L’idea di trapiantare una parte del corpo di una persona in un'altra sembra avere una storia particolarmente lunga. Di essa si trovano tracce già nel Genesi, dove una costola di Adamo viene prelevata per plasmare la donna e nella tradizione agiografica, con le figure dei SS. Cosma e Damiano, i quali trapiantarono una gamba nel loro sacrestano per salvarlo.
I primi tentativi di trapianto di cui si ha notizia, risalgono però a qualche secolo più tardi: intorno al 1545, Giuseppe Tagliacozzi, professore di anatomia e medicina all’università di Bologna, aveva ideato una tecnica per eseguire trapianti autologhi di pelle allo scopo, probabilmente, di ricostruire il naso di alcuni dei suoi pazienti.
Questa procedura non ebbe un vero e proprio nome fino al XVIII secolo, quando il chirurgo inglese John Hunter coniò il termine “trapianto” per indicare i numerosi tentativi di innesto di denti, tendini e ossa che aveva compiuto nei suoi pazienti22.
21 Fa eccezione, invece, la donazione samaritana, per la quale è previsto un iter specifico (cfr. p. 52).
22 La fama di Hunter è legata soprattutto agli studi sui “freemartin”, che saranno il punto di partenza della ricerca
intorno al fenomeno del “chimerismo” degli anni ’50 del Novecento (cfr. p. 60).
Con il termine “freemartin” si indicano generalmente le vitelle sterili. Hunter notò che, nelle coppie di vitelli gemelli dizigoti, le femmine presentavano delle gonadi molto rudimentali, simili a quelle maschili, ma non seppe spiegare questo fenomeno. Successivamente, altri scienziati ipotizzarono che ciò fosse dovuto al fatto che, durante la gestazione, il sangue placentare dei due esemplari era venuto a contatto e che gli ormoni maschili erano rimasti in una certa percentuale nel sangue della femmina, determinando la conformazione maschile delle sue gonadi (C. F. BARKER and J. F. MARKMANN, Historical Overview of Transplantation, “Cold Spring Harbor Perspectives in Medicine”, 3 (2013), pp. 1-19, qui pp. 6 e ss.).
Oltre agli esperimenti di Hunter, altri tentativi di trapianto di tessuti vennero compiuti nel corso del XVIII e del XIX secolo, anche se la pratica trapiantologica si affermò, a tutti gli effetti, nel corso del Novecento.
Il XX secolo si aprì con un’importante scoperta in campo chirurgico. Intorno al 1902 Alexis Carrel sviluppò l’innovativa tecnica dell’anastomosi vascolare, ovvero della sutura dei vasi sanguigni: essa veniva eseguita utilizzando dei punti realizzati con un ago sottile e del filo di seta, secondo quanto Carrel aveva imparato dai lavoratori di pizzo di Lione23. Questa
tecnica innovativa, unita alla rigorosa asepsi osservata da Carrel, si dimostrò efficace e diede un notevole contributo allo sviluppo della chirurgia dei trapianti.
Nei primi anni del XX secolo furono compiuti alcuni tentativi di trapianto di cornea e di organi solidi: a Vienna, E. Ullman riportò il primo trapianto omologo (ovvero tra individui della stessa specie, in questo caso cani) di rene (1902); a Chicago, Carrel e C. Guthrie tentarono di trapiantare il cuore di un cane in un esemplare più grande della stessa specie e si dedicarono a numerosi esperimenti sui trapianti di altri organi solidi negli animali (1905- 1906); a Lione, M. Jaboulay eseguì i primi trapianti eterologhi su esseri umani, trapiantando due reni prelevati, rispettivamente, da una pecora e da un maiale in due pazienti con insufficienza renale (1906). Tutti o quasi questi primi tentativi non ebbero successo, dato che gli organi trapiantati venivano rigettati nel giro di qualche ora o, al massimo, di qualche giorno.
Questi fallimenti erano dovuti, probabilmente, alla mancanza di compatibilità tissutale tra gli individui della stessa specie e alle barriere immunologiche e biologiche tra quelli di specie diverse. All’epoca era nota la presenza di una qualche “incompatibilità biologica” alla base del rigetto degli organi, ma non si riusciva a comprenderne la natura, dato che non erano ancora stati scoperti né il sistema HLA né la funzione dei linfociti.
A causa degli insuccessi dei primi tentativi, la pratica dei trapianti venne abbandonata per circa un ventennio. In questo periodo, le uniche eccezioni furono gli esperimenti del chirurgo russo Y. Voronoy, il quale, tra il 1933 e il 1936, compì i primi trapianti omologhi sugli esseri umani, innestando in diversi pazienti i reni di alcuni donatori cadaveri. Nessuno di questi tentativi ebbe successo e, fino agli anni ’40, del trapianto di organi non venne fatta alcuna applicazione clinica. Nonostante il loro fallimento, gli esperimenti compiuti nella prima metà del XX secolo ebbero, però, il merito di migliorare le procedure tecniche relative al prelievo e all’innesto degli organi.
23 P. DYER and R. JOHNSON, The Historical Basis of Current Challenges in Organ Transplantation,
L’epoca “moderna” della trapiantologia cominciò dopo la fine della seconda guerra mondiale, con lo sviluppo dei trapianti di tessuti rinnovabili o non vascolarizzati come, rispettivamente, i tessuti sanguigno ed epiteliale e le cornee. In questi stessi anni, gli studi di Peter Medawar e la scoperta dei primi antigeni HLA portarono alla formulazione dei concetti di “identità immunologica” e di “compatibilità tissutale” e alla comprensione dei meccanismi immunologici alla base del rigetto.
Intorno al 1944, Medawar e T. Gibson stavano valutando l’uso del trapianto allogenico di pelle come terapia su coloro che erano rimasti gravemente ustionati durante la guerra: queste analisi, seguite da numerosi esperimenti, permisero loro di studiare in modo approfondito il fenomeno del rigetto. In laboratorio, Medawar e Gibson si avvalsero di topi, sui quali trapiantarono ripetutamente innesti di pelle prelevati da uno specifico donatore: ad ogni trapianto, il tempo di sopravvivenza del tessuto innestato diventava sempre più breve, in un intervallo che andava da una decina di giorni per il primo innesto a poche ore per il quarto e il quinto tentativo24.
Queste osservazioni spinsero i due scienziati a formulare due principi fondamentali: il rigetto consisteva in una reazione immunitaria dell’organismo ricevente; il sistema immunitario era in grado di conservare “memoria” degli antigeni non-self e, per questo, una volta rientrato in contatto con essi, innescava una reazione immunitaria sempre più rapida.
Il nome di Medawar, insieme a quelli di L. Brent e R. Billingham, è legato anche ad alcuni importanti studi sulla “tolleranza indotta”25, pubblicati nel 1953. Medawar, Brent e
Billingham isolarono alcune popolazioni di leucociti dalla milza o dal midollo osseo di topi adulti, iniettandole in seguito nella circolazione sanguigna sia di topi appena nati sia di topi adulti sottoposti ad elevate dosi di radiazioni. Il rigetto non si verificò né nei topi neonati né in quelli adulti per le seguenti ragioni: i primi non avevano ancora sviluppato un sistema immunitario in grado di attaccare le cellule del donatore; i secondi erano stati immunosoppressi dalle radiazioni cui erano stati esposti.
Questi topi erano diventati a tutti gli effetti delle “chimere biologiche”, in quanto possedevano, nel midollo osseo, cellule geneticamente identiche a quelle del donatore e, nel resto dell’organismo, cellule aventi il proprio genotipo. Grazie a questa condizione di “chimerismo”, i topi erano ora in grado di “accettare”, senza rigettarlo, un trapianto di organo o di tessuto prelevati dallo stesso donatore da cui avevano ricevuto il midollo osseo: essi
24 T. E. STARZL, Organ Transplantation: A Practical Triumph and Epistemologic Collapse, “Proceedings of
the American Philosophical Society”, 3 (2003), pp. 226-245, qui pp. 226-227.
25 La tolleranza, come visto in precedenza, consiste nella non responsività dei linfociti nei confronti di un
antigene. Essa si distingue in “tolleranza naturale” e “tolleranza indotta”: la prima riguarda la non responsività del sistema immunitario nei confronti dei propri antigeni; la seconda è quella sviluppata nei confronti degli antigeni esterni.
erano, cioè, diventati “tolleranti” nei confronti degli antigeni di questo specifico donatore, ma non verso quelli di altri.
La conseguenza più ovvia di questi esperimenti sarebbe stata quella di sottoporre i riceventi di un trapianto di organo o di tessuto anche ad un trapianto di midollo osseo, in modo da renderli tolleranti nei confronti degli antigeni del donatore. In realtà, poiché non erano ancora noti i meccanismi della GvHD né la necessità della compatibilità HLA, il trapianto di midollo osseo non era ancora considerato una pratica terapeutica efficace26.
L’anno successivo alla pubblicazione degli studi di Medawar e colleghi venne realizzato un importante successo nel campo della trapiantologia. Il 23 dicembre del 1954, a Boston, J. Murray e J. Merrill eseguirono il primo trapianto di rene da vivente tra gemelli omozigoti e il paziente sopravvisse per otto anni dopo l’operazione. Questo episodio generò una reazione entusiasta in tutto il mondo.
In realtà, poiché gli individui coinvolti erano geneticamente identici, questo primo successo non contribuì al miglioramento delle conoscenze dei meccanismi immunologici del trapianto, ma dimostrò, comunque, che le procedure tecniche con cui venivano eseguiti il prelievo e l’innesto degli organi erano efficaci e funzionali.
Prima del 1954 erano stati eseguiti altri trapianti di rene27: nel 1951, a Boston, D. Hume aveva trapiantato nove pazienti e, nel 1952, analoghi tentativi erano stati compiuti a Parigi da R. Kuss e C. Dubost con reni rimossi da prigionieri ghigliottinati. Nessuno di questi trapianti aveva avuto successo, probabilmente perché non ci si era avvalsi del supporto della terapia immunosoppressiva ma della sola compatibilità ABO tra i gruppi sanguigni28.
Il condizionamento con radiazioni X venne introdotto solo in seguito e questa “innovazione” permise l’esecuzione di trapianti di rene anche tra fratelli con diverso corredo genetico. Il tasso di insuccesso rimase, in ogni caso, altissimo, dato che alle radiazioni non faceva seguito il trapianto di midollo osseo29. Per esempio, tra il 1958 e il 1962, al Peter
Brigham Bent Hospital ci fu un solo sopravvissuto tra i 12 pazienti irradiati e sottoposti al
26 STARZL, Organ Transplantation cit., pp. 228 e ss.
27 Le ragioni principali per cui il rene fu l’“apripista” nel trapianto di organi solidi sono le seguenti: lo sviluppo
della dialisi e, quindi, la possibilità di avvalersi di questa terapia nel caso del fallimento del trapianto, in attesa di un nuovo rene disponibile; il fatto che il rene fosse un organo “doppio” e, quindi, prelevabile anche da un donatore vivente; la relativa semplicità delle funzioni renali, che rendevano il trapianto di rene facilmente monitorabile negli esperimenti in laboratorio e nelle sue applicazioni cliniche (C. G. GROTH et al., Historical
Landmarks in Clinical Transplantation: Conclusions from the Consensus Conference at the University of California, Los Angeles, “World Journal of Surgery”, 24 (2000), pp. 834-843, qui p. 836).
28 La compatibilità ABO era stata scoperta verso l’inizio del XX secolo da Karl Landsteiner ed era messa in
pratica già da tempo nelle trasfusioni di sangue e nei trapianti di organo (cfr. p. 11).
29 Come visto in precedenza, il trapianto di midollo osseo iniziò ad essere considerato una terapia valida non
trapianto allogenico di rene e questi primi insuccessi condizionarono negativamente, per qualche tempo, lo sviluppo della trapiantologia30.
A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 si verificò un altro evento importante nella storia della trapiantologia del rene e degli altri organi solidi: visti i danni provocati dalla terapia immunosoppressiva con radiazioni, gli sforzi vennero indirizzati verso la ricerca di farmaci antirigetto. Nel 1959, R. Schwarz e W. Damashek sperimentarono l’utilizzo di una sostanza chiamata 6-mercaptopurina nei trapianti allogenici tra conigli, rilevando una riduzione dell’insorgenza del rigetto. A differenza delle radiazioni, la mercaptopurina non eliminava la risposta immunitaria del paziente, bensì la modificava, rendendola “attiva” solo nei confronti degli agenti patogeni e non verso il tessuto trapiantato. La mercaptopurina diede dei risultati positivi anche nel trapianto di rene tra esseri umani ma venne presto sostituita con la azatioprina, uno suo derivato meno tossico31.
L’introduzione dei farmaci immunosoppressori permise il successo, tra il 1961 e il 1962, di alcuni trapianti di rene da donatori familiari o da cadaveri, i quali furono percepiti come un vero e proprio trionfo collettivo nonostante fossero, in realtà, dei casi isolati.
Nel settembre del 1963, durante un meeting a Washington, Thomas Starzl espose al pubblico i risultati di una trentina di trapianti che aveva eseguito in precedenza, utilizzando reni prelevati da donatore deceduto o da donatore vivente non familiare. Questi trapianti avevano avuto successo e il loro esito, così distante dal trend generale, fu giustificato dalla nuova tecnica immunosoppressiva introdotta da Starzl stesso, che prevedeva l’uso combinato di azatioprina e prednisone, necessario per prevenire il rigetto. Data la sua efficacia, questo protocollo innovativo venne presto adottato da altri, decretando un generale abbassamento del tasso di mortalità post-trapianto32.
Dal 1964 circa al 1980 si assistette all’introduzione graduale di alcune innovazioni nel campo della trapiantologia, tra le quali: la sperimentazione dei trapianti degli organi extra- renali; il miglioramento delle tecniche di preservazione degli organi; lo sviluppo di test di tipizzazione tissutale; l’accettazione del concetto di “morte cerebrale”33.
Dopo il rene, il primo organo ad essere trapiantato fu il fegato. I primi tentativi risalgono al 1963, quando Starzl eseguì tre diversi trapianti, in cui la sopravvivenza massima fu di 21 giorni. Rispetto al trapianto di rene, la realizzazione del trapianto di fegato era più complessa, per due motivi principali: la difficoltà tecnica del prelievo del fegato, situato in una posizione anatomicamente meno accessibile rispetto a quella del rene; l’impossibilità di
30 S. B. NULAND, Storia della medicina. Dagli antichi greci ai trapianti d’organo, Mondadori, Milano 2004,
pp. 452 e ss.
31 BARKER and MARKMANN, Historical Overview of Transplantation cit., pp. 9-10. 32 Ivi, p. 10.
eseguire il trapianto nei pazienti con insufficienza epatica terminale, per i quali non era disponibile un supporto artificiale comparabile alla dialisi renale.
Nonostante le difficoltà, nel 1965 venne eseguito, su un cane, il primo trapianto con sopravvivenza di oltre un anno e, tra il 1967 e il 1968, Starzl effettuò sette trapianti di fegato su altrettanti bambini, 4 dei quali ebbero successo. Dagli anni ’70, una nuova terapia immunosoppressiva, introdotta da R. Calne, permise l’aumento del tasso di sopravvivenza e il trapianto di fegato si affermò gradualmente come terapia clinica necessaria per curare l’insufficienza epatica acuta e cronica34.
Nel decennio ’50-’60 vennero compiuti, inoltre, numerosi studi sul trapianto di cuore, in particolar modo alla Standford University, dove si tentarono diversi trapianti su cani e primati non-umani. I risultati ottenuti giustificarono la decisione di procedere clinicamente anche sugli esseri umani e il 3 dicembre 1957, a Città del Capo, Christiaan Barnard eseguì il primo trapianto di cuore. Il paziente, un 54enne di nome Louis Washkansky, morì dopo 18 giorni a causa di una polmonite, sorta in seguito alla terapia immunosoppressiva. Nonostante questo insuccesso, Barnard effettuò un secondo trapianto di cuore nel giro di qualche settimana, precisamente il 2 gennaio 1968: il paziente sopravvisse 84 settimane e morì a causa del verificarsi del rigetto cronico.
Il fatto che entrambi i primi due trapianti di cuore fossero falliti non intaccò l’entusiasmo generato dalla realizzazione di questa procedura35, il quale sfociò in una vera e
propria “febbre da trapianto”: nei 15 mesi successivi alla prima operazione di Barnard vennero eseguiti circa 118 trapianti di cuore in 18 diversi paesi. La maggior parte dei pazienti, però, morì nell’arco di qualche settimana o di qualche mese, dato che scarse erano le conoscenze relative al rigetto: presto il trapianto di cuore venne considerato una pratica ancora troppo prematura e rischiosa e, nel corso degli anni ’70, subì una battuta d’arresto36.
Gli anni ’60 segnarono l’inizio dei primi tentativi di trapianto di polmone, di pancreas e di midollo osseo.
Per quanto riguarda il polmone, nel 1963 J. Hardy effettuò il primo trapianto su un essere umano ma, dato che il ricevente non fu sottoposto ad un trattamento immunosoppressivo, il trapianto non ebbe successo. Il primo caso di trapianto in cui il
34 GROTH et al., Historical Landmarks in Clinical Transplantation cit., p. 838.
35 Secondo quanto osservato da David Lamb, il clamore suscitato dal primo trapianto di cuore non fu dovuto solo
a motivazioni “scientifiche” ma anche morali. Esso, infatti, sollevò numerose questioni “sulla natura e il valore stessi della vita” e mostrò come, nella mentalità comune, “i trapianti di cuore non fossero percepiti come una mera sostituzione di una pompa e di un apparato per la circolazione del sangue”, dato il significato morale, simbolico e culturale del cuore (D. LAMB, Etica e trapianto degli organi, Il Mulino, Bologna 1995, p. 33).
paziente sopravvisse per oltre un anno venne effettuato da J. Cooper e risale al 1983, due anni dopo il primo trapianto multiorgano cuore-polmone.
Nel 1966 venne eseguito il primo trapianto di pancreas da parte di C. W. Lillehei e, nel corso degli anni, diventò a tutti gli effetti una terapia funzionale alla cura di pazienti affetti da diabete mellito insulinodipendenti. Al trapianto dell’intero pancreas si è aggiunto, nel corso del tempo, quello di isole pancreatiche, consolidatosi durante gli anni ’90.
Man mano che il trapianto d’organi si affermava come terapia per la cura di diverse patologie, cresceva l’esigenza di un metodo che permettesse la conservazione degli organi una volta espiantati, in modo da non comprometterne la qualità e la funzionalità. Nonostante il principio di ipotermia fosse noto già da tempo, non erano state compiute molte ricerche su come metterlo in pratica al fine di preservare gli organi. Agli esordi della trapiantologia, la tecnica maggiormente utilizzata consisteva nell’ipotermia totale del corpo dei donatori viventi, oppure nella semplice immersione degli organi espiantati in acqua salata prima del trapianto. Nel corso degli anni ’60 venne escogitato un metodo più funzionale, consistente nella perfusione degli organi con soluzioni fredde, che venivano infuse nei vasi sanguigni dell’organo, preservandolo dai danni in cui poteva incorrere durante l’intervallo di ischemia calda37.
Poter conservare gli organi per un certo intervallo di tempo (oltre 6 ore per il rene) significava anche poterli trasportare da un centro trapianti all’altro e, quindi, condividerli con altre equipe che ne avevano bisogno per i propri pazienti. Inizialmente, la “condivisione” degli organi avveniva in modo informale e su scala locale ma ben presto si avvertì l’esigenza di regolamentarla da un punto di vista etico e legislativo38.
A questo periodo risalgono anche gli sviluppi di nuovi metodi relativi alla ricerca della compatibilità tissutale tra donatore e ricevente. Per esempio, nel 1964 Paul Terasaki escogitò il cosiddetto “microtoxicity test”39, che permetteva la ricerca e la tipizzazione degli antigeni
HLA di un individuo, consentendo, inoltre, la valutazione del grado di compatibilità HLA tra donatore e ricevente.
Il decennio ’70-’80 fu, quindi, un periodo di progresso ma, nonostante le innovazioni, il tasso di mortalità nei trapianti di organi solidi era comunque molto alto, con l’unica eccezione dei trapianti di rene da donatori familiari viventi.
Questo trend subì un’inversione all’inizio degli anni ’80, grazie all’introduzione di un nuovo farmaco immunosoppressore, la ciclosporina. Le sue proprietà immunosoppressive
37 BARKER and MARKMANN, Historical Overview of Transplantation cit., pp. 11-12. 38 Come fece, per esempio, la legge italiana 644/1975 (cfr. p. 83).
39 In questo test, le cellule del sangue del donatore vengono HLA-tipizzate mescolandole con un siero contenente
gli anticorpi HLA del ricevente: se questi “riconoscono” gli antigeni delle cellule del donatore, esse vengono immediatamente lise, segno che il donatore e il ricevente del trapianto non sono HLA-compatibili.
erano state osservate per la prima volta da J. F. Borel intorno al 1974, dopo averla testata in allotrapianti eseguiti su topi e ratti. Borel aveva notato che la ciclosporina agiva “selettivamente”, impedendo il rigetto dei tessuti trapiantati senza attaccare i linfociti del midollo osseo: questo farmaco, quindi, non indeboliva eccessivamente il sistema immunitario del paziente, evitando che rimanesse esposto ad un elevato rischio di sepsi.
L’uso della ciclosporina consentiva il superamento di alcune delle barriere immunologiche dovute alla compatibilità HLA, aumentando, così, la probabilità di successo del trapianto. Grazie alla sua introduzione, i trapianti di organi iniziarono ad essere considerati non più come pratiche sperimentali bensì come terapie di routine.
Ci si rese ben presto conto, però, che la ciclosporina aveva degli effetti collaterali particolarmente gravosi sulla salute del paziente, come nefrotossicità, ipertensione e diabete. Inoltre, una terapia immunosoppressiva a lungo termine a base di ciclosporina poteva contribuire all’aumento dell’incidenza di malattie neoplastiche, generalmente tenute sotto controllo dal sistema immunitario. Intorno agli anni ’90, la ciclosporina è stata gradualmente