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Non è raro imbattersi, al giorno d’oggi, in revivals più o meno precisi della vecchia civiltà contadina italiana. Si tratta spesso di ricostruzioni patrocinate da enti locali con lo scopo, più o meno dichiarato politicamente, di salvaguardare le radici pre-industriali d’Italia di fronte a un mondo sempre più globalizzato, anglicizzato e ultra-connesso.

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Riflessioni identitarie a parte, un ruolo fondamentale in queste ricostruzioni è svolto dalle canzoni popolari. Secondo lo storico Emilio Franzina,

Alle soglie della nuova fase dell’emigrazione italiana che si convertirà, intorno al 1890, in un fenomeno irrimediabilmente strutturale […] vi è una sicura vocazione necroforica o una sopravvalutazione, nel bene o nel male, degli elementi di acuta nostalgia che l’allontanamento procura, diffondendo il cosiddetto mal di paese.80

La maggior parte di queste canzoni riguardano il lavoro o l’emigrazione, e talvolta questi due temi vengono presentati assieme, uniti da un’atmosfera quasi sempre luttuosa e oscura. A noi risulta pressoché impossibile addentrarci con cognizione di causa nella galassia musicale delle varie località italiane; una civiltà frazionata e complessa come quella della penisola ha reagito in modi originalissimi e interessanti al fenomeno dell’emigrazione, e a noi conviene, per i fini di questa ricerca, basarci su una campionatura musicale ristretta, individuando gli elementi principali che ci permettono di avere un’idea generale del fenomeno.

Il mito italiano (o meglio, più propriamente, contadino) dell’America parte dalla concezione di Terra Promessa che, mutuata dal mondo biblico, viene adattata al sogno d’evasione di cui si parlava nei paragrafi precedenti. L’America diventa una sorta di paradiso terrestre; un altrove edenico dove le fatiche dei poveri, degli ultimi, dei lavoratori, vengono finalmente ripagate; un nuovo mondo da dove piovono le rimesse degli emigrati, che a casa diventano il simbolo tangibile della redenzione – la salvezza personale raggiunta a suon di dollari.

La cultura musicale e popolare di radice cristiana si salda alla perfezione con il tema migratorio. Nella tradizione meridionale esiste una canzone, comunemente intitolata La preghiera

dell’emigrante,81 che è un accorato appello alla protezione della Madonna. Nel testo (tradotto in

italiano dai vari dialetti) si legge:

Madonna, guarda e proteggi tutti gli emigranti Madonna, ti prego accogli tu la mia preghiera Madonna, vorrei che confortassi mamma mia.

La ridondanza verbale è tipica delle preghiere, così come la struttura paratattica estremamente semplificata. L’appello alla Madonna non è per nulla una sorpresa, dal momento che l’adorazione della Madre di Cristo era molto viva soprattutto nel Meridione; gli emigranti, che

80 FRANZINA Emilio. Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione (1850–1940) cit., p. 61.

81 Esistono un numero imprecisato di versioni – cantate e recitate – della Preghiera dell’emigrante. Spesso variavano da regione a regione, talvolta da villaggio a villaggio.

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partivano lasciando a casa la moglie e la madre, spesso si rifugiavano nell’unica figura femminile che potessero portare con sé oltre la traversata oceanica.

Cantare significava mandare a memoria melodie, ricordi ed elementi peculiari della propria tradizione. I migranti, ovunque andassero, avevano sempre con sé degli strumenti musicali; Rolle, in particolare, ci ricorda come, finanche nel più sperduto paesino di minatori, i migranti cantassero il loro corpus di canzoni tradizionali per non dimenticare la terra natia.82

Ma gli elementi biblici, che determinano molto spesso struttura verbale e composizione melodica dei brani, non sono quelli dominanti. L’elemento centrale è ovviamente la preservazione della memoria, il ricordo orale del villaggio natio: sembra lapalissiano trovare un po’ ovunque riferimenti alla terra, alla madre, alla famiglia e ai compaesani.

Riprendendo uno scambio di battute di Sull’Oceano di E. De Amicis:

osservai che «quando sono in America, [gli emigrati] ricordano e amano la patria». Egli s’appoggiò al parapetto, rivolto al mare. Poi rispose: «Amano la terra, non la patria».83

La terra, dunque, non la patria. Gli affetti familiari, la vita del villaggio, la tradizione contadina

destinata ad essere distrutta dalla soverchiante potenza della civiltà meccanica. Per un emigrante, a quel tempo, la società americana doveva risultare incomprensibile: la maggior parte degli emigrati non aveva mai visto una grande città prima di Genova o Napoli (dove ci si imbarcava) e non aveva mai potuto ammirare all’opera una macchina a vapore prima di salire su un transatlantico. Di fronte a questa nuova realtà drammatica, trapiantati in un terreno sconosciuto e difficile, gli emigrati costruirono un corpus di canzoni in cui era più importante ricordare la terra natia che celebrare quella nuova.

Per tutti questi motivi la figura fondamentale, nelle canzoni popolari, risulta essere quella della madre. Abbiamo già accennato che nella civiltà contadina, e in quella italiana in particolare, la madre è al centro della famiglia e dell’immaginario di ogni individuo. La maggior parte delle canzoni degli emigranti riguardano il dolore della madre abbandonata; una ferita che può uccidere. Così, in

Parlatemi di mamma mia,84 il cantore chiede notizie della madre ai compaesani che lo hanno raggiunto,

temendo che questi gli tengano nascosta la notizia della sua morte.

82 Sempre Rolle riferisce che i tre oggetti con cui venne a codificarsi lo stereotipo dell’emigrato italiano negli Stati Uniti furono il vino, il coltello e la fisarmonica. Dopotutto, nella vulgata occidentale da secoli l’italiano era considerata lingua musicale per antonomasia e a tutti i suoi parlanti si riconosceva (quasi aprioristicamente) una melodiosità innata. 83 DE AMICIS Edmondo. Sull'oceano, cit., p. 102.

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Ma la madre è anche madre-terra, legame ancestrale con i luoghi attorno al villaggio natio. Così la stessa tensione lirica adoperata per la madre la si ritrova nella versione (modernizzata) che Domenico Modugno ha offerto di Amara terra mia, desolante elegia di una qualsiasi provincia dell’Italia meridionale:

per le campagne non c’è più nessuno addio, addio amore

io vado via, amara terra mia.

Quell’addio, addio amore potrebbe benissimo essere rivolto all’amante, alla moglie, persino alla prole. E invece lo riscopriamo nel senso di sentimento d’appartenenza, di philia nei confronti dei luoghi cari, in cui, tra stenti e miserie, la famiglia ha vissuto per generazioni. La terra è amara, e ciò implica una evidente contrapposizione con la terra dolce dell’emigrazione. Si tratta di un inno struggente, che fa capire quanto la miseria fosse terribile e generalizzata: «per le campagne non c’è più nessuno», interi villaggi si sono spopolati, la gente è partita cercando una sorte migliore. L’America, per l’emigrato, è una necessità; alle canzoni spetta il compito di tenere in vita la tradizione.

Altro aspetto di non secondaria importanza riguarda l’amore. La maggior parte degli emigrati che lasciavano il paese d’origine era sposata e aveva dei figli; questa condizione, che assomigliava de facto a una separazione, produsse un notevole corpus di canzoni, relative tanto ai mariti quanto alle mogli. La preoccupazione principale degli emigrati era quella di perdere il controllo sulla famiglia. Così, alcune canzoni hanno melodie e testi dichiaratamente struggenti, come in Storia di un emigrante, che è tra le più conosciute:

una voce di bimbo lontano

gridava «torna papà, stammi vicino!» ascolta fio mio queste parole di’ alla mamma che vi voglio bene vi chiedo perdono se vi ho fatto male la lontananza questo ci fa fare.

«La lontananza» era in grado di trasformarsi in un’arma terribile, in un dolore insopportabile. Non furono pochi i migranti che tornarono a casa dopo un periodo negli Stati Uniti; si trattava solitamente di uomini e ragazzi isolati, che faticavano ad inserirsi nella società d’arrivo e preferivano tornare al proprio villaggio, magari senza un soldo, piuttosto che sopportare ulteriormente la condizione disperata dell’immigrato in un paese come l’America.

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Per le donne, fossero esse fidanzate o mogli, la situazione era drammatica. Molto spesso non partivano coi mariti, e solo in alcuni casi li raggiungevano successivamente in America. Erano le cosiddette «vedove bianche»: donne sposate ma senza un vero e proprio marito al fianco, mogli che vivevano delle rimesse inviate dall’America, e che, nei casi più sfortunati, potevano essere abbandonate a loro stesse. Non era infrequente, infatti, che gli emigrati rimanessero dall’altra parte dell’oceano, disconoscendo la moglie rimasta a casa: ce ne parla anche Luigi Donato Ventura nella sua novella, descrivendo alcuni migranti che non rivedevano l’Italia da otto, dieci, quindici anni, e spesso si riorganizzavano senza preoccuparsi più del contratto matrimoniale stipulato nel villaggio di provenienza.

In Quando l’alber comincia a fiorire troviamo un tipico planctus femminile. La protagonista si dispera per la partenza del marito come se questo fosse morto; molto spesso, infatti, l’emigrazione veniva vissuta, sentita ed elaborata come fosse un vero e proprio lutto. La nostra cantante dice:

quando sarai alla Merica tu sposerai una mericana

e non penserai più di me italiana e dell’amore che t’ho porta’. E maledetta ne sia la macchina Il macchinista e la ferrovia Che m’han rubato l’amante mio

Un vero e proprio inno anti-modernista, che condanna l’emigrazione e gli strumenti del progresso che la rendono possibile, ma anche l’America e la sua gente, trattata con gelosia e angoscia. Un canto che rende manifesto un trauma personale piuttosto diffuso in alcune regioni d’Italia, e che ovviamente contribuì a costruire quella selva di aspettative e idee che confluirono nel mito italiano degli Stati Uniti.

Abbiamo dunque visto come le canzoni degli emigranti svolgessero soprattutto due ruoli: il primo di preservazione identitaria, che permetteva agli sradicati di non dimenticare le proprie origini idealizzando il paese natale; il secondo, invece, di creazione identitaria, di reinterpretazione della propria esistenza in una terra straniera e talvolta ostile. Proprio per questo, quando le canzoni non parlano della terra e degli affetti abbandonati, cantano con orgoglio le grandi opere rese possibili dalle braccia degli emigranti.

Molto spesso, i nostri connazionali non avevano altro da offrire che le loro braccia. Quindi, li troviamo a dissodare campi vergini, a costruire strade ferrate per i treni, a edificare palazzi, a pascolare greggi immense, a vendere qualsiasi prodotto per i vicoli delle città. E ci sono almeno

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due canzoni che rendono giustizia all’industriosità di questi sradicati. Si tratta di pezzi fortemente interpolati tra loro, che meriterebbero una cura filologica senz’altro maggiore di quella che qui, in maniera tangenziale, possiamo offrire. Il primo è Merica Merica di Angelo Giusti, composta nel 1875 durante un viaggio verso l’Argentina; la seconda, invece, si intitola Trenta giorni di nave a vapore, ed è anonima (come da prassi, nei canti popolari). Le due canzoni si sono influenzate a vicenda, utilizzando lo stesso testo con due melodie diverse. Come si può vedere, le tematiche (e le parole) sono pressoché identiche, e i ritornelli sembrano essere il solo elemento che differenzia chiaramente le due canzoni.

Dalla Italia noi siamo partiti Siamo partiti col nostro onore

Trentasei giorni di macchina a vapore, e nella Merica noi siamo arriva'.

RIT.

E alla Merica noi siamo arrivati

no' abbiam trovato né paglia e né fieno Abbiam dormito sul nudo terreno, come le bestie abbiam riposà.

RIT.

Trenta giorni di nave a vapore che nell'America noi siamo arrivati

e nell'America che siamo arrivati

n’abbiam trovato né paglia e né fieno abbiam dormito sul piano terreno e come bestie abbiamo riposà

abbiam dormito sul piano terreno…

Queste canzoni vennero rielaborate nelle colonie e furono tra i primi strumenti con cui gli emigrati italiani incisero il loro nome nella storia delle Americhe, reclamando un pezzetto di quella civiltà per la quale, spesso, sacrificarono la vita intera. In questi versetti popolari troviamo alcune spie linguistiche che si riveleranno fondamentali nell’analisi del mito italiano durante il Ventennio: «la nave a vapore», simbolo del progresso americano, che si trova a convivere con «la paglia e il fieno» e una vita «da bestie», emblemi di un territorio ancora vergine, violento e incontaminato.

Nelle canzoni, la civiltà statunitense è immaginata soprattutto con angoscia e mistero. Meta lontana per sfuggire alla miseria dilagante in Italia, gli emigranti affrontano l’America come fosse un grande mostro, un polipo terrificante che fagocita rapidamente gli sterminati territori del continente, portandovi ovunque la modernità. Una modernità che non sempre gli italo-americani riuscirono ad assorbire, pena l’isolamento personale e, in definitiva, la sconfitta del sogno americano.

Gli Stati Uniti, infatti, non furono solo un Eden, ma anche una città di Dite. Gli emigrati che partivano dal loro paesello remoto non sempre riuscivano a reggere l’urto di un cambiamento

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di vita così totalizzante. Nelle canzoni popolari non si parla mai dell’America in termini dichiaratamente positivi. Gli emigranti sospettano che non sia oro tutto ciò che luccica, come Pascal D’Angelo quando scoprì che le strade di New York non erano rivestite di metalli preziosi; l’Eden americano è visto come l’ultima, disperata possibilità di superare una vita stenti. Ma il prezzo da pagare è altissimo, e nelle melodie degli emigranti lo ritroviamo ad ogni strofa: solitudine, fatica, isolamento, ostacoli linguistici e culturali.

Il mito dell’America è dunque biunivoco, e non può sussistere senza questa doppia forza di attrazione-repulsione che pervade tutta la cultura popolare italiana di fine Ottocento. Se cerchiamo una canzone che possa esemplificare la straordinaria complessità emotiva e ideologica dell’alterità americana, non potremmo che rifarci all’atroce, struggente Mamma dammi cento lire.

Contrariamente a ciò che potrebbe suggerire la melodia allegra, la canzone ha radici dolorose e profondissime nella cultura contadina, e proprio per questo è stata analizzata da critici e linguisti con grande attenzione. Il testo non è che una reinterpretazione in chiave moderna di un motivo mitologico antichissimo, chiamato in gergo Tradimento della madre, che i contadini hanno rivisitato utilizzando il trauma della migrazione. In origine, il nucleo mitologico doveva avere a che fare con una donna che si sposa senza il consenso della madre, e per questo viene maledetta e punita con la morte. Al matrimonio, però, i contadini hanno sostituito l’emigrazione, l’America, il pericolo che seduce, ammalia e alla fine uccide. Nel testo:

Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar Cento lire sì, te li do

ma in America no e poi no. I fratelli alla finestra: Mamma mia, lascèla andar

«Vai, vai pure o figlia ingrata Che qualcosa succederà! «Vai,

vai pure o figlia ingrata Che qualcosa succederà!»

'Pena giunta in alto mare bastimento si rialzò.

I miei capelli son ricci e belli l'acqua del mare li marcirà

E il consiglio della mia mamma L’era quello la verità

Mentre quello dei miei fratelli

resta quello che m’ha inganna’

Con la sua melodia allegra che stride sulle parole struggenti, Mamma dammi cento lire raffigura il dramma esistenziale dell’emigrazione tout court. Ci sono le belle speranze di chi se ne va, i sentimenti di chi resta, la paura irrazionale verso la modernità e il Nuovo Mondo, e una punta di fatalismo che non era per nulla estranea alla civiltà contadina italiana.

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Le canzoni popolari riescono a cogliere meglio di qualsiasi reportage la costruzione del mito italiano in America. Perché questo mito fu innanzitutto popolare; penetrò con rapidità sorprendente nella società del nostro paese, influenzò comportamenti dei singoli e politiche collettive, e divenne un elemento culturale impossibile da ignorare nel corso del Novecento. Un mito che fu utopia e distopia nello stesso momento; paradossalmente, l’America diveniva Eden e Città di Dite, incapsulata in un mito fatto di necessità, angoscia e solitudine, «temuta e vagheggiata allo stesso tempo».

Per concludere, riprendendo le parole di Franzina, «Gli emigranti non rinunciano a cantare in prima persona le loro peripezie, e non sono isolati i casi di composizione privata di narrazioni in versi che danno notevoli contributi alla formazione dell’immaginario colto». Dalla complessa ferita psicologica generata dall’emigrazione, sbocciano infatti dei canti popolari che molto presto si radicano in profondità nella cultura italiana, e che sebbene provengano «dalla tradizione popolare più genuina» diventano patrimonio diffuso dell’Italia. Sempre secondo Franzina, infatti, «l’emigrazione mette a contatto con realtà nuove e un’umanità diversa per lingua e pelle. Tutto ciò sollecita la fantasia e conferisce all’esperienza migratoria caratteri ora mitici ora favolosi, ora realistici a oltranza»85. In poche, brevi parole, dalle corpose radici contadine si può estrarre larga

parte dell’ambiguità mitologica legata agli Stati Uniti.