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Gli anni Venti furono una decade turbolenta, contrassegnata da quella che Diggins chiama schizofrenia culturale. La Grande Guerra aveva causato il crollo di molte certezze e alla fine del conflitto la società europea si trovò costretta a riformulare molti dei principi sui quali era ancorata la propria cultura.

In Italia, la fine traumatica del conflitto non risparmiò nemmeno il mito americano, il quale andò incontro a una grande riformulazione. Se dal 1924 il regime fascista cominciò a manifestare un certo interesse per la cultura americana (culminata, nel 1927, con la pubblicazione di Mussolini:

a man of hope da parte della Fox), la crisi economica del 1929 stravolse tutti i paradigmi culturali e

spinse la nostra società verso una riformulazione del mito americano. Ambra Meda ci dà una prima definizione del fenomeno.

Se, prima della Depressione, dagli Stati Uniti giungono notizie di ricchezze favolose che fanno girare la testa ai poveri europei, dopo la crisi vengono diffuse cifre altrettanto favolose, ma in senso inverso. […] Il tracollo sembra aver trasformato l’America in un paese sconfitto in guerra, dove spesso i marciapiedi

104 sono ostruiti da gruppi compatti di uomini che attendono il loro turno mentre

fanno la coda per il pane gratuito.18

Le allarmanti notizie che giungono dall’altra parte dell’Oceano non fanno che arricchire le discussioni sugli Stati Uniti. Con la crisi del 1929 il mito americano esce dal suo stadio di innocenza: come sostiene Francesco Durante, un mito assolutamente positivo come quello popolare di fine Ottocento doveva necessariamente modificarsi, caricandosi di elementi pessimistici che ne bilanciassero le caratteristiche.

Il mito che esce dagli anni Venti è profondamente diverso da quello che era arrivato, in Italia, sino al 1915. Il grande periodo di riformulazione coinvolge l’ascesa del fascismo, la crisi economica, e le difficili condizioni culturali del Dopoguerra; di conseguenza, la narrazione americana non può più permettersi quella ingenuità che l’aveva contraddistinta nei decenni precedenti. Se Pascal D’Angelo, nel 1910, poteva ancora dire che gli emigrati italiani si aspettassero le strade rivestite d’oro, già Tropeano nel 1917 aveva messo in guardia sulla «fine» del sogno americano. Insomma, «la depressione economica diviene il simbolo del fallimento di un’intera civiltà», e i nostri intellettuali, usando toni catastrofici, cominciano a parlare dell’America come di una «civiltà sul punto di soccombere».

Curiosamente, la maggior parte dei nostri intellettuali che viaggia negli Stati Uniti lo fa a ridosso di quel 1929 così carico di conseguenze. Depero arriva a New York pochi mesi prima del Venerdì Nero; Soldati è a bordo della nave quando apprende la notizia; Borgese, Ferrero e Cecchi approdano nei primi anni Trenta, forse quelli economicamente peggiori. Tutti condividono la netta percezione che qualcosa si sia rotto, nella vecchia America; la terra promessa dell’emigrazione è ormai recintata dall’Immigration Act e dà l’impressione di essere pronta a implodere assieme al sistema capitalistico. I critici non hanno mancato di sottolineare come tutti gli scrittori italiani in America lascino delle impressioni terrificanti sulla catastrofe economica. L’America vergine e solare di fine Ottocento si carica di tinte fosche, che Mario Soldati rende in maniera impeccabile descrivendo il quartiere Bowery di New York, popolato da migliaia di miserabili:

rieccoceli accanto, mentre avanziamo vergognosi della nostra apparenza, uno, due, tre, cinque, cento, mille, accosciati sui marciapiedi, appoggiati ai davanzali delle finestre terrene, silenziosi, immobili, i petti semiscoperti tra i cenci, gli sguardi avidi canini. Camminiamo cercando di non calpestarli e di non guardarli. Al nostro passaggio, del groviglio di quelli che si trovano sdraiati non si sposta una gamba, non si muove un piede, siamo costretti a scavalcare cautamente tali

105 indifferenze umane. E fissiamo lontano se appaia l’insegna dell’ufficio che anche

a noi darà lavoro, univa ancora in questa tempesta pietrificata.19

Stuzzicati dalla propaganda fascista, che criminalizzava lo stile di vita capitalistico e difendeva la «terza via» corporativista, molti intellettuali si chiesero in che modo si potesse guardare all’America come a un modello, dato che la crisi del ’29 aveva messo in evidenza la fragilità del suo potente sistema produttivo e la disumanità dei rapporti tra le persone nelle metropoli. Perciò tutti hanno gioco facile nel criticare la povertà americana, che è innanzitutto morale e ora anche materiale, e rivela l’inconsistenza di una società divorata dalle sue contraddizioni.

Il mito liberal-popolare forgiatosi lentamente nel corso dell’Ottocento subisce critiche feroci che ne mettono a repentaglio l’esistenza. Come poteva continuare a esistere un mito americano, ora che la prosperity era stata spazzata via dalla crisi economica e l’opportunity veniva vietata con i provvedimenti contro gli emigrati? A che cosa serviva un altrove utopico come quello americano, ora che il fascismo si proponeva di risolvere tutti i problemi della società proponendo un nuovo modello per il popolo italiano?

Le risposte sarebbero maturate con lentezza negli anni Trenta. Mentre l’autarchia strozzava la cultura italiana e il fascismo invadeva ogni ambito della vita nazionale, il mito americano indebolito dalle sue stesse crisi sarebbe tornato improvvisamente utile ad un piano più alto del dibattito culturale. L’America, ormai conosciuta solo attraverso reportages giornalistici e racconti di viaggio, perse completamente il contatto con la realtà e divenne a tutti gli effetti un’utopia: una terra perfetta dove spostare tutte le aspirazioni negate in patria dalla dittatura.

Il mito dell’America, che era nato come mito politico in epoca risorgimentale, riscoprì questa sua radice. Ora che aspirare al sistema economico americano appariva senza senso, gli Stati Uniti potevano comunque rimanere un modello di libertà per l’individuo e per la cultura. Mentre il fascismo schiacciava ogni opposizione e gli intellettuali, isolati, faticavano ad organizzarsi in una vera e propria resistenza, l’America offriva la sua immagine confortante, fresca, vitale, libera. Dato che «ogni popolo ha bisogno di trasferirsi, con l’immaginazione, in un mondo migliore (F)», i nostri intellettuali scelsero gli Stati Uniti.