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Sempre dalla Golden Coast emerge il secondo, forte tratto comune del mito italiano dell’America. Lungo le generose terre della California gli italiani – a partire dal romanzo di Antonio Caccia del 1850 – costruirono una ricca narrazione popolare che anche oggi, con forme parzialmente mutate, continua ad esercitare grande fascino.20

La California, come abbiamo già spiegato, fu l’ultima terra fertile della frontiera e la sola su cui gli italiani riuscirono ad arrivare senza ritardi, poiché era ancora abbastanza libera e a prezzi

17 MEDA Ambra, Al di là del mito. Scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, cit., p. 18. 18 FERRERO Leo Amérique: miroir grossissant de l'Europe, cit. p. 57 e 98.

19 CECCHI Emilio, Messico, in Saggi e viaggi, cit., p. 591.

20 La California rappresenta una narrazione mitologica così forte da sembrare addirittura autonoma rispetto a quella americana, che a fatica la contiene. La baia di San Francisco ha rappresentato un’idea di realizzazione personale e ricchezza per tutte le generazioni italiane: dai contadini di fine Ottocento ai borghesi degli anni Trenta, affascinati da Hollywood; senza dimenticare i festival hippie degli anni Sessanta e la rivoluzione informatica che stiamo vivendo ancora oggi. In modi diversi, la California ha sempre rappresentato una terra a tratti utopica.

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ragionevoli fino agli anni Ottanta dell’Ottocento. Le agenzie di navigazione avevano inondato i villaggi italiani di cartoline edulcorate e accattivanti; tutti i «cafoni» abruzzesi e i piccoli proprietari della Sicilia sapevano che in California si facevano tre raccolti l’anno, il vino veniva buono come quello del Mediterraneo e la terra era fertile, grassa, e libera. Il mito della California nacque ovviamente come mito contadino, ma si arricchì ben presto di componenti intellettuali grazie a Hollywood, che si trasformò molto presto in un vivace centro culturale che attirava moltissimi europei.

A testimoniare la forza attrattiva della California ci sono i nostri autori: la maggior parte di coloro che si recarono negli Stati Uniti si sorbirono la difficile traversata delle Grandi Pianure solo per poter vedere coi loro occhi l’Oceano e le strabilianti costruzioni di San Francisco; tra tutti Mario Soldati, Borgese, che lì insegnò, Cecchi, Ferrero, Fante (che ci andò a lavorare) e molti altri ancora.

Cecchi dedica a San Francisco e dintorni quasi un quarto di Messico, e ci ritorna, di tanto in tanto, in America amara. La California è, secondo lui, l’unica terra in cui gli italiani possono elevare la loro condizione, facendo finalmente il lavoro per cui erano emigrati: i coltivatori. Nonostante il celebre astio di Cecchi nei confronti degli immigrati italiani, egli dedicherà un paio di riflessioni (in

Messico) soltanto per celebrare il momento più nobile della Grande Migrazione; da San Francisco,

infatti, partirono le avventure di Giannetti (fondatore della Bank of America) e della Del Monte, azienda agricola italiana ormai di fama internazionale.

Ciò che colpisce di queste riflessioni sulla California è la loro sostanziale continuità con la

vulgata ingenua e popolare di fine Ottocento. Ferrero la trova incantevole; Cecchi, appunto,

dignitosa. Borgese la descrive così:

qui certo ogni stagione porta i frutti di tutte le stagioni. Al viaggiatore nuovo, al viaggiatore da una settimana o da un giorno, nulla parla di male e di dolore; e l’opulenza naturale è da Paradiso terrestre. Sempre più punte curiosità di saper bene, di capir bene, come ci vivano questi Adami ed Eve, questi fortunati coloni di un giardino di Esperidi, che blandi e calmi, passeggiano nei pomeriggi di settembre tra le meraviglie del loro Eden.21

Il tratto distintivo starebbe dunque nell’«assenza di dolore», che è mancanza di preoccupazioni, di penuria materiale, di vuoto spirituale. La California è davvero l’Eden, quello più autentico e non artificiale, non minacciato dalla macchina industriale americana. Toni simili sono mantenuti anche dalla penna leggera di Cecchi in Messico:

162 l’impressione, provavo, d’una natura veramente diversa, altra: ribelle a quei

rapporti antropomorfici che misteriosamente pervadono anche il nostro più selvatico paesaggio. Una natura vuota, disabitata: e non si poteva affacciarsi al limite delle sue forme, senza provare qualcosa come una vertigine, un arresto del cuore, lo sgomento d’una solitudine com’è nelle distanze fra le stelle.22

Il primitivismo della California è dato proprio dall’incapacità dell’uomo di dominare del tutto gli elementi naturali.

Il nucleo tematico californiano ha diverse importanti sotto-unità. Tralasciando Hollywood, che verrà giustamente inserita nella categoria mitologica relativa al cinema, la California è anche il principale motore narrativo legato all’oro come valore economico e cromatico. Già nel 1850 Antonio Caccia aveva ambientato il primo romanzo italiano in America durante la gold rush californiana; mezzo secolo più tardi, Puccini insisteva sugli stessi richiami storici con La fanciulla del

West, assicurando ancora una volta la grande presa che la California esercitava sull’immaginario

collettivo italiano. Sebbene Tropeano ne sancisse la fine nel 1917, il mitologema dell’oro arrivò sano e robusto negli anni Trenta, dove le migliori descrizioni vengono da Cecchi, il quale volle visitare le città minerarie fantasma, costruite e abbandonate nell’arco di una generazione. I suoi viaggi in Messico sono quasi esoterici, perché incontrano schegge d’America che ormai non esistono più:

ancora ragionano dell’oro. Dicono ch’è questione di tempo: e l’oro tornerà, come se fosse una lentissima, prelibata secrezione della terra. E chi sa poi se questa geologia è del tutto sbagliata.23

Coloro che «ragionano dell’oro» sono gli abitanti di una città fantasma, i pochi che ancora rimangono a vivere lungo le vecchie vene aurifere nella speranza che il mito americano si manifesti un’ultima volta. È la ricerca ossessiva del colpo di fortuna, che è parte integrante della mentalità americana, di cui parlò anche Mario Soldati ragionando lungo le strade di New York:

a vent’anni, un ragazzo che dall’Europa o dall’immensa provincia degli States emigri a New York continua a vedere tutt’oro per qualche mese, per qualche anno, forse per tutta la vita. Non ci prede che batoste; se può e finché può chiede quattrini alla lontana, spregiata famiglia. Tuttavia è sicuro; verrà anche per lui

22 CECCHI Emilio, Messico, in Saggi e Viaggi, cit., p. 555. 23 Ivi, p. 553.

163 l’opportunity, il colpo di fortuna, l’improvviso trionfo metropolitano, grande o

piccolo, che lo mette a posto per la vita.24

C’è dunque da credere che l’oro californiano sia in realtà l’oro di tutta l’America: anche a New York, infatti, Soldati riconosce le stesse aspirazioni della provincia americana, l’innata fiducia di milioni di individui nei confronti della opportunity.

Anche Leo Ferrero, en passant, dedica qualche riga all’ossessione per l’oro negli Stati Uniti, che lui considera deprecabile; secondo il giovane scrittore, alla base del nomadismo tipico degli americani (che raramente concludono la vita nella casa in cui sono nati) si trova la folle adorazione del denaro:

un fleuve d’or au courant furieux emportait les Américains. On le voit en lisant les autobiographies et les biographies. Il faisaient tous les métiers, s’improvisaient banquiers, industriels, farmers, businessmen, changeaient de ville, d’état, étranges parmi d’étrangers, sans préparation, sans instruction, sans titres universitaires, sans lettres de recommandation – et il réussissaient toujours. Quoi qu’ils fissent, ils trouvaient de l’argent.25

Insomma, in America ci si ferma solo quando si può appagare la propria sete d’oro, di ricchezze, di mobilità sociale. Anche Depero, coi suoi articoli dal linguaggio azzardato, dà la sua conferma da New York:

avanza per il suo stretto sentiero, alla ricerca di un filo d’oro, della pepita sognata, della biada seducente, del granello confortatore. Sul permanente cielo di piombo un lampo di ricchezza intravvista. Falchi, corvi, gufi ed avvoltoi umani sbatacchiano le ali e gracchiando invitano verso ingannevoli trappole. L’imprevidente cade in pasto ai voraci rapinatori.

Stampano e fondono dollari e dolori, fortune e tragedie, distillando liquori e narcotici per il febbricitante baccanale della follia umana, che vuole cibarsi d’oro, vestirsi d’oro, inebbriarsi d’oro.26

Nel complesso narrativo legato al mito italiano dell’America, la tematica dell’oro è sicuramente la più stabile e la più condivisa. Se ne trovano testimonianze in qualsiasi produzione culturale: romanzi, fumetti, pellicole cinematografiche, canzoni popolari, e via discorrendo. E ancor oggi il mito del gold rush non sembra dare segni di cedimento.

24 SOLDATI Mario, America primo amore, cit., p. 46.

25 FERRERO Leo. Amérique: miroir grossissant de l'Europe, cit., p. 143. 26 DEPERO Fortunato, Un futurista a New York, cit., pp. 88 e 90.

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