Alla luce della ricostruzione storica, possiamo aggiornare le caratteristiche di quell’ideale «triangolo» con cui abbiamo descritto il mito americano. Abbiamo visto come l’opinione pubblica simpatizzasse per il fascismo, e come la cultura italiana, ormai autarchica, avesse posto l’altrove rappresentato dagli Stati Uniti al centro del dibattito culturale.
Il nostro terzo vertice, quello rappresentato dalla colonia italo-americana, fu al centro di un grande processo di trasformazione e ridusse notevolmente il proprio contributo di mediazione tra Italia e Stati Uniti. Per molti decenni, la generale tendenza degli emigrati fu quella di una forte resistenza all’americanizzazione. Gli italiani si ghettizzavano negli slums delle metropoli orientali, oppure finivano a lavorare in ambienti dominati dai connazionali (come le miniere o le ferrovie), preferendo di gran lunga la cultura italiana a quella americana. Ciò produsse quel complesso fenomeno di letteratura italo-americana che abbiamo analizzato nel corso della ricerca.
Nonostante le colonie si sforzassero di mantenere la loro identità d’origine, troppi fattori arrivarono a minacciare la nazionalità degli emigrati. Prima l’Immigration Act, che di fatto bloccò il continuo arrivo di italiani in America; poi le nuove direttive del regime, che invitava i coloni a prendere la cittadinanza americana per diventare elettori e influenzare la democrazia a stelle e strisce; infine, e questo fu il vero fattore determinante, la nascita di figli culturalmente e legalmente americani.
La comunità italo-americana affrontò una dolorosa crisi generazionale tra i vecchi immigrati, incapaci di assimilarsi alla cultura d’arrivo, e i loro discendenti, desiderosi di uscire dallo stato di minorità in cui si trovavano gli italiani. Questa crisi di identità trova una data simbolo nel 1938, quando un nuovo «tipo» di italo-americano, John Fante, pubblica il suo primo romanzo, Wait
until spring, Bandini, in lingua inglese.
La letteratura d’emigrazione era stata, salvo rare eccezioni, una letteratura fortemente autobiografica. Gli autori trovavano nella scrittura una forma di conforto per lo sradicamento dal paese natio, e un ottimo farmaco per razionalizzare la nuova vita americana. Noi abbiamo potuto citare l’autobiografia di Pascal D’Angelo, scritta in inglese, e il poema The Walker di Arturo Giovannitti, opere fortemente soggettive e dalla grande carica emotiva.
Il romanzo di Fante, invece, testimonia i nuovi interessi della cultura italo-americana. Il testo si inserisce a pieno titolo nella narrativa, riducendo l’importanza della componente autobiografica. La prosa di Fante è fresca, giovane, totalmente americana; l’autore usa con
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disinvoltura lo slang e inserisce spesso e volentieri delle citazioni in italiano, producendo un radicale cambiamento nel rapporto tra gli italiani e la cultura americana.
Se prima di Fante il recupero dell’italianità era un’operazione dolorosa e necessaria, che aiutava gli emigrati a superare il dramma psicologico dell’abbandono della terra natia, con Fante il fenomeno è invertito: il recupero dell’italianità diviene operazione artificiale e letteraria. Fante è un americano, non può rimpiangere una «patria» che non ha mai visto, e che può conoscere solo grazie ai resoconti dei genitori abruzzesi; Fante proviene dalla «colonia» italiana, certo, ma ha una lingua e un sentire che sono del tutto americani. Non conosce l’italiano, ma ne recupera gli stilemi (sbagliando talvolta la trascrizione) per aumentare il realismo della sua narrazione.
John Fante, oltre ad essere un ottimo romanziere, rappresenta anche il complesso passaggio identitario che si consuma all’intero della comunità italo-americana. Messa sotto pressione dall’opinione pubblica americana (che accusava gli emigrati italiani di lavorare per una potenza straniera, il regime di Mussolini) e dal governo fascista (che aveva spinto per trasformarli in una
lobby politica) gli italo-americani vennero progressivamente assorbiti dalla cultura d’arrivo e persero
quei decennali legami che avevano ostinatamente conservato con l’Italia; basterà leggere alcuni passaggi significativi del primo romanzo di Fante per rendersi conto del delicato passaggio di identità che vissero gli emigrati italiani.
Il primo romanzo di Fante, Wait until spring, Bandini (1938) venne subito acclamato dalla critica americana perché, prima di tutto, parlava con schiettezza degli emigrati italiani descrivendo con ferocia la dura lotta per la sopravvivenza all’interno di famiglie talvolta incapaci di approcciarsi con serenità al processo di assimilazione con la società d’arrivo. Nella famiglia Bandini, protagonista del romanzo, l’americanizzazione avviene a strappi, attraverso episodi violenti e ripensamenti improvvisi, e può essere intesa come una vera e propria allegoria della crisi di identità della comunità italo-americana.
Da un punto di vista psicologico, la nuova volontà all’assimilazione degli italo-americani è rappresentata dalle attrazioni sessuali di Svevo Bandini, padre di Arturo, il quale tradisce la moglie italiana con una donna anglosassone, ricca, protestante e bionda.
Il matrimonio fallito di un personaggio che si chiama – simbolicamente – Svevo lascia numerose suggestioni: Svevo è un muratore disoccupato, è il tipico immigrato di prima generazione che può offrire solamente forza-lavoro non qualificata, e soprattutto è ancora incapace di assimilarsi del tutto alla società americana. Nella povertà dei Bandini, nello stile crudo di Fante, che entusiasmò Vittorini e il suo piccolo circolo di traduttori raccolti attorno ad Americana, leggiamo la migliore testimonianza del processo di integrazione italo-americana.
119 Bandini, il nemico della neve. Saltò giù dal letto alle cinque del mattino, con la
velocità d’un razzo, facendo boccacce all’alba gelida, sogghignando al suo indirizzo: ah, questo Colorado, l’ultimo lembo di terra creato da Dio, sempre ghiacciato, il posto peggiore per un muratore italiano; ah, che vita maledetta! Avanzando sull’esterno dei piedi raggiunse la sedia e accattò i pantaloni per infilarseli subito mentre il pensiero correva ai dodici dollari al giorno che perdeva, la paga sindacale, otto ore di duro lavoro, e tutto per colpa della neve. Diede uno strattone al cordoncino della veneziana che scattò verso il soffitto crepitando come una mitragliatrice: il mattino bianco e nudo si tuffò in camera, inondandola di luce. Svevo gli rispose con un grugnito. Sporcaccione, ecco come lo salutò. Sporcaccione ubriaco.38
Le parole segnate in corsivo sono state scritte in italiano nel testo: come notò Vittorini, che fu il suo primo traduttore, Fante sbagliava molto spesso la trascrizione e ammise molto candidamente di non conoscere l’italiano, ma di averne appreso i rudimenti sui libri, per scopi puramente letterari.
La vicenda della famiglia Bandini è sicuramente arricchita da elementi tratti dalla vita di Fante, che non ebbe un’infanzia proprio semplice: ma qui è chiaro che l’italianità, lungi dall’essere il centro della riflessione dell’emigrato ormai perfettamente americano, viene considerata un tratto esteriore, un connotato romanzesco, un quid che aumenta la particolarità del romanzo e gli conferisce un sapore esotico, più vicino all’esperienza dei lettori coevi.
Altre volte, invece, Fante ci fa capire come sia cambiata la percezione degli italo-americani, nonostante, in apparenza, molte cose sembrino sempre le stesse. Ecco il momento in cui la vedova Hildegarde, americana doc, conosce il prestante Svevo Bandini, sciorinando una serie imbarazzante di stereotipi:
è così lui era italiano. Splendido. Solo l’anno prima aveva fatto un viaggio in Italia. Bella. Doveva sentirsi orgoglioso delle sue origini. Non sapeva anche lui che la culla della civiltà occidentale era proprio l’Italia? Aveva mai visto il Campo Santo, o la cattedrale di San Pietro, gli affreschi di Michelangelo, l’azzurro del Mediterraneo? E la Riviera?
No, non li aveva mai visti. Le disse parole semplici, che era abruzzese, e non si era mai spinto a nord, nemmeno a Roma. Aveva lavorato duro, fin da ragazzo. Non aveva avuto tempo per nient’altro.
38 FANTE John, Wait until spring, Bandini, New York, 1938. Trad. it. MONICELLI Giorgio, Aspetta primavera, Bandini, Milano, Mondadori, 1948.
120 L’Abruzzo! La vedova sapeva tutto. Ma allora aveva sicuramente letto le opere
di D’Annunzio, era abruzzese anche lui.
No, non lo aveva letto, quel D’Annunzio. Ne aveva sentito parlare, ma non lo aveva mai letto. Sì, sapeva che quell’uomo importante era della sua provincia.39
Il punto di vista è rovesciato: Fante non adotta quello dei suoi genitori, che si interrogavano sull’America, ma quello dei suoi coetanei, che invece cominciavano a guardare con curiosità a quelle origini ormai distanti che caratterizzavano il loro passato. Nei romanzi di Fante, i personaggi americani investono l’Italia con un insieme di stereotipi completamente slegati dalla realtà; fanno, insomma, la stessa cosa dei nostri emigrati in partenza per New York. Attraverso le opinioni di Hildegarde l’autore mette in scena il mito italiano, il punto di vista dell’America, quell’insieme di luoghi comuni basati sul Rinascimento, la bellezza naturale della penisola, e persino la vacuità delle pretese degli italo-americani, che negli anni Trenta avevano ridotto la loro fiera appartenenza nazionale a una serie di tratti superficiali e sostanzialmente stereotipati: ne è l’esempio D’Annunzio, che diventa puro nome, una celebrità inconsistente, sconosciuta ma ammirata.
John Fante venne tradotto da Vittorini, che fornì la prima versione italiana di Wait until
Spring, Bandini inserendone alcuni brani in Americana.40 Lo stesso Vittorini, poi, fu il primo a
interrogarsi sull’appartenenza di Fante: un romanziere del genere, che scrive in inglese ma usa consapevolmente le proprie radici italiane, appartiene agli Stati Uniti o all’Italia?
La questione si fece incredibilmente complessa e ancor oggi non ha smesso di coinvolgere i maggiori studiosi della realtà italo-americana. Martino Marazzi, che in tempi recenti si è occupato come forse nessun altro di questi temi, ha scritto:
Una delle diversità degli appartenenti alla seconda generazione è quella di essere già nati all’interno dell’idea, il che li rende costituzionalmente e individualmente homines americani, «figli della libertà», proiettati in un mondo più ampio e complesso di quello derivato dall’epserienza emigratoria italiana.
Quanto c’è di italiano da trovare in Fante va innanzitutto ricercato all’interno di un’operazione finzionale. […] Egli ammetteva in un biglietto molto eloquente a Prezzolini la sua ignoranza dell’italiano come cosa assolutamente normale poiché, essendo un giovane americano di seconda generazione, era cresciuto attuando una tipica rimozione pressoché totale delle radici linguistiche genitoriali.41
39 FANTE John, Wait until spring, Bandini, cit., p. 128.
40 Il romanzo uscì anche in Inghilterra e venne tradotto in Norvegia e in Italia nel 1939. Cfr DURANTE Francesco,
Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, vol. 2, Milano, Mondadori, 2001.
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Insomma, John Fante e i suoi coetanei non sono più italiani. Sono hyphenated Americans, per usare un termine che andava di moda a quel tempo: sono cittadini della grande democrazia, e stanno perdendo il contatto con le loro radici etniche. Fante e i suoi coetanei – De Lillo, Pagano, Panunzio – non solo hanno un modus operandi tipico della letteratura americano, ma addirittura invertono il processo creativo: da americani, riutilizzano il comune passato italiano e arrivano a creare un mito letterario dell’Italia, terra che per loro era sconosciuta, ferma in un tempo immobile. Il primo romanzo di Fante è piuttosto eloquente: tutti i richiami all’Italia, linguistici e culturali, sono artefatti, artificiali, poco scientifici, e mantengono quel sapore aneddotico che è tipico dei racconti degli emigrati. Come scrive ancora Marazzi:
fu anche Fante (come molti americani, d’accordo) una persona mediamente poco informata, ai limiti della più totale ignoranza, su pressoché qualsiasi aspetto che avesse a che fare con l’Italia reale e che non rientrasse nella sfera della famiglia di provenienza. L’Italia era per Fante la sua famiglia: mamma, papà, fratelli, nonni, cugini, zii, magari qualche amico (il collega Jo Pagano). La famiglia e basta.42
Insomma, nella costellazione letteraria che Fante usa per orientarsi nei suoi romanzi troviamo un sistema di riferimento non diverso da quello di Pavese: un altrove che ormai si è slegato dalla realtà, e che torna utile per dare un luogo e uno sfogo alle proprie riflessioni.
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Capitolo 4
AMERICA D’INCHIOSTRO
Qui certo ogni stagione porta i frutti di tutte le stagioni. Al viaggiatore nuovo, al viaggiatore da una settimana o da un giorno, nulla parla di male e di dolore; e l’opulenza naturale è da Paradiso terrestre. Sempre più punte curiosità di saper bene, di capir bene, come ci vivano questi Adami ed Eve, questi fortunati coloni di un giardino di Esperidi, che blandi e calmi, passeggiano nei pomeriggi di settembre tra le meraviglie del loro Eden.
Giuseppe Antonio Borgese, Atlante americano, 1936, p. 79.
Parlare di mito americano si è rivelato faccenda complessa, difficile, suggestiva; ci siamo dovuti limitare, ovviamente, alla letteratura, dotta e popolare, tralasciando per ovvi motivi gli apporti delle arti figurative, soprattutto la pittura e i fumetti; per quel che riguarda il cinema, siamo stati costretti a ridurne l’importanza, a inscatolarlo in un paio di paragrafi, che non rendono giustizia all’importanza inimmaginabile del cinematografo nella fissazione di alcuni stereotipi americani.
Dopo aver elencato alcuni fatti fondamentali del ventennio, eccoci arrivati finalmente all’America d’inchiostro, a quella terra misteriosa e inesplorata che costituì un vero e proprio altrove per le generazioni di intellettuali che si trovarono a vivere – o a formarsi – sotto il regime. Come scrive la Meda, infatti,
ammirazione e riprovazione, mitizzazione e rigetto: i sentimenti che il Nuovo Mondo suscita nell’intellighenzia italiana sono dunque molteplici e oscillanti fra attesa dell’esportazione degli ideali democratici e minaccia della propagazione di un esasperato materialismo che pregiudichi ogni slancio spirituale.1
Così, mentre il fascismo monopolizza la cultura e obbliga, con ricatti e violenze, ad adeguarsi ai diktat del Ministero della Cultura Popolare, alcuni intellettuali riescono comunque a ricavarsi una piccola nicchia di libertà, un orticello dove coltivare le proprie riflessioni senza mettere a repentaglio la vita o la professione. Sono studiosi affermati, come nel caso di Cecchi; studenti promettenti, come Soldati e Pavese; o ancora antifascisti convinti, come Borgese e Salvemini. Tutti
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loro, accomunati dalla difficile convivenza col regime, scoprono improvvisamente l’America e la trasformano in un mito letterario.
Un mito che, però, non nasce da zero: un lungo processo di sedimentazione aveva fornito ai nostri scrittori una panoplia di luoghi comuni, stereotipi, impressioni ed aspirazioni legate agli Stati Uniti. Ne abbiamo visto le origini: vecchie reminiscenze risorgimentali, impressioni giornalistiche, tratti marcati della cultura popolare; non a caso, nel ventennio ne vedremo riproposti molti, talvolta rielaborati anche in maniera notevole, ma fedeli al modello originario tardo- ottocentesco.
Questa parte della ricerca non mira affatto all’esaustività: il mito americano, anche solo dal punto di vista letterario, è così complesso e paradossale da non cedere a facili tassonomie. Fino a dove sarà possibile, cercheremo dei punti di contatto tra autori anche molto diversi tra loro; confronteremo gli aspetti positivi del mito con quelli negativi, talvolta agghiaccianti, dell’anti-mito, e alla fine tireremo le somme.
Come sostiene sempre la Meda, precisa studiosa del mito americano,
le contrastanti immagini che dall’America ci vengono mediate solo in parte collimano con la sua identità effettiva: in prevalenza costituiscono una deformazione dell’altrove, orchestrata per tamponare le lacune di una particolare civiltà, in un particolare momento storico-politico. L’oggettività del reale viene compromessa per proiettare su uno spazio estraneo le utopie e gli incubi di un corpo sociale insoddisfatto di se stesso.2
L’America diventa dunque un terreno teorico dove spostare i ragionamenti e le riflessioni di un’intera generazione: l’America diventa un serbatoio infinito da dove estrarre nuove immagini per dare forma alle angosce e alle speranze della società italiana preda della dittatura e del rinnovamento industriale.
Il mito si è dunque propagato su carta e su pellicola, prediligendo queste due forme a tutti gli altri media. Ridottosi l’apporto della cultura popolare – che pure persisteva e continuava ad avere la sua indubbia rilevanza – il mito divenne faccenda intellettuale; scopo di questo capitolo è appunto quello di individuare e commentare tutti i testi legati all’America, dalle memorie di Fortunato Depero (1929) sino alla silloge di letteratura americana curata da Vittorini (1942).
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