La prima Guerra Mondiale fu un evento prettamente europeo, che però si propagò in modo centrifugo trovando così respiro globale. Ultima delle guerre tradizionali e prima delle guerre moderne, fu un conflitto dalle dimensioni spaventose che lasciò profonde cicatrici su tutti i
62 Ivi, p. 154.
63 Possiamo considerare The Walker (1912) come una delle poesie italo-americane meglio riuscite di tutto il decennio. Se poi prendiamo come riferimento la data di pubblicazione del romanzo d’esordio di John Fante, esponente di spicco della seconda generazione di italo-americani (Wait until spring, Bandini, 1938), notiamo che in meno di vent’anni il processo di integrazione degli italo-americani si è ormai concluso. Siamo infatti passati da un emigrato che si sforza di apprendere una lingua e una cultura straniera (Giovannitti) ad un americano che riutilizza le perdute radici italiane con scopi letterari e sociali (Fante).
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partecipanti. La guerra trascinò nell’abisso quattro imperi dalla storia millenaria (il Reich tedesco, quello degli Asburgo, quello degli zar di Russia e quello degli Ottomani) e sancì l’inizio dell’era crepuscolare per Regno Unito e Francia, ormai confinate al rango di ex potenze coloniali.
I nostri due paesi, Stati Uniti e Italia, entrarono nel conflitto con significativo ritardo. Washington fu riluttante fino all’ultimo istante, poiché prediligeva una politica di aiuti economico- finanziari che permettesse di massimizzare i profitti minimizzando i rischi. Tuttavia, l’affondamento di una serie di mercantili che battevano bandiera americana costrinse il Congresso a dichiarare guerra alle potenze dell’Europa Centrale (2 aprile 1917).
L’Italia, invece, rimase neutrale per oltre un anno, rifiutandosi di condividere il campo di battaglia con lo scomodo alleato austriaco, il quale controllava ancora diverse province italofone (le terre irredente) ed era stato il nemico principale del Risorgimento. Quando Roma decise di tradire la Triplice Alleanza a favore dell’Intesa, venne aperto un terzo fronte militare (quello meridionale) che a lungo andare dissanguò le pur ottime truppe asburgico-tedesche (23 maggio 1915).
Questa piccola premessa storica è fondamentale per comprendere quanto i destini di questi nostri due paesi si assomigliassero all’inizio del primo conflitto mondiale.
Stati Uniti ed Italia sono paesi dalle chiare radici europee, ma entrambi (per motivi diversi) restii a far parte della cultura continentale. Gli Stati Uniti per via della loro alterità sancita da un Oceano, e per le caratteristiche uniche della democrazia americana; l’Italia per la sua cultura classica, per il retaggio romano dalla tendenza universalista, per la presenza di un potere politico scomodo come la Santa Sede nel suo territorio, e per la sua incapacità di abbracciare compiutamente la modernità europea.
Questa eterogenesi dei fini subì un’improvvisa accelerata proprio durante la guerra, quando i reciproci sentimenti tra i due paesi si acutizzarono all’improvviso.
Nel 1917, alcuni uomini d’affari americani fondarono la Italy-America Society, influente associazione filantropica che aveva lo scopo di «rafforzare i legami tra l’Italia e gli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale»64. Fu il primo, timido segnale di un interesse reciproco tra due Paesi che
s’erano riscoperti vicini; un seme che ebbe bisogno di tempo per maturare, e che al momento rimase un esperimento isolato. Questi piccoli segnali di avvicinamento furono confortati dall’azione
64Come vedremo, la Italy-America Society fu solo la prima di una serie di associazioni che intendevano rafforzare i rapporti tra i due paesi. La più importante fu la Sons of Italy, che aveva circa trecentomila iscritti; non possiamo poi dimenticare la sede americana della Società Dante Alighieri (ancor oggi attiva) e molte associazioni di sostegno ai militari nate dopo la Grande Guerra. Come sottolinea S. LUCONI ne La diplomazia parallela, queste istituzioni ufficiali divennero strumenti efficaci nelle mani della propaganda fascista, che le utilizzò per diffondere l’ideologia mussoliniana tra i milioni di italo-americani presenti sul territorio statunitense.
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delle colonie italo-americane, da dove molti emigrati partirono per essere volontariamente arruolati nell’esercito americano o, se possibile, in quello italiano; l’integrazione aveva ormai cominciato la sua inesorabile parabola, che sarebbe terminata nell’arco di una generazione.
Tuttavia, questo timido idillio culturale tra Italia e Stati Uniti subì una brusca battuta d’arresto nel confuso biennio che portò agli accordi di Parigi e Versailles (1918-19). Causa primaria fu, ovviamente, il principio dell’autodeterminazione dei popoli con cui il Presidente Woodrow Wilson intendeva risolvere i conflitti etnici che divoravano l’Europa. Com’è arcinoto, l’Italia si era schierata assieme alle potenze dell’Intesa poiché le erano state promesse le terre irredente di Trento, Trieste, Istria e Dalmazia. La colpa della sostanziale umiliazione diplomatica a cui andarono incontro i nostri politici venne additata al presidente americano, che in nome del principio di divisione etnolinguistica aveva in realtà favorito l’uso di due pesi e due misure per molte regioni d’Europa.
Dopo l’iniziale simpatia per gli Stati Uniti – la loro entrata in guerra era stata fondamentale per le sorti del conflitto – l’opinione pubblica italiana virò, quasi schizofrenicamente, verso posizioni molto più critiche. Né è testimonianza un articolo di Giuseppe Tropeano ricuperato da Emilio Franzina in cui si coglie molto bene «il già ossuto canovaccio letterario che sull’emigrazione e l’America era stato imbastito dalla cultura nazionalista»65. Si apriva in Italia la stagione
dell’interventismo, e nel 1916 Tropeano scriveva ne L’America è finita il miglior compendio offerto, dalla letteratura italiana, dell’anti-mito americano.
Secondo Tropeano, la voglia d’America non era che una pura illusione. Nel suo articolo, leggiamo chiaramente una dura requisitoria nei confronti dell’America immaginaria, così come lui la chiama, che ormai è un puro inganno ideologico e non corrisponde più all’America reale, la vera realtà d’oltreoceano:
l’America del lavoro molto agevole e remunerativo, delle imprese facili e fortunose, dei tesori sicuri, della vita rosea, della immancabile ricchezza, questa America non c’è più! È finita, oramai, da tanti anni. Da tanti anni la disoccupazione, il caro vivere, lo sfruttamento, il mal governo, la concorrenza, le persecuzioni, le crisi torturano e avviliscono le masse immigrate; eppure altre masse, sempre illuse dalla visione di quell’America immaginaria, si riversano ancora su quegli immensi mercati per esacerbare i tremendi contrasti economici e morali, rendendo assai incerta e torbida la vita collettiva di tutti i centri americani… è finita l’America per i lavoratori, perché è finita l’occasione di un lavoro
80 americanamente compensato… è finita l’America per i vagabondi […] Anche per
i professionisti italiani l’America è finita.66
Ci è sembrato doveroso riportare questo brano nella sua interezza, per cercare di capire come si presentasse, nel clima isterico della Grande Guerra, il mito italiano dell’America. Si è passati dalle prime associazioni di scambio economico-culturale a uno degli articoli più forti della propaganda anti-emigrazione, che ricorda i punti di vista di alcuni personaggi del romanzo
Sull’Oceano di De Amicis (i ricchi che cercavano di trattenere gli emigranti ormai rivolti all’America),
nonché le tirate contro l’emorragia demografica di certa Italia liberale e umbertina. Siamo nel 1917, e mito e anti-mito, complice l’aria eccezionale della guerra, convivono e si sviluppano a una velocità impressionante.
Già nel 1917, dunque, Tropeano identifica uno scisma tra America reale e America
immaginaria, mettendo a nudo tutti gli aspetti di un mito americano ormai slegato dalla realtà e
idealizzato fino allo stereotipo. Questo articolo è un termometro letterario importantissimo, perché ci permette di dare uno sguardo coscienzioso ai turbolenti anni del Dopoguerra con una idea abbastanza chiara dell’immagine americana che domina la nostra società.
Per Tropeano, «è finita» soprattutto l’America come terra del benessere economico. Conclusa la conquista della frontiera e la spartizione delle terre vergini, gli Usa si avviano a una normalizzazione che stabilizzerà la democrazia a stelle e strisce. Tropeano, tuttavia, non trova il coraggio di ammettere che il mito americano, ben lungi dall’essere finito, continua a dimostrarsi vivo e fiorente: la mitologia americana subì infatti storture ed eccessi, ma sopravvisse alla fine del «lungo» Ottocento; mentre si aprivano anni di incertezze, di fatiche, di povertà e miseria, mentre l’Europa sprofondava nel baratro del Dopoguerra, minacciata ovunque dalla rivoluzione socialista, il mito americano continuava ad esistere, ad attrarre i disperati e i desiderosi di riscatto.
Le società filantropiche da un lato e le tirate dei nazionalisti dall’altro dimostrano che il nucleo mitologico fondamentale degli States, quello di «attrazione-repulsione», è ancora fortissimo ed è capace di riflettere chiaramente i sentimenti della nostra opinione pubblica. L’America sta diventando un altrove sempre più importante: mentre si chiudono i canali migratori e l’Italia viene fascistizzata (1918-1924), gli Stati Uniti diventano un territorio dove spostare la battaglia politica ormai interdetta, le relazioni culturali scoraggiate, le aspirazioni personali frustrate. Proprio qui, durante la guerra, con Tropeano e i nazionalisti, il mito si stacca definitivamente dalla terra – e dalla gente – che lo ha generato, arrivando ben presto a trasformarsi, secondo Marazzi, in
81 una storia di pregiudizi, sommarie condanne, nobili illusioni, ripetute sino a
formare un’imbarazzante enciclopedia di stereotipi.67
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che le masse italiane stanziate negli States vennero a trovarsi al centro di interessi politici incrociati. I nazionalisti prima – e i fascisti poi – chiedevano a gran voce lo sfruttamento attivo delle «colonie» d’oltreoceano abbandonate dall’Italia giolittiana; al contempo, l’opinione pubblica degli Stati Uniti d’America venne pervasa da un clima da Controriforma politica che per almeno due anni seminò il terrore nei quartieri italiani di New York, Chicago, Boston e molti altri centri urbani. Era la Red Scare, la paura rossa, la più atavica delle paure nella democrazia americana: il terrore della rivoluzione socialista.