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Morire a Santa Fe Le impressioni di Leo Ferrero

Stabilimento grafico Vogliotti di Torino, anno 1946; la guerra è appena finita, e nei maggiori centri editoriali italiani si assiste a una vera propria fioritura di testi a stampa. Era come se, crollata la diga della censura fascista, editori più o meno improvvisati sentissero l’urgenza di recuperare il ventennio perduto, dando luce a testi validi e ottusamente cassati dagli agenti del Ministero della Cultura Popolare.

Tra questi documenti, nella realtà già dinamica della Torino post-bellica, compare un volume mai più ristampato e oggi quanto mai prezioso. Si intitola Diario di un privilegiato sotto il

fascismo, ed è stato scritto da un intellettuale morto troppo giovane, prima di poter dare i suoi

migliori contributi alla cultura europea. Il diario va dall’ottobre del 1926 sino al dicembre del 1927 e racconta meglio di molti altri documenti che cosa significhi vivere in un paese che sta lentamente soccombendo a una dittatura strisciante, che con passi poco appariscenti e molto concreti si appropria di tutti i gangli dello Stato.

A scriverlo fu un ragazzo nato nel 1903 da una famiglia straordinaria: suo padre era Guglielmo Ferrero, storico famosissimo che si distinse, tra molte valide opere, per la sua attenta analisi relativa al Congresso di Vienna. Sua madre, invece, era Gina Lombroso, figlia di quel Lombroso dalle ricerche tanto apprezzate quanto criticate che per almeno un secolo influenzarono la criminologia, la letteratura, insomma la forma mentis degli europei alle prese con la colonizzazione imperialistica del mondo.

Il ragazzo si chiamava Leo Ferrero, e dimostrava, a detta di chi lo conobbe, un’intelligenza fuori dal comune. Secondo Piero Operti, che curò l’edizione del 1946,

Quando [Leo] morì, unanime fu il compianto in Europa e in America; in Italia fummo due a parlare di lui, Nello Rosselli, suo compagno di studi a Firenze, in Nuova Rivista Storica, e io in Solaria. Ora tutti possono farlo, ed è un debito che

136 l’Italia ha verso se stessa, poiché essa deve ricuperare i suoi scrittori perduti

durante il ventennio, deve soprattutto accogliere le parole di verità e amore che i suoi figli più chiaroveggenti le rivolsero, amanti delusi, dalle solitudini dell’esilio.20

Al di là di un certo comprensibile trionfalismo, dettato dall’euforia della vittoria resistenziale, le parole di Operti sono sicuramente interessanti. Ferrero lasciò infatti l’Italia dopo le reiterate minacce degli squadristi mussoliniani, che provocavano giorno e notte la sua famiglia. Esiliato in Francia prima e in America poi, Leo andò incontro a un incidente stradale che si rivelò fatale lungo le strade di Santa Fe; alcuni videro in questo una sinistra rappresaglia del partito, che non di rado perseguitava i suoi nemici anche fuori dai confini nazionali.

Leo Ferrero si stava distinguendo come scrittore di teatro (aveva esordito con una commedia a sedici anni) e di saggi. Era un vero intellettuale europeo: formato in una famiglia straordinariamente dotta, parlava e scriveva correntemente in francese (sua lingua prediletta), italiano e inglese, oltre a possedere le canoniche conoscenze di greco e latino. Era un giovane dalle speranze straordinarie, che come tanti della cosiddetta generazione littoria trovò nel fascismo un ostacolo insormontabile alla realizzazione personale. Secondo la madre Gina Ferrero Lombroso, curatrice del suo testamento letterario,

gli italiani anche afascisti furono letteralmente chiusi in una gabbia di filo spinato, furono tolti i passaporti, e uscire dall’Italia divenne un reato che poteva costare la vita.21

Nel suo diario del 1926-27, Leo – che all’epoca aveva ventitré anni – dimostra una lucidità fuori dal comune. Nel narrare la strenua resistenza di suo padre Guglielmo, che per un po’ provò a seguire l’esempio di Benedetto Croce, egli matura delle convinzioni sul fascismo che lasciano a bocca aperta. È un anno drammatico per la sua famiglia, ma rivelatore per lui, che, a livello personale, sente consumarsi quel lungo processo di maturazione che lo stava portando alla maturità intellettuale. Tant’è che il suo diario, in data 7 ottobre 1926, si apre con un incipit simbolico:

non rimpiango la giovinezza. Mi appaga e conforta l’idea che d’ora innanzi non proverò più dei sentimenti che per la seconda volta.22

20 OPERTI, Piero, Introduzione del Diario di un privilegiato sotto il fascismo, Torino, Vogliotti, 1946, p. 18. 21 FERRERO LOMBROSO, Gina, Il diario di un privilegiato, Torino, Vagliotti, 1946, p. 29.

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Ferrero, in mezzo a tanti intellettuali che vissero lo stesso identico dramma, ci regala parole fresche, poco conosciute in Italia, attraverso cui rivalutare la lenta usurpazione del potere e della cultura effettuata dai quadri del regime fascista. Nell’aprile del 1927 leggiamo:

e non poter andare all’estero! Ma che vita è questa? Renderci a poco a poco la vita impossibile e impedirci di cercare aria fuori! Quando mi guardo attorno, e vedo il mio paese, lo sento nemico e indifferente; so che tutti noi siamo offerti – preda inerme – al capriccio di alcuni uomini, e che tutto il male che salterà loro in testa di farci potranno farlo indisturbati e gloriosi! Mi sembra d’essere naufragato tra i barbari.23

La frustrazione del giovane intellettuale non sembra poi diversa da quella di tanti emigrati che, finanche nei primi anni di fascismo, provarono a lasciarsi alle spalle un paese sentito «nemico e indifferente». E proprio come tanti altri prima di lui, Ferrero conclude:

per sopravvivere bisogna che mi trovi un piccolo mondo fuori d’Italia.24

Quel «piccolo mondo» fu inizialmente fatto di letteratura; Ferrero collaborò con alcune riviste parigine fino a quando gli fu possibile, lavorando a stretto contatto Gobetti e le redazioni delle riviste “Il Baretti” e “Rivoluzione Liberale”. Quando la situazione divenne insostenibile, emigrò in Francia nel 1928, dopo aver ottenuto il tanto sospirato passaporto dalle autorità fasciste; qui collaborò con un numero impressionante di riviste e riuscì a pubblicare la sua tesi di laurea su Leonardo da Vinci (rigorosamente in francese) con una prefazione di Paul Valéry, uno dei critici migliori del tempo. Nonostante questi successi, Alessandra Cimmino25 sostiene che il giovane non

riuscisse a rendersi economicamente indipendente dalla famiglia; questo desiderio di indipendenza materiale lo spinse a cerca fortuna negli Stati Uniti, vincendo una borsa di studio dell’Università di Yale messa a disposizione dalla Rockefeller Foundation.

Nonostante il faticoso lavoro universitario, Ferrero scrisse sugli Stati Uniti delle pagine molto interessanti, che sono praticamente sconosciute in Italia. Le sue impressioni sono state raccolte dalla casa editrice parigina Redier, che le ha pubblicate nel 1939 col titolo Amérique, le miroir

grossisant de l’Europe; ancor oggi il testo è privo di una traduzione italiana ed è estraneo al nostro

panorama letterario.

23 Ivi., p. 132.

24 Ivi, p. 38, data 8 ottobre 1926.

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Gli ultimi anni di vita di Ferrero furono piuttosto tormentati. Nel 1931, non essendo riuscito ad ottenere altri fondi dalla Fondazione, accettò di farsi finanziare una ricerca antropologica nel New Mexico, dove il governo stava promuovendo lo studio dell’arte pittorica indiana. Nonostante la depressione che lo colse nei primi anni Trenta e la costante ossessione per l’indipendenza economica, Ferrero scrisse pagine dall’alto valore sociologico e antropologico. Sfruttando l’impostazione storica tipica della sua famiglia, colse alcuni degli aspetti più profondi dell’animo americano, che a noi sono giunti in maniera piuttosto bizzarra attraverso l’edizione francese del 1939, che non ha avuto ristampe.

Gli appunti americani sono una miscellanea complessa e variegata. Tralasciando le parti dedicate ai lunghi sconfinamenti in Messico e gli appunti preparatori per un viaggio in Cina che non poté mai compiere, scopriamo che il suo ragionamento è incentrato sul confronto serrato tra l’America e l’Europa.

Ferrero sviluppa un ragionamento lucido e imparziale, ed è l’unico degli intellettuali a dare respiro europeo al mito americano. L’autore poté anche sfruttare, come modello, il saggio di suo padre, Guglielmo, pubblicato nel 1909, da cui trae l’impostazione antropologica.

La sua puntigliosità lo porta a disquisire di tematiche economiche (particolarmente in voga, dopo la crisi del ’29) e sociologiche (alla ricerca delle radici della società americana), e molte delle sue posizioni sugli Usa sono assai peculiari. Sullo sfondo di un generale pessimismo, Ferrero arriva ad annullare le differenze tra America ed Europa, affermando che l’una sia lo specchio dell’altra. Ragionando in termini di filosofia della storia, accoppia la mancanza di cultura pre-capitalista americana alla scomparsa del cristianesimo nel Vecchio Continente, sostenendo quindi che, tutte le volte che l’Europa guarda l’America, essa in realtà sta osservando sé stessa attraverso uno specchio. E in questo processo sono fondamentali gli intellettuali:

L’Amérique en ce sens c’est le miroir grossissant du monde et de ses misères. […] Dans l’histoire moderne il n’y a rien de comparable à l’enthousiasme avec lequel ses passagers ont couvert de louanges le vaisseau de l’état américain. […] L’enthousiasme des écrivains, ò mon avis, ne signifie point qu’ils se sont idénti- fiés avec l’Amérique, mais qu’ils ont désiré le faire, sans y parvenir.26

Gli intellettuali hanno contribuito a far fiorire i dibattiti sull’America perché in questo altrove hanno potuto conoscere sé stessi, trovando un metro di paragone in un periodo storico in cui tutte le certezze (sociali, economiche, politiche) cadevano rovinosamente a pezzi.

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Vivendo negli Stati Uniti per un paio d’anni, Ferrero riesce a farsi una solida opinione su quasi tutti gli aspetti rilevanti della vita americana. Parla di donne, di gangster, di politica, di uomini pragmatici e dell’allergia statunitense alle scienze pure; ma parla anche della mentalità americana, giustificando i turbolenti anni del primo Roosevelt attraverso lo spirito di frontiera e la mentalità del pioniere.

Le pagine di Ferrero hanno un carattere fortemente specialistico e sono pressoché sconosciuto anche nel mondo della critica. Oggi, quasi tutta la sua produzione è scomparsa, e se i lavori teatrali e i saggi in italiano risultano introvabili. Insomma, i sospiri di Operti datati 1946 sono rimasti inascoltati, ed è stata la Francia ad accogliere questo nostro espatriato, accudendo l’eredità dell’orfano che non poté tornare fisicamente in Italia, stroncato all’improvviso dal cozzare di due automobili nella lontana Arizona.