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Quando la crisi del ’29 scoppiò tra Wall Street e la Fifth Avenue, Emilio Cecchi leggeva per la prima volta Moby Dick di Melville, e scopriva l’esistenza di una nuova, energica letteratura americana, diversa per stile e tematiche da quella britannica.

Grande critico fiorentino, nato nel 1884 da una famiglia di artigiani, Emilio Cecchi si formò sostanzialmente da solo e divenne uno stimatissimo studioso d’arte e di letteratura. A Firenze, che nei primi decenni del Novecento fu senza dubbio il polo culturale più attivo della nostra penisola, conobbe Papini, Prezzolini, Soffici e molti altri intellettuali di prim’ordine; giornalista affermato, si avvicinò sempre più alla letteratura anglosassone, scoprendo, come abbiamo visto, l’alterità americana in un momento storico decisivo per il destino degli Stati Uniti e dell’Italia. Le sue pagine sono di un’intensità sorprendente, e la levità nel collegare e scorporare concetti e conoscenze non passa di certo inosservata. Lo stile, poi, è lucido e preciso, tant’è che uno dei maggiori poeti del Novecento, Eugenio Montale, scrisse di lui nel 1964: «non so se un giovane d’oggi, sorvolando in

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fretta pagine e motivi cecchiani sui testi disponibili, potrà farsi un’idea di ciò che Cecchi è stato e resta per gli scrittori che pur avendo già i capelli grigi sono più giovani di lui».29

Per decenni Emilio Cecchi fu uno degli elzeviristi più famosi della sua generazione, letto avidamente sulla terza pagina del “Corriere della Sera”. La sua esperienza professionale si divideva tra saggi di storia dell’arte e opere di vario tipo, come la letteratura di viaggio e i reportages scritti in terra straniera. Viaggiatore instancabile, ossessionato dal desiderio di vedere posti nuovi e conoscere nuove usanze, Cecchi girerà mezza Europa col suo taccuino e, cosa piuttosto inusuale negli anni Trenta, si recò per ben due volte nel continente americano, nel 1931 e nel 1937.

Abbiamo a che fare con un intellettuale maturo che si addentrò con lucidità nel continente americano. Il suo primo saggio, Messico (1931), dà subito un saggio della sua penetrante capacità di osservare la realtà. Diviso in due parti, la prima relativa alla vecchia California di origine spagnola e la seconda dedicata al Messico è una specie di diario di viaggio arricchito da brillanti excursus di natura letteraria e artistica; circondato da vecchie città fantasma, tribù indiane e meraviglie naturali, lo scrittore affrontò la complessa realtà americana con un notevole arsenale di nozioni e un fondamentale spirito critico.

Il secondo viaggio, invece, verrà pubblicato dopo anni di intense letture americane. Tra

Messico e America Amara, edito da Mondadori nel 1939, si frappone il fondamentale saggio sugli Scrittori inglesi e americani (1935), dove l’autore matura le sue preziose idee sul rapporto tra letteratura

britannica e letteratura americana. Cecchi si allinea a una certa linea della critica europea che stentava a riconoscere alla letteratura degli Stati Uniti una totale dipendenza; lo stesso scrittore tende molto spesso a considerarla come emanazione di quella britannica. Nel saggio del 1935, infatti, gli americani vengono presentati in appendice ai loro contemporanei inglesi, e sebbene Cecchi riconosca qualche elemento di novità nella letteratura degli States (in particolare lo slang, e la carica vitalistica di molti romanzi, su tutti quelli di Melville) i punti di rottura sono di gran lunga inferiori ai punti in comune.

Il secondo viaggio negli Stati Uniti avviene in un clima politico e culturale radicalmente mutato. A partire dal 1936, il regime aveva accentuato le critiche al modello americano e Cecchi non fu del tutto immune a questa nuova moda culturale. Scrive Ambra Meda:

per spiegare le sue energiche contestazioni nei confronti degli States è d’obbligo tenere in considerazione che il 1938, anno in cui viene messo a punto il testo, è un anno poco propizio a un sereno confronto con la morfologia delle società e

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atteggiamento aristocratico, sia l’aver vissuto in pacifica contemporaneità con il fascismo. Le compromissioni di Cecchi – accademico d’Italia a partire dal ’40 e direttore artistico della Cines – col regime fanno di America amara un testo da asse Roma-Berlino, in cui Roosevelt è rappresentato come un presidente debole, messo alle corde dal Foreign Office londinese.30

L’America descritta da Cecchi è amara proprio perché è reale; lo stesso autore, infatti, si compiace nel costruire una narrazione demistificatoria che mettesse in ridicolo la mitizzazione che molti suoi contemporanei andavano costruendo attorno agli Stati Uniti: Cecchi rimane immune al nuovo fascino della letteratura americana importata più o meno clandestinamente, e anzi

ammette di aver confezionato degli States un ritratto negativo, che ne mina la credibilità e contribuisce a sopprimerne il fascino.

America amara, proprio per il nuovo contesto sociale in cui si cala, si rivela un testo denso,

corposo, complesso. Siamo davanti a un testo che va incontro a numerose rielaborazioni, con un lavoro di lima sofferto e puntiglioso: secondo Margherita Ghirardi, che ha curato l’edizione critica del corpus cecchiano, in America amara

l’ordine originario delle corrispondenze verrà fortemente alterato in volume per seguire una precisa esigenza morale. Per il violento quanto intenzionale effetto di contrasto fra la vita delle grandi metropoli della East Coast e la descrizione delle città di provincia e del paesaggio californiano, fra le considerazioni politiche e gli squarci sulla società americana con le sue contraddizioni e i suoi conflitti, solo se intesa come opera unitaria la raccolta riesce a comunicare il giudizio di un autore su una realtà in cui egli vede affrontarsi quotidianamente il rimpianto del passato e la minaccia del futuro.31

Cecchi dunque ordina i suoi scritti secondo «principi morali», intende sconvolgere volontariamente l’andamento diacronico del suo viaggio per permettere ai lettori di avere una conoscenza più approfondita del controverso carattere americano. Liberatosi dall’ordine consequenziale dei suoi viaggi, l’autore punta a convogliare la forza stilistica del testo a favore del giudizio negativo e implacabile sulla realtà americana.

30 MEDA Ambra, Al di là del mito: scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, cit., p. 143. 31 GHILARDI Margherita, Introduzione a CECCHI Emilio, Saggi e viaggi, cit., p. 18.

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Se tralasciamo i bozzetti californiani di Messico, che ricalcano con singolare curiosità alcuni stilemi narrativi che appartennero già ad Antonio Caccia, possiamo tranquillamente comprendere le parole di Gianfranco Contini quando definì America amara «il libro più blindato di Cecchi»,32

perché la sua prosa è densa e voluttuosa, ci trascina nelle profondità dell’argomentazione per poi sorprenderci con una metafora fresca o con un’immagine straordinaria.

Come dice la Ghirardi in calce al testo,

disposizione interiore e giudizio morale, sentimento e sguardo, si fondono in America amara a disegnare un paesaggio di umana solitudine, di allucinata disperazione e di abbandono.33

Un libro di «misteriosa bellezza», che nonostante il grande interesse dei contemporanei ha perso rapidamente presa sulla critica italiana. L’ultima edizione risale al 1995 per i tipi di Franco Muzzio (Padova), e la scarsa reperibilità ne documenta la debole circolazione dal secondo Dopoguerra in poi. Parte di questo insuccesso è sicuramente imputabile ad alcune affermazioni di Cecchi sulla società americana, legate soprattutto al fordismo o all’emancipazione femminile; ciononostante, America amara rimane un capolavoro di lucida completezza, e per questo l’opera va letta in toto, soffermandosi sull’abilità di Cecchi nel raccogliere l’esprit di un’intera nazione condensandolo in poche pagine.