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Abbiamo visto come il radicalismo politico tollerato negli Stati Uniti avesse generato il regicidio di uno dei sovrani più controversi della dinastia dei Savoia; abbiamo inoltre dimostrato che tanto Washington quanto Roma erano intenzionate a regolarizzare i flussi migratori. Eppure, nei primi anni del Novecento, la situazione era ancora abbastanza fluida e le correnti migratorie incredibilmente forti.

L’esperienza dell’emigrazione, infatti, toccò praticamente tutte le famiglie italiane, e in modi e tempi diversi divenne addirittura una componente strutturale di alcune regioni. Che si trattasse di movimenti transalpini, come nel caso dei lavoratori impegnati in Germania, Svizzera e Francia, o di movimenti transoceanici, l’emigrazione entrava spesso nelle dinamiche familiari, sconquassando i ritmi e le vecchie regole della vita tradizionale.

Per renderci conto della drammatica situazione esistenziale vissuta praticamente ovunque, in Italia, dal 1880 circa fino almeno al 1910, ci basta leggere uno dei componimenti più famosi di

17 «La manifestazione in forma endemica dell’apatia politica degli italo-americani, soprattutto fino alla prima metà degli anni Venti, appare un fatto incontrovertibile, come attestato anche dai pochi quantitativi disponibili. Nel 1905, solo il 4% della popolazione di origine italiana a New York si era preoccupato di farsi includere nelle liste elettorali» da LUCONI Stefano, La diplomazia parallela. Il regime fascista e la mobilitazione politica degli italo-americani, Milano, FrancoAngeli Editore, 2000, p. 49.

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Giovanni Pascoli, intitolato Italy, e comparso nel 1904 assieme alla silloge de I canti di Castelvecchio. In anni recenti, la critica accademica ha riscoperto il valore documentario di questa poesia, rileggendone i caratteri innovativi da un punto di vista sociolinguistico:19 Pascoli lo scrisse infatti

durante uno dei suoi usuali soggiorni a Castelvecchio, località colpita, come molte altre, dall’emigrazione.

Emerico Giachery, tra tanti ottimi critici, ce ne ha fornito un’analisi pregna e concisa, sostenendo che «In Italy il dramma dell’emigrazione si incarna con fresco coraggio anche in un problema di espressione linguistica»,20 che viene reso magistralmente nel celeberrimo incontro tra

Molly, la bambina nata in America che ormai non capisce una parola di italiano, e la nonna di lei, rimasta invece ancorata alla vecchia terra, alla vecchia lingua e alle vecchie usanze.

Pascoli fa leva sullo shock linguistico per evidenziare attraverso la poesia uno dei problemi più gravi dell’Italia di inizio Novecento. Siamo nel 1904; di lì a due anni, la Grande Migrazione toccherà drammaticamente il suo picco storico. Interi Paesi, compresi Castelvecchio, si spopolano e addirittura vengono abbandonati21. Sempre secondo Giachery, a quell’altezza cronologica sono

ancora pochi gli intellettuali (persino tra i socialisti) che colgono il problema esponendolo letterariamente: spicca sicuramente De Amicis, tanto con Sull’Oceano quanto con la poesia Emigranti; e si deve ricordare poi Rapisardi, che scrisse un componimento omonimo ma «dai toni molto più apocalittici», e con lui Ojetti, Giacosa, il già citato Fontana e pochi meridionalisti, tra cui Francesco Saverio Nitti. Come vedremo, Pascoli darà una svolta allo scarno dibattito sull’emigrazione battendosi in prima persona con i suoi componimenti e le sue dichiarazioni.

Il testo di Pascoli diviene infatti una potente metafora allorquando «apre uno spiraglio sull’anima ibrida dell’emigrato, sul suo dramma linguistico che è aspetto, come s’è visto, del dramma di una turbata e difficile identità, di carente comunicazione, di inserimento faticoso, di non appartenenza. Lo scorcio sull’anima dell’emigrato si fa più intenso quando ne lascia travedere l’esistenza randagia:

Pane di casa e latte appena munto. Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva! nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:

19 Per una descrizione della situazione critica intorno a Italy, si veda MEDA Ambra, Al di là del mito. Scrittori italiani negli

Stati Uniti, cit., p. 123.

20 GIACHERY Emerico. Trittico pascoliano, Roma, Bulzoni, 1989, p. 27 e successive.

21 A. Rolle riporta un caso emblematico: quando un prefetto del Regno si recò in un paesino della Basilicata per salutare le istituzioni, ricevette dal sindaco questa accoglienza: «Le porto i saluti dei cinquemila abitanti che si trovano qui, e degli altrettanti che vivono in America».

55 «Poor Molly! qui non trovi il pai con fleva!»

Oh! no: non c'era lì né pie né flavour né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto: «Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?» Oh! no: starebbe in Italy sin tanto

ch'ella guarisse: one month or two, poor Molly! E Ioe godrebbe questo po' di scianto!

Riportando alcune delle strofe più famose del componimento, facciamo notare come Pascoli insista, secondo il suo gusto lirico, sul tema del distacco irrimediabile, della rottura di un vero e proprio nido familiare che è stato affondato nell’Oceano Atlantico. La vecchia unità del casolare può essere ricuperata solo in maniera parziale e artificiosa, a prezzo di enormi sacrifici: l’intero fenomeno migratorio viene inscatolato nelle logiche liriche del nido e sembra generalizzare la celeberrima disperazione lirica di Pascoli, che si affratella ai tanti lavoratori immiseriti costretti a lasciare i legami filiali di casa per cercar fortuna altrove.

Dalla poesia emerge il grande stupore della bambina, Molly, nei confronti della povertà che soggioga l’Italia («Bad Country, Ioe, your Italy!»): la piccolina è abituata alla confusione antropologica di New York, al «pai con fleva» (flavour pie, un dolce americano), e rimane delusa e sconcertata dalla parca frugalità di Castelvecchio, dalla miseria terribile dei parenti rimasti indietro, dal clima inospitale di una terra che avrebbe dovuto curare la sua malattia. Vi è nella bambina un senso di solitudine tremendo, espresso tra capricci e stanchezza, che si acuisce a causa dello strappo linguistico ormai consumato tra gli emigrati di seconda generazione e il resto della famiglia.

Che l’emigrazione fosse vissuta come un dramma, addirittura come un lutto, Pascoli lo riconferma tratteggiando con fosche tonalità tutti i suoi personaggi, che mettono in scena un vero dramma teatrale: la piccola Molly, curiosa e mortalmente malata («What means nieva? Never, never, never?»), rappresenta il prodotto visibile della Grande Migrazione, una fanciullina (se possiamo prendere a prestito questo termine) che ha perso le proprie radici, e forse proprio per questo s’è ammalata e finirà per morire. Molly è un ibrido americanizzato che, senza il sostegno morale della tradizione umanistica italiana, non potrà sopravvivere.

Accanto a lei troviamo la figura della nonna, quasi una Madre archetipica, «trista» e smunta, sempre alle prese col focolare e la miseria domestica: insomma, quasi una personificazione

dell’Italia unita all’alba del nuovo secolo; un paese così giovane eppure già così carente, in difficoltà nella lunga rincorsa ai tempi moderni che caratterizzavano gli stati occidentali più evoluti, Stati

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Uniti compresi. La nonna è la rappresentazione fisica della miseria morale e materiale del contado italiano, impoverito e intrappolato da un sistema classista che lo stesso Pascoli – che fu tutt’altro che un rivoluzionario – giudicava iniquo e certe volte ridicolo.

Nel mezzo, invece, stanno i genitori emigranti, scissi tra due entità, tra la volontà di mostrarsi «americani di successo» e il desiderio di non perdere del tutto i legami con la terra natia. I due genitori rappresentano l’archetipo dell’italo-americano incapace di abbandonare le proprie origini ma desideroso di dirsi «americano»; assomigliano già ad alcuni personaggi di certa letteratura successiva, i cugini che hanno fatto fortuna in America, e che tornano al paese natio decantando le meraviglie della società a stelle e strisce, vestendosi alla moda ed esteriorizzando il loro successo attraverso abiti costosi e hobbies altrettanto appariscenti. Qui, noi intuiamo che gli emigranti di Pascoli non hanno fatto grosse somme all’estero, laddove le compagnie di navigazione lo davano per certo; essi hanno forse racimolato solo i soldi necessari per tornare in patria e curare, con l’aria meno inquinata del villaggio natio, la figlia malata.

Insomma, quella del poeta assomiglia a una vera e propria pièce teatrale, con dialoghi rotti e concisi, giochi linguistici radicalmente innovativi, situazioni che portano a riflettere quasi in maniera inconscia e prelogica sul dramma dell’emigrazione. Nel 1904 molti critici autorevoli non riconobbero immediatamente la portata innovativa di Italy; su tutti pesò il giudizio di Benedetto Croce, che ammonì Pascoli sostenendo che un simile componimento era quasi oltraggioso per la tradizione lirica italiana, e che la mistura linguistica utilizzata come spina dorsale del testo doveva considerarsi un tentativo davvero maldestro e malriuscito di realismo poetico. Il testo era da considerarsi orrido soprattutto per «quel gergo anglo-italico degli emigranti reduci dall’America»22

che secondo Croce non meritava la dignità della poesia.

Mentre la critica italiana si divideva tra apprezzamenti e stroncature, l’interesse di Pascoli per l’emigrazione si approfondì negli anni successivi fino a culminare nel celeberrimo discorso del 1911 intitolato La grande proletaria s’è mossa.23 Sostenendo l’idea della quarta sponda italiana, Pascoli

aderì all’intervento libico e avallò le tesi nazionaliste che sostenevano a gran voce la necessità di

22 CROCE Benedetto, Di un carattere della più recente letteratura italiana, saggio del 1914, il filosofo critica apertamente Pascoli, Fogazzaro e d’Annunzio, mettendo in discussione il loro «valore morale».

23 Giovanni Pascoli pronunciò il discorso al Teatro dei Differenti di Barga (prov. di Lucca) il 26 novembre 1911, in occasione di una serie di celebrazioni a favore della guerra italo-turca. Il discorso di Pascoli fa appello a un certo classicismo in voga a quei tempi (la Libia sarebbe ritornata sotto il controllo di Roma, come avvenne negli evi antichi) e prende le difese dei lavoratori italiani emigrati, che stavano «Oltre le Alpi a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e dunque più difficile ancora».

Le dichiarazioni di Pascoli destarono sorpresa nei circoli intellettuali italiani, ma supponevano una attenta riflessione sul fenomeno migratorio. Riflessione che, già nel 1904, aveva raggiunto picchi notevoli con Italy.

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una colonia mediterranea dove convogliare il flusso migratorio italiano, evitando così di disperderlo a favore di altre nazioni:

ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto.

Pascoli, dunque, intende spostare l’orizzonte d’attesa che normalmente i contadini e le classi dirigenti assegnavano all’America a un altrove più vicino, la Libia, politicamente controllabile ed economicamente più vantaggioso. Proprio come la California di Caccia e l’Argentina di De Amicis, la Libia di Pascoli sembra un Eldorado, una terra promessa abbandonata, un altrove poco fertile a causa della «inerzia di popolazioni nomadi e neghittose» simili, verrebbe da dire, ai pellirossa incapaci di arare la terra; una regione «verdeggiante» proprio come la frontiera americana, ma quasi a portata di mano; un’illusione retorica, gonfiata dagli studi classici e dai riecheggiamenti di stampo greco-romano («per opera dei nostri progenitori fu abbondevole di messi») che rivelerà la propria inconsistenza durante lunga amministrazione coloniale incapace di trasformare il proverbiale «scatolone di sabbia»24 in una colonia effettivamente utile alle sorti nazionali.

Dunque, stiamo constatando come, a causa della crisi generata dal dissanguamento demografico della Grande Migrazione, la ricerca di un altrove fosse una tematica quasi ossessiva per l’intellighenzia nostrana. Nel 1911 la Libia parve il giusto compromesso tra la dispersione della forza lavoro nazionale e un tardivo imperialismo coloniale; l’avallo di Pascoli, arrivato un po’ a sorpresa durante le celebrazioni dei cinquant’anni dell’Unità d’Italia, completava idealmente una lunga riflessione concepita proprio a partire dagli spunti linguistici di Italy, risalenti a sei anni prima.

Con Pascoli avviene un cambiamento decisivo nell’approccio dell’intellighenzia nostrana nei confronti dell’emigrante e della sua terra d’arrivo. Dopo l’isolata analisi del De Amicis, dai caratteri fortemente socialisti e umanitari, siamo passati all’investitura ufficiale in meno di quindici anni. Secondo Franzina,

24 La frase venne coniata dal deputato socialista e meridionalista Gaetano Salvemini, che riteneva inutile lo sforzo bellico in Libia, data la scarsità di risorse declamate dai nazionalisti. La sua previsione si sarebbe rivelata esatta, dal momento che il petrolio venne scoperto nel Fezzan ben settant’anni dopo la spedizione giolittiana. È bene inoltre tenere a mente il nome di Salvemini, che spesso ricomparirà nella seconda parte della nostra ricerca; egli, infatti, fece parte di quella non nutrita schiera di esuli politici italiani che raggiunsero gli Usa a partire dagli anni Trenta, e che contribuirono con la penna e con le parole alla nascita di un primo sentimento antifascista.

58 si era compreso che quella che aveva le apparenze di un’umiliazione e di una

questua internazionale era invece, nell’intimo suo, una manifestazione della potenza fisica e morale della nostra gente più genuina, della gente che non era stata domata dalle sventure infinite e che al dolore accumulato nei lunghi secoli dava finalmente uno sfogo tipicamente virile e fisiologico, adoperando nel modo più conveniente la sua unica ricchezza, la forza di lavoro.25

In meno di sette anni, il povero emigrante senza identità di Italy si è trasformato nel proletario-guerriero del 1911, anno del trionfo del nazionalismo; Giovanni Pascoli, poeta affermato e celebre, che rivestiva ruoli ufficiali di altissimo prestigio, divenne il simbolo di un rinnovato interesse della classe dirigente nei confronti degli espatriati. Intorno agli anni Dieci, infatti, le élites nostrane cominciarono a rendersi conto del peso politico di milioni di italiani trapiantati all’estero, in quelle che erano vere e proprie colonie informali distribuite nei continenti extra-europei. Dalla pionieristica inchiesta di De Amicis sono passati meno di due decenni; i circoli politici italiani, con colpevole ritardo, cominciano a prendere le misure al fenomeno. Il massimo risultato arriverà, come vedremo, in epoca fascista.