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Dopo aver analizzato la condizione socio-culturale degli emigrati italiani, ci siamo soffermati sulla loro disperata «ricerca di identità». Abbiamo poi citato i primi, timidi passi della cultura ufficiale verso gli espatriati con Pascoli, e il suo doppio impegno politico-letterario nei confronti degli emigrati. La lirica invece registra l’importanza sempre maggiore del mercato culturale americano ambientando l’ultimo capolavoro di questo genere teatrale in California.

Rimaniamo dunque all’interno della prospettiva letteraria, e proviamo ad analizzare il rapporto – per nulla scontato – tra gli Stati Uniti e la prima avanguardia del Novecento, che proprio dall’Italia si propagò in Europa attraverso dei nuovi stilemi comunicativi e un caustico ricorso alla

pars destruens. Parliamo ovviamente del Futurismo, corrente artistico-letteraria senza eguali nel

periodo prebellico.

Quali sono stati i rapporti tra la nuova vague culturale, che si dichiarava ostile alla tradizione e al peso eccessivo dell’umanesimo in Occidente, e la democrazia degli Stati Uniti, costituzionalmente votata al progresso e al futuro, coi suoi grattacieli e le sue opere di alta ingegneria scientifica?

A un primo sguardo,

considerato che la traduzione inglese del Manifesto del Futurismo di Marinetti apparve nel numero di aprile-luglio di Poesia, e che alcuni brani vennero ripresi dal New York Sun nel 1909, lo stesso anno in cui il Manifesto uscì in italiano, si potrebbe presumere che il Futurismo abbia avuto un’influenza rilavante sull’arte americana.48

Tuttavia, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere da queste premesse, il Futurismo ebbe pochi e ridotti rapporti con gli Stati Uniti. Vi è talvolta un silenzio imbarazzante sulla società d’oltreoceano, che risulta quasi paradossale se prendiamo in esame uno qualsiasi dei tanti testi programmatici dell’avanguardia. Nel Manifesto dei pittori futuristi, leggiamo:

48 ROSE Barbara, America and Futurism, Columbia University Press, 2009, trad. it. LUNARDI Laura, L’America e i

70 ci ribelliamo alla supina ammirazione delle vecchie tele, delle vecchie statue, degli

oggetti vecchi e all’entusiasmo per tutto ciò che è tarato, sudicio, corroso dal tempo, e giudichiamo ingiusto, delittuoso, l’abituale disdegno per tutto ciò che è giovane, nuovo, palpitante di vita.49

Parole che trasudano, in un certo senso, americanità, dal momento che proprio la società statunitense, priva com’era di storia e radici millenarie, fece del progresso il proprio baricentro ideologico. Sorprende leggere nei futuristi queste parole d’ammirazione nei confronti del futuro, ma al contempo trovare un loro sostanziale disinteresse verso gli Stati Uniti, che già allora, coi grattacieli, le metropoli e le ferrovie, si innalzavano a paese del progresso per antonomasia. Lo stesso Marinetti non prestò mai particolare attenzione alla società americana, e ciò stupisce perché, nel suo celeberrimo Manifesto, leggiamo:

Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

Le «folle» di cui parla Marinetti potrebbero benissimo essere quelle di New York, agitate da un perenne, forsennato movimento; i «ponti» potrebbero iscriversi al numero pressoché infinito di opere maestose che costellano le metropoli americane; i «piroscafi» paiono quelli che trasportavano migliaia di disperati a Ellis Island; gli «aeroplani», invece, quelli delle prime traversate continentali e oceaniche, che destavano meraviglia sul pubblico e sui cittadini.

Invece Marinetti (e con lui la maggioranza dei futuristi) fu piuttosto distratto nei confronti della società americana. Questo perché il Futurismo nasceva innanzitutto come movimento collegato alla società e alla cultura europea, e ideologicamente schierato a favore di un ritorno militare, culturale e storico della penisola italiana al centro del mondo. L’anti-tradizionalismo ostentato dai futuristi non nasceva dall’esempio degli Stati Uniti, ma al contrario dall’insofferenza

49 Pubblicato come volantino della rivista Poesia l’11 febbraio 1910. Steso a Milano da alcuni pittori della neoformata avanguardia, verrà ben presto integrato dal Manifesto tecnico della pittura futurista, molto più corposo (e celebre).

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verso la cultura ufficiale italiana. In un certo senso, quindi, la cultura americana incentrata sulla modernità e l’elogio che il futurismo fece del progresso meccanizzato furono fenomeni paralleli, e quasi mai tangenti. Non a caso, il Futurismo finì con l’abbracciare l’interventismo prima e il fascismo poi, allontanandosi di fatto dalla civiltà americana.

Se Marinetti, Balla, Boccioni e gli altri futuristi «maggiori» si dimostrano sostanzialmente insensibili all’esperienza americana, ci furono alcuni esponenti «minori» che si interessarono personalmente alla cultura americana. In ordine cronologico, il primo fu Nanni Leone Castelli, che nel 1923 si trasferì a New York e organizzò la pubblicazione della rivista Futurist Aristocracy, «intuendo che la capitale delle arti si sarebbe trasferita ben presto da Parigi al di là dell’Oceano».50

Tuttavia, l’esperienza più significativa la visse Fortunato Depero, che nei tardi anni Venti soggiornò a New York. Qui facciamo un breve strappo temporale per descrivere velocemente la sua esperienza.51 Quando si trasferì a Manhattan, Depero era un grafico affermato e aveva

collaborato con importanti aziende del commercio di liquori. Attratto da facili prospettive di guadagno, aprì uno studio simile a quello che gestiva a Rovereto (lo chiamò Depero’s Futurist House) e lavorò sostanzialmente come grafico pubblicitario.52 A causa del tracollo finanziario del 1929,

però, rimase negli Stati Uniti giusto il tempo di concludere la mostra che andava organizzando, per poi rientrare in Italia nel 1930 dopo essersi lasciato alle spalle una serie di articoli e saggi che pubblicò su giornali e riviste italiane.

Il Futurismo dunque, tanto per il suo intrinseco eclettismo quanto per le sue predisposizioni ideologiche, ignorò gli Stati Uniti e concentrò la propria battaglia su un campo prettamente europeo; fu movimento paradossalmente più vicino alla Russia che non all’America.

Nei decenni successivi, poi, il Futurismo andò intrecciandosi con l’esterofobia fascista, diventando in un certo senso una cultura semi-ufficiale in grado di sostenere la visione ideologica del regime; eppure, le riflessioni teoriche del Futurismo intorno alla modernità e al mito della macchina ci torneranno utili nella seconda parte di questa ricerca, quando avremo a che fare con gli intellettuali italiani di fronte alla società americana.

Troveremo infatti degli straordinari punti di contatto tra le affermazioni volutamente scandalose del primo futurismo e le riflessioni degli scrittori degli anni Trenta. Contatti che

50 PIERINI Marco, L’universo futurista in America, “La Repubblica”, 23 febbraio 2014.

51 Ci rifacciamo interamente a BARONI Daniele, VITTA Maurizio, Storia del Design grafico, Milano, Longanesi, 2003. 52Lo stesso Depero affermò che «L’arte dell’avvenire sarà potentemente pubblicitaria» e che «l’auto-réclame non è vana, inutile o esagerata espressione di megalomania, bensì indispensabile necessità per far conoscere rapidamente al pubblico le proprie idee e creazioni».

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dimostrano non solo quanto Marinetti sia stato tonificante nella cultura letteraria italiana,53 ma

anche come le riflessioni sul mito americano siano passate – magari trasversalmente e inconsciamente – proprio attraverso l’esperienza modernista dei futuristi.