divino” (Lütkehaus, 1992, 64), che va “alla deriva verso l’oceano dell’essente” (AM2, 385).

Contingente è per Anders non soltanto l’empirico, il ‘dato a posteriori’ della tradizione kantiana, ma proprio ‘tutto’, ‘ogni cosa’ dunque, che potrebbe essere del tutto diversa da come è od anche, secondo la formula di Tommaso, anche non essere (“contingens est, quod potest esse et non esse”), ciò la cui non esistenza, secondo la formula di Leibniz, non include alcuna contraddizione, quindi anche ciò che, per Kant, vale come apriori e necessario (vedi K, 311 e 173).

Lo shock della contingenza si esprime nell’individuo, “il vero scandalo metafisico di questo mondo”, come consapevolezza della propria limitatezza, di essere “solo se stesso e nient’altro” (UsM, 80): Individuatio sive negatio, come afferma Anders citando Spinoza (vedi AM2, 113; UsM, 81).

Poiché io sono ‘questo’ casualmente, non sono ‘tutto il resto’: l’individuazione contingente sfocia nella perdita (Versäumniss) di ogni altra possibile incorporazione: “panico della perdita” (Versäumnisspanik)210 chiama Anders

209 Filosofi sono coloro che “possiedono la ’libertà ontologica’ di prendere le distanze dall’ovvietà

dell’esistenza del proprio io..e filosofi in doppio senso sono coloro che (...) rimangono incapaci di

liberarsi anche per un solo momento di questo sgomento. Filosofare è in effetti un ininterrotto

stupore. Non comincia solo, con Aristotele, come meraviglia. Esso prosegue come un non-poter- non-meravigliarsi” (K, 312). Anche in Philosophische Stenogramme: “La chance del filosofo consiste nella sua incapacità a comprendere la parola ‚ovvio’. La sua virtù nella capacità di mantenere questa incapacità a dispetto di tutte le contestazioni della quotidianità“ (p. 124).

appunto questo sentimento, “il panico di fronte all’abbondanza del mondo che non si è e che non si possiede” (UsM, 178)211.

Lo shock però non si limita alla contingenza dell’individuo, ma interessa anche l’umanità in generale.

L’uomo si vede, in modo paragonabile al geocentrismo tolemaico, sulla base del suo valore, come “punto centrale o punto di arrivo (Mittel- oder Zielpunkt) del mondo” (Irrelevanz, 54), sebbene egli non sia altro che una irrilevante specie contingente: come parte organica del mondo, tra altre, vive egli sulla secca superficie di una palla che gira senza senso nel cosmo infinito (vedi Irrelevanz, 55).

Come ha affermato Nietzsche, che Anders cita espressamente: “nessuno può mantenere la necessità che ci sia l’uomo” (K, 12; vedi anche K, 215); comportarsi come centro e culmine del creato, come “popolo eletto” (AM2, 384) - come egli si esprime in un colloquio con l’allora moglie Hanna Arendt (vedi K, 239) - in una condizione a tal punto gravata dalla contingenza (“ in questo accumulo di contingenza”, K, 309) è, da parte dell’uomo, perciò, un atteggiamento fonte di assoluta comicità: comico è infatti per Anders “tutto ciò che, senza essere

catastrofico, è, sebbene possa propriamente non essere” (K, 293)212.

Anche Heidegger, che pure, riformulando la famosa domanda metafisica ‘perché c’è l’essere e non piuttosto il nulla’ (Wollf, Leibniz), ha osato prendere in considerazione la contingenza dell’essere, stranamente però non ha avuto il coraggio “di considerare come possibilmente contingente il più piccolo, il più particolare, cioè l’essere dell’ umano ‘Dasein’” (K, 12-13): l’uomo dunque e le sue “azioni «morali» e «immorali», che lo vogliamo o no, vagano prive di radici nell’oceano dell’essere moralmente indifferente, per così dire sotto forma di «fiori metafisici» recisi “(AM1, 77).

Der Blick vom Mond allarga alla terra, addirittura all’universo, il destino di contingenza dell’individuo e dell’umanità, completando “l’offesa cosmologica” iniziata da Copernico: “Così minuscoli gli uomini non si sono mai creduti, come ci sentimmo noi al vedere la nostra Terra ondeggiare solitaria nello spazio come una semplice palla” (BvM, 65; vedi anche AM2, 387).

211 Volta positivamente, parla da questa ‘paura della perdita’ una nostalgia (passione) per il tutto,

che Anders battezza con il nome di ‘Pantomania’ (vedi: Essere, 140; vedi anche Lütkehaus, 1992, p. 68).

Anche il mondo, l’universo stesso, è contingente, qualcosa di cui si può fare a meno (vedi K, 347).

Kant stesso afferma la contingenza non solo delle leggi naturali, delle forme apriori (vedi K, 311), ma anche della natura stessa (vedi K, 172), compreso il sistema solare, la cui possibile sparizione, come supposto da Newton, gli appare verosimile (La natura eretica, p. 52).

Il concetto della contingenza, estesosi alla totalità, esclude quella possibilità di un esser-diverso che esso, almeno all’inizio, se riferito alla sola individualità, ancora contemplava: ora significa soltanto “poter non-essere”.

Nella prospettiva del nichilismo ogni essente appare come un fatto empirico: Anders definisce il concetto di essenza come “la ‘platonizzazione’ di qualcosa di empirico” (K, 130), lo inserisce all’interno della ‘lista nera’ di parole e concetti da evitare (Proskriptionliste), in quanto falsi ed invita a “trovare il coraggio di «de- essenzializzare» [Entwesen]” (AM2, 388)213.

Subito dopo quello di ‘essenza’, all’interno della lista nera, Anders inserisce il concetto di ‘senso’(Sinn), che pur rappresentando, insieme alla morale, la solida stampella metafisica con la quale la filosofia ha cercato di arginare le possibili conseguenze derivabili dalla consapevolezza della contingenza, subisce la stessa sorte dell’essenza; entrambi infatti sono concetti di tipo relazionale, implicano cioè sempre una relazione di un essente ad un altro: “senza la supposizione di qualcuno che ha in mente qualcosa, l’uso originario della parola «senso» sarebbe stata insensata” (AM2, 357).

Ecco perché, secondo Anders, “la domanda di senso è la versione secolarizzata della domanda della teodicea. O la domanda di giustificazione camuffata dell’ateo”; la questione del senso è nata infatti “quasi esclusivamente riguardo all’esistenza del negativo” (AM2, 358), contraddittorio al volere di Dio e perciò bisognoso di giustificazione.

‘Aver senso’ significa sempre “aver senso «per qualcosa». Senza un tale «per» il discorso sul «senso» è insensato: un «senso liberamente sospeso», non riferito a nulla, non esiste” (AM2, 360).

Questa relazione d’altronde è sempre fatalisticamente sottoposta all’iterazione: se la domanda di senso significa infatti chiedere ‘quale cosa’ rappresenta il senso di

213 “Ciò che oggi chiamiamo «natura» (umana, per esempio) non vale per nient’altro che per una

missione senza mittente, per una determinazione senza determinante, per un senso senza datore di senso – dunque per il non-senso“ (La natura eretica, p. 53).

un’altra, o questa domanda si pone all’infinito (“dato che sarebbe insensato aver senso per qualcosa che in se stesso è privo di senso”, AM2, 360) o ci costringe a chiedere il senso del tutto, che rimane però a sua volta, senza senso, non potendo ammettere qualcosa di ulteriore.

“Il concetto di ‘senso del mondo’ è, almeno in ogni filosofia non teologica, una contraddizione in termini. Totalmente insensata, puro ‘blabla’, è [invece] la presunta più profonda e metafisica domanda circa l’Ultimo, circa il cosiddetto ‘senso del mondo’. Se il mondo come totalità avesse un senso, allora lo avrebbe ‘per qualcosa’ – cosa che dimostrerebbe allora che esso non è ‘l’Ultimo’” (BvM, 166-167).

Per questo in ambito teologico ci si arresta, nel domandare, a Dio, di cui non si chiede che senso abbia, per non innescare un processo all’infinito, ma del quale si afferma che è “soltanto senso, qualsiasi cosa possa significare la frase retorica che suona profonda «essere senso»” (AM2, 462).

Se già con Leibniz appariva enigmatico rispondere per mezzo di Dio all’enigma del mondo (K, 16), con Nietzsche “dobbiamo avere il coraggio di ammettere e proclamare, insieme con la morte di Dio, anche la morte del senso”, riconoscere che non siamo “stati progettati” (AM2, 357).

Ci liberiamo in questo modo anche di quel ‘desiderio di schiavitù’ che il senso comporta: infatti “aver senso..significa sempre essere eteronomo, essere un mezzo per un fine, non essere libero” (AM2, 360).

La mancanza di senso del mondo non dipende però per Anders soltanto dalla condizione ontologicamente contingente dell’uomo, dal vuoto metafisico in cui si trova a vivere dopo il tramonto delle certezze teologiche, ma ha anche motivi più concretamente storici, si radica cioè, da un lato nel fenomeno della medialità (che scava un “abisso infinitamente vasto tra la nostra attività e ciò che grazie ad essa si realizza”, AM2, 338), dall’altro “nel fatto che siamo condannati a vivere in un universo di mezzi”, privo di ‘obiettivi finali’, dunque “complessivamente privo di senso” (AM2, 339)214.

Oltre il concetto di senso anche la morale è rimasta, dopo la morte di Dio, priva di basi (vedi K, 21; 123).

214 A questo proposito Anders polemizza fortemente con quelle ‘terapie del senso’ (come quella di

Viktor E. Frankl) che si limitano solo a confermare e stabilizzare questa condizione, promettendo il senso dove non c’è: il senso è prodotto artificialmente, per mezzo di terapie, attraverso una manovra di ottundimento e di sviamento. (Vedi anche: Uomini, 15).

A differenza di Heidegger, al quale rimprovera di non aver mai posto “la domanda di disperazione estrema del nichilismo (…) «Perché si deve dovere?»”( NE, 198), Anders ha invece questo coraggio.

Proprio durante una visita al campo di sterminio di Mauthausen, a colloquio con un professore americano, ritiene doveroso domandare: “Perché dobbiamo esserci noi uomini e perché deve esserci il mondo? E perché noi dobbiamo dovere?” (K, 28).

A questa domanda è però impossibile rispondere: la morale, così come l’esistenza dell’uomo, è infondabile, a meno che non supponiamo di essere “esseri che devono essere” (Seinssollende, K, 28).

L’ammissione della irrilevanza dell’uomo e la perdita del ruolo privilegiato all’interno della creazione significano infatti che, analogamente a quanto valeva per il concetto di senso, anche il dovere rimane un semplice “fenomeno interno” e cioè “la necessità di una morale del mondo e dell’uomo non può trovare a sua volta un fondamento morale” (AM1, 323).

Anders considera perduta ormai già da tempo la partita “per una «morale metafisica» che, “platonico-scolastica nello spirito” (Lütkehaus, 1992, p. 77), consideri buono “ciò che è, perché è così come è”; allo stesso modo come rifiuta l’ “errato cartesianismo” (verqueren Cartesianismus) che si esprime nella asserzione: “Noi siamo, perciò dobbiamo essere. E’ così. Dunque deve essere” (K, 30).

Di fronte alle serrate argomentazioni da lui svolte, il professore americano che lo accompagna in visita al campo di Mauthausen non può far altro che rompere ogni discussione, riconfermando l’equazione tra essere e dovere: “‘Noi ci siamo’ gridò quello. ‘Dunque così deve essere. Senza ulteriori commenti. Basta!’” (K, 29). Nonostante la sua infondabilità Anders non considera la morale né priva di senso né inutile; egli sa che essa in generale è la risposta necessaria dell’uomo alla sua insufficienza istintuale ed alla sua indeterminatezza naturale, in primo luogo dunque un ‘fatto antropologico’: ciò che distingue l’uomo dall’animale è dunque “non la facoltà di decidere, ma piuttosto la costrizione a dover decidere” (Uomini, 11), “noi non riusciremmo a vivere in una società se, recuperando ciò che la natura ha tralasciato, non ci dessimo e non seguissimo delle leggi – in breve, non ci resta nient’altro: dobbiamo ‘dovere’” (K, 258).

Ciò che sembra una virtù, la creazione di norme, leggi, regole, dipendendo dalla nostra povertà istintuale, si rivela un fattore di necessità; riconfermando riflessioni già svolte, specialmente nella critica ad Heidegger, egli afferma: “la domanda fondamentale deve essere quella circa le ‘condizioni della necessità’ (Bedingungen der Nötigkeit), non quella trascendentale sulle ‘condizioni della possibilità’ (Bedingungen der Möglichkeit)” (K, 258).

Se la morale ha il compito di evitare che l’umanità sprofondi nel caos e di assicurare perciò la sua continuazione, questo però non giustifica ancora la necessità che essa, l’ umanità, debba esserci215.

Il nichilismo di Anders che, sulla base di una filosofia della contingenza, sembra sottrarre alle categorie del senso e del dovere ogni valenza giustificativa e di sostegno all’ ‘essere’, appare dunque radicale e sembra confermare la sua stessa affermazione secondo la quale il nichilismo della bomba minaccia e rende nichilisti anche tutti coloro che da essa sono minacciati: a ragione Lütkehaus parla di una “irritante affinità tra bomba e filosofia della contingenza” (1992, p. 86), che distruggono, entrambe, le categorie del senso e del dovere.

Verso quest’ultima categoria anzi Anders procede con una tale radicalità da spingere Lütkehaus, solo come provocazione e a rischio di incomprensione, ad uno ‘scabroso’ paragone con i nazisti: dal momento che Anders interpreta il loro antisemitismo come il nichilistico tentativo di eliminare, con i discendenti dei fondatori nell’Antico Testamento’ della categoria del ‘dovere’, “la categoria del dovere in quanto tale” (Besuch, 211), “non elimina anche la filosofia della contingenza alla fine questa categoria?” (Lütkehaus, 1992, 85).

Molti sembrano infatti secondo lui i punti di contatto tra il monismo annichilistico della bomba ed il nichilismo di Anders: se per entrambi ‘tutto è uno ed uguale, tutto può essere o non essere’: “ Non lavora il nichilismo filosofico, che Anders (…) definisce come anticipazione dell’annichilismo, proprio a suo favore? (…)

215 La giustificazione di una risposta positiva, indipendente dalla religione, “alla questione di un

possibile «dover essere dell’essere» (Seinsollen)” (Il principio responsabilità, p. 61), è invece uno dei punti salienti della riflessione teorica di Jonas, che “si propone esplicitamente di realizzare una fondazione metafisica dell’etica, prendendo come punto di riferimento proprio una concezione di tipo aristotelico, cioè essenzialmente teleologica” (Berti, p. 225).

Sviluppando spunti già anticipati nelle ultime pagine di Organismo e libertà egli infatti, in Il

principio responsabilità, “recuperando il finalismo aristotelico ritiene che l’essere stesso in quanto

scopo a se stesso sia dotato di un valore intrinseco. Dall’essere Jonas, dunque, deriva un dover essere che in realtà è già posto nell’essere” (Becchi, p. 101). Egli pensa in questo modo di sfuggire alla fallacia naturalistica, che si basa sul presupposto che l’essere sia neutrale rispetto ai valori: “l’uomo perciò non inaugura il regno dei fini, ma prolunga quella finalità già esistente nella natura di cui è parte integrante” (ibid, p. 96).

Non ci sono nel suo pensiero sufficienti stimoli, a far assumere alla bomba le veci di luogotenente del nulla?” (ibid, p. 86), “ Anders dunque è in realtà un Erostrato filosofico?” (ibid, p. 87)216.