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Primi sviluppi del criterio neurologico

III. Nascita ed evoluzione del criterio neurologico di accertamento della morte

III.1. Primi sviluppi del criterio neurologico

Il criterio neurologico di accertamento della morte ha una storia lunga, parte della quale è slegata dalla trapiantologia: le prime riflessioni in merito risalgono alla fine del XIX secolo, quando ancora la chirurgia dei trapianti stava muovendo i suoi primissimi passi. In questo periodo, alcuni autori riportarono i casi di pazienti in cui, in presenza di un aumento della pressione intracranica, la respirazione subiva un immediato arresto, mentre il cuore continuava a battere per qualche ora46.

A cavallo tra il XIX e il XX secolo vennero riportati altri casi di pazienti che si trovavano in una condizione simile a quella che sarebbe stata definita in seguito “morte cerebrale”. Nel 1898, D. Duckworth riferì di diversi pazienti con lesioni cerebrali strutturali in cui la respirazione era cessata 4 ore prima della circolazione. Qualche anno dopo, nel 1902, H.

44 http://www.trapianti.salute.gov.it/cnt/cntPrimoPianoDett.jsp?area=cnt-

generale&menu=menuPrincipale&id=390.

45 I dati sono aggiornati al 28 febbraio 2017

(http://www.trapianti.salute.gov.it/imgs/C_17_primopianoCNT_391_listaFile_itemName_0_file.pdf).

46 Tra questi autori ricordiamo, per esempio, W. H. Jalland e V. Horsley. Il primo riportò il caso di un paziente in

cui, in seguito alla rimozione di un ascesso cerebrale, la pressione intracranica si era abbassata, permettendo la ripresa della respirazione spontanea cessata da alcuni minuti (1892). Horsley, in un articolo del 1894, affermò di aver osservato che i pazienti che avevano riportato emorragie cerebrali o fratture craniche depresse non morivano per arresto cardiaco, bensì per arresto respiratorio (C. MACHADO et al., The Concept of Brain Death

Cushing riportò il caso di un paziente in cui la respirazione spontanea era cessata in seguito ad un tumore intracranico, mentre il battito cardiaco era stato mantenuto per 23 ore grazie alla respirazione artificiale47. A questi studi si aggiungevano anche quelli di L. Hill, che, intorno al 1900, aveva osservato che la totale deprivazione di sangue paralizzava in breve tempo il cervello, ostacolando lo svolgimento delle sue funzioni48.

Nella prima metà del XX secolo vennero compiute diverse scoperte che avrebbero avuto una certa influenza sullo sviluppo del criterio neurologico della “morte cerebrale”. Tra queste va ricordata, soprattutto, l’invenzione dell’elettroencefalogramma (EEG) da parte di H. Berger (1929), che permise lo studio dell’attività elettrica del cervello. Ad essa seguirono gli studi di R. Schawb riguardanti sia il ruolo dell’EEG nella determinazione della morte umana, sia la relazione tra assenza di movimenti e di respirazione, ariflessia e EEG “piatto”, “triade” che sarebbe diventata il nucleo dei criteri di Harvard (anni ’40-’60). A questi anni risalgono anche la scoperta della “formazione reticolare”49 e gli studi sullo stato di coscienza e di

vigilanza da parte di G. Moruzzi e H. Magoun.

Fino agli anni ’60, la morte veniva accertata tramite la verifica della cessazione permanente della respirazione e del battito cardiaco, provocata, in genere, da un arresto cardiaco o respiratorio o da un danno cerebrale. Data l’interdipendenza di queste tre funzioni – respirazione, circolazione e attività cerebrale, era noto che la perdita irreversibile di una di esse avrebbe portato, in breve tempo, alla cessazione delle altre due.

L’interesse nei confronti della cosiddetta “morte cerebrale”50 crebbe tra gli anni ’50 e

’60, grazie allo sviluppo di due nuovi tipi di tecnologia. Da un lato, le tecniche diagnostiche per immagini, le quali permisero di osservare che, in alcuni pazienti in arresto respiratorio, non c’era traccia di circolazione sanguigna cerebrale. Dall’altro, le apparecchiature meccaniche per la rianimazione cardiopolmonare, come il respiratore automatico e il defibrillatore cardiaco: la loro introduzione permise, rispettivamente, di supportare la respirazione dopo un arresto respiratorio o un trauma cerebrale e di “far ripartire” il cuore dopo un arresto cardiaco.

L’invenzione di questi nuovi strumenti ebbe una conseguenza allo stesso tempo rivoluzionaria e disarmante: l’arresto cardiorespiratorio non era più il segnale inequivocabile

47 LAMB, Etica e trapianto degli organi cit., pp. 56-57. 48 MACHADO et al., The Concept of Brain Death cit., p. 197. 49 Cfr. p. 75.

50 Il termine “morte cerebrale” è fuorviante, perché porta a pensare che ci si stia riferendo ad un nuovo tipo di

morte, quella di un singolo organo, il cervello, in un corpo ancora “vivo”. In realtà, come verrà chiarito in seguito, con esso si indica un nuovo modo per accertare la morte e non una nuova definizione della morte stessa. Nonostante la sua ambiguità, ci avvaliamo di questo termine poiché ormai si è affermato nel linguaggio comune.

dell’avvenuto decesso del paziente, dato che c’era la possibilità di intervenire per ripristinare la respirazione e la circolazione.

Nonostante i supporti meccanici, però, in alcuni pazienti in arresto cardiorespiratorio il cervello non recuperava le sue funzioni, poiché era stato privato troppo a lungo dell’apporto di ossigeno. Questo fatto portò allo stravolgimento dell’interdipendenza esistente tra respirazione, circolazione e attività cerebrale: le prime due potevano essere mantenute artificialmente, mentre la terza non era supportabile o “rimpiazzabile” in alcun modo.

Questa situazione del tutto nuova, in cui i pazienti mantenevano la circolazione e la respirazione in assenza dell’attività cerebrale, venne studiata e descritta per la prima volta nel 1959, da due gruppi di ricercatori francesi.

P. Wertheimer e M. Jouvet definirono questa condizione “morte del sistema nervoso centrale” ed elencarono i criteri diagnostici per identificarla: persistente coma apneico (cioè in assenza di respirazione spontanea); assenza di riflessi mediati dal tronco cerebrale (corneale, fotomotore, oculo-vestibolare) e dei riflessi tendinei; assenza di attività elettrica del cervello, non rilevabile né in superficie né in profondità (accertata con EEG). Secondo Wertheimer e Jouvet, se questa diagnosi fosse rimasta immutata per un periodo di tempo compreso tra le 18 e le 24 ore sarebbe, allora, diventato possibile spegnere il respiratore automatico a cui il paziente era attaccato51.

Questa condizione fu oggetto di studio anche da parte di P. Mollaret e M. Goulon, i quali la definirono “coma dépassé”52, per indicare che il paziente si trovava in uno stato “oltre

il coma”. In aggiunta alle caratteristiche riscontrate da Wertheimer e Jouvet, Mollaret e Goulon osservarono che i pazienti in stato di coma dépassé erano incapaci di rispondere agli stimoli esterni e di regolare il loro ambiente interno. Ciò era segnalato dall’assenza di regolazione della temperatura corporea, incontinenza, incapacità di mantenere costante la pressione sanguigna, a cui si aggiungevano ipotonia dei muscoli e assenza di risposte motorie agli stimoli. A differenza dei loro colleghi, però, Mollaret e Goulon non accennarono alla possibilità di staccare il respiratore ai pazienti in coma dépassé53.

Entrambi i gruppi di ricerca francesi avevano concluso che la condizione da loro descritta era irreversibile e che, di conseguenza, il cervello dei loro pazienti non avrebbe ripreso la propria funzionalità. Nonostante ciò, nessuno di essi arrivò a sostenere che il coma

51 LAMB, Etica e trapianto degli organi cit., p. 57.

52 Il termine “coma dépassé” rimase in uso solamente in Francia, mentre negli altri paesi si è affermato il termine

“brain death”, tradotto in italiano con “morte cerebrale”. Il 24 maggio del 1988 l’Accademia di medicina francese ha respinto l’uso di “coma dépassé” in favore di quello di “brain death”, poiché l’utilizzo di due diversi termini portava erroneamente a ritenere che essi facessero riferimento a condizioni cliniche differenti tra loro.

dépassé o la morte del sistema nervoso centrale fossero dei criteri sufficienti per accertare la morte dei loro pazienti.

Inizialmente, quindi, questa nuova diagnosi non mise in dubbio il criterio “tradizionale” di accertamento della morte, quello cardiopolmonare, basato sulla cessazione della respirazione e del battito cardiaco. Essa, inoltre, non era ancora particolarmente nota, dato che poteva essere osservata e descritta soltanto in quei reparti di rianimazione che disponevano delle tecnologie necessarie ad impedire l’apnea irreversibile.

La riflessione intorno alla “morte cerebrale” iniziò, quindi, ben prima del Comitato di Harvard e si sviluppò proprio in questi anni per due motivi principali: da un lato, i progressi tecnologici nel campo della rianimazione; dall’altro, lo sviluppo dei trapianti di organi.

È difficile negare che, ad un certo punto, la storia del criterio neurologico di morte si intrecci con quella della trapiantologia, anche se riteniamo che sia necessaria una certa cautela nell’istituire un collegamento, seppur indubitabile, tra questi due fenomeni.

Da un lato, proprio lo sviluppo della trapiantologia incrementò, intorno agli anni ’60, i tentativi volti a perfezionare il criterio neurologico della “morte cerebrale”, tentativi che raggiunsero un momento cruciale nel 1968 con il report di Harvard. Lo sviluppo della trapiantologia significò, infatti, l’aumento della domanda di donatori cadaveri: questo fatto, unito ai sempre maggiori successi nel campo della rianimazione, fece crescere l’esigenza di chiedersi che cosa significava essere morti54. Nel caso di un trapianto di organi è necessario conoscere il momento in cui un potenziale donatore è deceduto, poiché è da questo momento in poi che si può procedere con il prelievo degli organi senza infrangere la “dead donor rule”. Questo principio, su cui si fonda l’intera trapiantologia, stabilisce che il prelievo di organi, anche se eseguito con fini nobili come la donazione, non può essere la causa della morte del donatore: di conseguenza, gli organi devono essere prelevati solo una volta accertata la morte del donatore stesso55.

Dall’altro lato, va osservato che lo sviluppo del concetto di “morte cerebrale” ha contribuito a quello della trapiantologia. Un individuo la cui morte venga accertata tramite questo criterio neurologico rappresenta, infatti, la fonte ideale da cui prelevare gli organi: le sue funzioni cardio-respiratorie sono supportate artificialmente e, quindi, gli organi destinati all’espianto sono mantenuti “vitali” grazie al continuo apporto di sangue e ossigeno. In questo modo, al ricevente possono essere trapiantati organi il più possibile funzionali.

54 Alla nascita di questa esigenza aveva contribuito in modo rilevante il primo trapianto di cuore del 1967.

Questo evento straordinario aveva dimostrato che il cuore prelevato da una persona morta poteva continuare a “vivere” in un’altra stravolgendo, così, la teoria tradizionale che vedeva nel cuore battente l’elemento discriminante tra la vita e la morte.

55 Ci si sta qui riferendo al prelievo di quegli organi che possono essere donati solo da cadavere, escludendo, per

Da quanto appena esposto, però, non deriva automaticamente che il bisogno di organi “vitali” per i trapianti debba essere il motivo che spinge all’uso del criterio neurologico per l’accertamento di morte. Al contrario, come sottolineato dai comitati etici e dalla normativa di diversi paesi, la dichiarazione di morte dovrebbe essere del tutto indipendente rispetto alla futura destinazione degli organi del paziente.

Come si vedrà nel prossimo paragrafo, il report di Harvard non sembra aver mantenuto questa cautela nell’istituire un collegamento tra la dichiarazione di morte e il prelievo degli organi. Proprio per questo motivo esso è stato oggetto di critica da parte di altri documenti ufficiali, pubblicati in seguito, tra cui quello emanato dalla President’s Commission nel 1981.