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Metafisica del mondo moderno

2. L’uomo è antiquato

3.6. Metafisica del mondo moderno

Le tre rivoluzioni industriali hanno modificato a tal punto il nostro rapporto con la realtà che Anders, alla fine dell’introduzione al secondo volume di AM, può parlare di una “Metafisica della rivoluzione industriale” (AM2, 25).

Se ci si pone la questione di cosa sia oggi il mondo “la risposta può essere soltanto questa: «materia prima». Dunque il mondo non viene interpretato come qualcosa in sé, ma come un mondo per noi”; non nel senso dell’«idealismo» tradizionale, ma nel senso di un “«idealismo pragmatico», nel senso che l’essente è correlato di ciò che è usabile” (AM2, 25-6); idealistico nella più ampia accezione è infatti per Anders “ogni atteggiamento che trasforma il mondo in qualche cosa di mio, di nostro, in qualche cosa di disponibile, insomma in un possessivo” (AM1, 135). Questo è ribadito nel “secondo assioma” di una ipotetica “ontologia economica ragionata” (più tardi ribattezzata “Ontologia della rapina”, AM2, 101), “cioè di una dottrina dell’essere quale appare dal punto di vista della produzione e dello

smercio odierni” (AM1, 196): “«Ciò che non si può utilizzare non è»” (AM1, 199).

A differenza del “classico homo faber”, cioè dell’uomo pretecnologico (che si limitava ad utilizzare porzioni di mondo “per creare il suo proprio mondo”), “l’uomo di oggi, nel mondo preso nel suo insieme, non vede eo ipso altro che materiale” (AM1, 202)144 ed impone a sé nuovi bisogni, piuttosto di lasciarlo

inutilizzato ed intatto. E’ infatti persuaso che “il mondo, così com’è, non è un mondo finito, non è un mondo vero, che propriamente non è ancora; che esso diventa vero e veramente essente soltanto quando, rielaborato, finito e messo in circolazione da noi, viene fatto sparire in quanto mondo” (AM1, 203).

Perciò la natura inutilizzabile, l’“eccesso di universo, per esempio la Via Lattea” rappresentano uno “scandalo metafisico” che provoca le “odierne lamentazioni nichilistiche sull’«assurdità del mondo»”, il “Weltschmerz dell’era industriale” (AM1, 200).

In un certo senso dunque l’ontologia economica è “un’etica che si propone il compito di redimere il caos del mondo dalla sua condizione di materia prima, di «peccaminosità», di «improprietà», che mira dunque a trasformare l’«improprio» in «vero e proprio», il caos in un vero cosmo di prodotti” (AM1, 201).

Il mondo appare ad essa come “il nome di un potenziale territorio di occupazione; energie, cose, uomini sono soltanto possibili materiali di requisizione. Materiali che per essi [gli apparati] acquistano validità, in senso stretto, solo dal momento in cui sono soggiogati e integrati, dunque costretti a funzionare insieme”; i termini essente e prendibile sono diventati intercambiabili: “«esse» = «capi»” (AM2, 101)145.

La tecnica, intesa non solo come l’insieme delle forme di produzione ma come forza che determina e forma tutto il campo dell’umano, assume perciò tratti metafisici, in quanto è essa che stabilisce il criterio di esistenza delle cose: “soltanto ciò che rivela di potersi eventualmente qualificare come parte di apparato viene registrato e riconosciuto come «essente»” (AM2, 100); “essere

144 In questo lo stesso Heidegger vedeva la verità epocale del materialismo storico di Marx:

“L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è solo materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro” (Lettera

sull’umanismo, in Segnavia, p.293); anche Anders, pur ritenendo che non esista in Marx “ancora expressis verbis questo legame tra sfruttamento ed esistenza, la sfruttabilità come criterio dell’esistere” (Linguaggio e tempo finale, 113, nota 17), non crede che questi l’avrebbe negato.

145 Alla vecchia equazione idealistica di Berkeley ‘esse=percipi’ si sostituisce quella

materia prima è un criterium existendi, essere è essere materia prima”(AM2, 26; vedi anche Linguaggio e tempo finale, 113).

Ma anche la scienza appare piegata a questa metafisica: “Il compito della scienza odierna dunque non consiste più nel rintracciare l’essenza segreta o le leggi immanenti del mondo delle cose, ma nello scoprire la loro segreta usabilità. La premessa metafisica (generalmente nascosta a se stessa) delle ricerche odierne è dunque che non esiste nulla che non sia sfruttabile” (AM2, 25).

La metafisica del mondo moderno si basa sull’ontologia nichilista della tecnica già esaminata “che non si accontenta, come l’ontologia platonica, di accogliere il non-essere nel mondo sensibile percorso dall’incessante divenire, ma eleva il non- essere di tutte le cose a condizione della sua esistenza, il loro non-permanere a condizione del suo avanzare e progredire” (Galimberti, 1999, p. 611), attraverso la ‘liquidazione’ dell’oggetto146.

3.6.1. Excursus: Scienza e tecnica in Heidegger

Seppur fortemente critico nei confronti delle riflessioni contenute in Sein und Zeit, Anders non si è mai occupato invece esplicitamente del posteriore pensiero di Heidegger, quello cioè della cosiddetta Kehre, in particolare della concezione della scienza e della tecnica in essa sviluppata. Questo silenzio si deve probabilmente al fatto che l’interpretazione andersiana della modernità coincide, nel complesso, con quella, certamente più complessa e teoreticamente approfondita, di Heidegger147, sebbene poi le conseguenze che quest’ultimo trarrà

da essa saranno oggetto di forte critica da parte di Anders.

Anche per Heidegger infatti l’essenza della scienza moderna consiste “nella esclusiva considerazione degli essenti come strutture calcolabili matematicamente e di conseguenza manipolabili con metodi rigorosi adeguatamente scelti, allo scopo di ricavarne le energie e le potenzialità nascoste” (Pansera, p. 39), ha dunque un carattere strumentale.

I dati osservativi non sono una trascrizione fedele della realtà, ma prodotto di quella visione anticipante, che determina il modo di darsi del reale, che è preso in

146 Come scrive Severino: “Se qualcosa non è technikòn – se cioè non produce o non è prodotto, o

non rientra nel processo del produrre-essere-prodotto – allora non è, ossia è un niente” (Essenza

del nichilismo, p. 197).

147 “Si può riconoscere in questa parte dell’opera di Anders una sorta di pendant materialistico alla

riflessione di Heidegger sulla tecnica come compimento della metafisica occidentale“ (Portinaro, 2003, p. 63, nota 107). Nella precedente versione del testo Portinaro giudicava però ’curioso’ e ’ingiustificabile’, che Anders non avesse mai fatto riferimento alla concezione heideggeriana della tecnica (Portinaro, 1986, p. 39).

considerazione soltanto se può essere misurato: “Una affermazione molto spesso citata di Max Planck suona: «E’ reale ciò che si può misurare»” (Saggi e discorsi, p. 36)148.

Questa interpretazione della conoscenza ricorda da un lato Nietzsche149, ma

soprattutto, nella sua intenzione di privare le asserzioni scientifiche di corrispondenze sostanziali con il reale, Kant150.

Ma se la scienza non può aspirare ad attingere alcuna realtà ontologica, se il suo “scopo non è più quello di cogliere la natura in quanto tale, di darne definizioni assolute ed incontrovertibili ma piuttosto di esprimere forme di osservazione- controllo, esse stesse intrinsecamente provvisorie e ridefinibili, dei fenomeni” (Cavallucci, Heidegger tra Metafisica e Tecnica, pp. 93-4), per meglio utilizzarli ai fini umani, quale differenza essenziale può sussistere allora tra scienza e tecnica, fra ricerca scientifica e operare tecnico?

In effetti, come afferma nella conferenza Die Frage nach Technik del 1953 (La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, pp. 5-27), che rappresenta uno dei testi più significativi al riguardo, per Heidegger scienza e tecnica riposano sul

148Per essa infatti condizione della manifestazione dell’ente è il progetto matematico dell’uomo,

con il quale sono stabilite in anticipo le determinazioni essenziali dell’oggetto, le condizioni, in base alle quali “in un dominio dell’ente, la natura ad esempio, viene progettato un determinato piano di fenomeni naturali” (Sentieri interrotti, p. 74).

E’ in questo contesto che noi possiamo capire il ruolo della matematica, “il carattere matematico” (La questione della cosa, Guida, Napoli, 1989, p. 99), che caratterizza la scienza moderna: τά μαθήματα non significava per i Greci, almeno all’inizio, la scienza dei numeri, della misurazione quantitativa, ma piuttosto il già conosciuto, ciò che è stabilito a priori (il verbo greco μαντάνειν significa infatti imparare): “I μαθήματα, la mathesis è ciò che invero già conosciamo «delle» cose, ciò che, conseguentemente, non prendiamo soltanto da loro, ma in certo modo rechiamo già in noi. Possiamo ora comprendere perché, ad es., il numero è qualcosa di «matematico»” (ibid, p. 104): il numerico è stato assunto come designazione del matematico soltanto perché i numeri costituiscono il tipo per eccellenza di conoscenza a priori di oggetti.

149 “Il suo metodo [dello scienziato] considera l’uomo come misura di tutte le cose: nel far ciò

tuttavia egli parte da un errore iniziale, credere cioè che egli abbia queste cose immediatamente dinanzi a sé, come oggetti puri. Egli dimentica che le metafore originarie dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse” (Su verità e menzogna in senso extramorale, in

Opere, Adelphi, Milano, 1973, vol. III, 2, p.364).

150“(…) la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con

principi de’ suoi giudizi secondo leggi immutatibili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande” (Critica della Ragion Pura, Bari, 1977, p.18). Del resto, “non è casuale il fatto che una delle più estese trattazioni che Heidegger abbia dedicato alla scienza si trovi in Die Frage nach dem Ding, un’opera che prende in esame la kantiana Analitica dei principi” (De Vitiis, Heidegger e la fine della filosofia, p. 134).

Anche nel saggio “La cosa” (Saggi e discorsi, pp.109-124) troviamo tematizzato il rapporto scienza-reale nei termini sopra esposti: “La scienza coglie sempre soltanto ciò a cui il suo modo di rappresentazione le dà accesso, ammettendolo preventivamente come un suo possibile oggetto” (ibid, p. 112). La struttura metafisica che riduce gli enti ad oggetti non può cogliere l’essenza delle cose (la kantiana “cosa in sé”), perché quest’ultima prescinde dalla funzione rappresentativa del soggetto. (“«Cosa in sè» significa, pensata in termini rigorosamente kantiani, un oggetto che non è oggetto per noi.”, ibid, p. 117).

medesimo fondamento, quella metafisica della soggettività, già pienamente operante nell’opera di Cartesio151.

Se la scienza gode di in vantaggio temporale, cronologico (a livello della Historie), rispetto alla tecnica, questa “è in realtà, rispetto all’essenza che in essa vige, ciò che viene storicamente (geschichtlich) prima” (ibid, p. 17), in quanto proprio nella tecnica si realizza la vera natura della scienza, la sua vocazione al controllo e dominio del reale.

L’essenza della tecnica moderna si rivela, secondo Heidegger, dopo che si sia compresa come insufficiente la sua rappresentazione comune, secondo la quale essa sarebbe un mezzo in vista di fini ed un’attività dell’uomo. Se “la definizione strumentale e antropologica della tecnica” (ibid, p. 5) può essere ‘esatta’, essa non è però ‘vera’, non ci rivela cioè la sua essenza: in quanto forma di ποίησις infatti essa non è un semplice mezzo, ma “un modo del disvelamento. Se facciamo attenzione a questo fatto, ci si apre davanti un ambito completamente diverso per l’essenza della tecnica. E’ l’ambito del disvelamento, cioè della verità (Wahr- heit)” (ibid, pp. 9-10).

Questa caratterizzazione della tecnica come un modo di disgelare - in quanto “dispiega il suo essere (west) nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza (Unverborgenheit), dove accade l’ άλήθεια , la verità” (ibid, p. 10) - è valida però per la tecnica antica, finchè la verità è disvelamento dell’essere, finchè cioè non si è costituito quell’oblio del senso dell’essere, del quale la metafisica della soggettività di Cartesio rappresenta un momento fondamentale.

Cos’è allora la tecnica moderna? Anch’essa è disvelamento. “Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un pro-durre nel senso della ποίησις. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro- vocazione (Herausfordern) la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta (herausgefördert) e accumulata” (ibid, p. 11).

151“E’ nella metafisica di Cartesio che per la prima volta l’ente è determinato come oggettività del

rappresentare e la verità come certezza del rappresentare stesso”(Sentieri interrotti, p. 84) ed essa mantiene la sua validità fino ad oggi.

Il cogito dunque esprime un nuovo concetto dell’essere: essere è essere rappresentato; il rappresentare diventa l’entità dell’ente: “rappresentare significa qui: a partire da sé porre qualcosa innanzi a sé e rendersi sicuri [e garanti] di questo «posto» come tale.” (ibid, p. 95, nota 9); l’ente diventa “oggetto”, das Gegen-ständige, ciò che la rappresentazione contrappone a sé; e la verità, il sapere autentico, diviene “certezza”, cioè “vale come sapere soltanto quel sapere che sa come tali, al tempo stesso, sé e il suo saputo e che in tale sapere è assicurato di se stesso” (Nietzsche, p. 882).

Per la tecnica moderna la natura ha perso il carattere di φύσις ed è diventata un serbatoio di energie: il suolo assume il carattere di giacimento metallifero o bacino carbonifero, i fiumi diventano dispensatori di pressione idrica, l’aria viene utilizzata per la produzione di azoto; mentre la tecnica antica assecondava la natura, disponendosi alla sua forza, che utilizzava dopo averla estratta, senza accumularla, la tecnica moderna considera la natura come un fondo a disposizione (Bestand), dove l’energia è estratta e accumulata per poter essere sempre a disposizione.

“Ciò che così ha luogo è dovunque richiesto di restare a posto (zur Stelle) nel suo posto (auf der Stelle), e in modo siffatto da poter essere esso stesso impiegato (bestellbar) per un ulteriore impiego (Bestellung). Ciò che così è impiegato ha una sua propria posizione (Stand). La indicheremo con il termine Bestand, «fondo».. Ciò che sta (steht) nel senso del «fondo» (Bestand), non ci sta più di fronte come oggetto (Gegenstand)” (ibid, p. 12).

L’ente perde dunque la sua oggettività e si trasforma in materiale impiegabile, liquidabile, come in Anders.

La tecnica dunque non è, per Heidegger, un operare umano: l’uomo può ‘pro- vocare’, cioè disvelare la natura, solo in quanto egli stesso soggiace ad una ‘pro- vocazione’, risponde cioè a “quell’appello pro-vocante che riunisce l’uomo nell’impiegare come «fondo» ciò che si disvela” (ibid, p. 14).

Questo appello è chiamato da Heidegger Gestell: il modo di darsi di tutto ciò che è, il modo di disvelamento che opera nella tecnica moderna, la dimensione complessiva, l’ambito di relazione in cui il ‘fondo’ trova la sua impiegabilità. La concezione antropologico-strumentale della tecnica appare perciò improponibile: la tecnica è piuttosto un modo essenziale di disvelamento dell’essere, un suo modo epocale di manifestarsi.