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Ai nostri intellettuali, le due minoranze più sventurate d’America, quella rossa degli indiani e quella nera degli ex schiavi, interessano in maniera quasi morbosa. Gli Stati Uniti erano l’unica nazione occidentale ad avere una presenza così massiccia di uomini di colore nelle città, in provincia, al nord, al sud, in ogni dove; il razzismo dilagante era un fenomeno dato quasi per scontato, eppure la comunità nera, spesso bollata come retrograda e inammissibile alla modernità, fu il punto in cui il mito americano esercitò la maggiore forza di «attrazione-repulsione».

Praticamente tutti gli intellettuali dell’epoca ebbero almeno tre buoni motivi per ragionare sulle minoranze afro-americane.

Il primo riguarda, ovviamente, Harlem. Il quartiere nero di New York era diventato già da tempo un simbolo della segregazione economica e razziale degli afroamericani, che nonostante una parità di diritti sancita dalla Costituzione continuavano ad essere sfruttati nel sud agricolo e nelle grandi metropoli del nord. Tutti gli intellettuali che passarono a New York da Fontana in poi si sentirono in dovere di penetrare ad Harlem, che già da tempo aveva la fama di essere un pezzo di foresta del Congo nel cuore pulsante della finanza globale.

Una descrizione molto penetrante viene da Emilio Cecchi, che di sicuro non usa termini morbidi nel descrivere le comunità afro-americane.

bambinetti come scimmie infagottate in casacche scozzesi, il berretto fino agli orecchi, scalpitano all’uscio di casa, e voci nasali di dentro li chiamano. Il vento rumorosamente strascica sull’asfalto fogliacci e cartoni. In uno spiazzo è un gruppo d’alberi e una fila di panchine deserte. Invisibili rami scricchiolano nel buio, e si sente un lievissimo pispiglio di passero che non riesce a addormentarsi.37

Questa descrizione ci fa volare via da New York, perché sembra di essere immersi in una savana africana, inaspettatamente fredda, popolata da creature sinistre e umanoidi, con cui ci

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sembra impossibile avere un contatto. Queste descrizioni, non a caso, escono nel 1939, cioè dopo la guerra d’Etiopia e le leggi razziali, che permettono a Cecchi di non avere freni e indagare senza remore come un antropologo imperterrito:

Una vocazione d’annientamento, un tremito febbrile, una universale paura, costituiscono l’emozione elementare, la forza di gravità, di questo misero mondo negro. È un senso snervante, intossicato; un misto di repulsioni e d’allucinate attrazioni. I celesti conforti si piegano su questa gente atterrita, con immagini simili a quelle dei più sviscerati poeti della Controriforma.38

La «vocazione d’annientamento» estromette immediatamente la comunità nera dal consorzio umano; la loro incapacità di far prevalere il ragionamento sulle passioni non lascia scampo a possibilità di riscatto. Cecchi ci restituisce un impressionante spaccato urbano, dominato dall’animismo e dallo spiritualismo, nel cuore più duro della metropoli.

Anche Mario Soldati spese una notevole quantità del suo tempo nello slum newyorkese per eccellenza. Il giovane scrittore vi scoprì anche la potenza della musica, dal jazz al blues, rimanendo avvinto dai ritmi frenetici, quasi tribali, dei canti. Depero, invece, si concede solo pochi frenetici appunti («Harlem è il quartiere dei negri americanizzati. I loro vaudeville e i loro dancing sono molto interessanti e anche molto cari»).

Dopo Harlem, la guerra di Etiopia fu il secondo grande catalizzatore che spinse gli intellettuali ad interessarsi alle minoranze nere.

Mentre l’Italia scopriva l’Abissinia e nuovi termini come Ras, Ambaradan e Negus, le comunità afro-americane diedero il loro sostegno incondizionato all’Etiopia, unica nazione africana indipendente e regolarmente iscritta alla Società delle Nazioni: Diggins ha raccolto svariate testimonianze sulla tensione che andava accumulandosi negli Usa tra neri e italiani.

On the sultry evening of June 26, 1935, 60000 spectators poured into Yankee Stadium to see the heavyweight match between the young American Negro Joe Louis and the towering Italian Primo Carnera. Precautions taken by New York authorities reflected the growing animosity between the Negro and Italian pop- ulations in the United States. Throughout the summer of 1935 tension height- ened as the Ethiopian dispute dragged on, and after Louis easily knocked Carnera

172 to the canvas vengeful Italian-Americans taunted Negroes with threats of what

Mussolini’s Army would do to the Abyssinians.39

Questo incontro di boxe, inteso sin da subito come vero e proprio scontro di civiltà, testimonia il clima infuocato in seguito alle campagne militari in Etiopia, dove l’esercito italiano aveva subito dei rovesci sanguinosi e i generali avevano utilizzato armi chimiche e campi di detenzione per sconfiggere Menelik, ultimo sovrano di quelle terre.

Se Harlem fu interessante soprattutto dal punto di vista narrativo-descrittivo e la guerra d’Etiopia contribuì alle teorizzazioni di natura sociologica, ci fu comunque un terzo elemento che acuì l’interesse dei nostri connazionali verso la minoranza afro-americana: quello legato alla cultura

negra. A partire dagli anni Venti la società americana cominciò a dare dignità alle produzioni culturali

delle minoranze di colore, che nel profondo sud avevano costruito una raffinata arte del canto corale (il gospel) e dei nuovi stilemi musicali (il jazz). I locali per gente di colore trasmettevano musica indiavolata e travolgente, del tutto nuova per le orecchie europee abituate, al più, al melodramma e alle canzoni popolari.

Fu ancora Emilio Cecchi a soffermarsi con grande precisione sulle caratteristiche tecniche dell’arte afro-americana, assistendo a numerosi spettacoli gospel:

il diabolico genio del ritmo tornava a scatenarsi, colpo su colpo, con martellante precisione, con prepotenza tirannica. Il colloquio fra il coro e gli anziani si trasformava in diverbio da tragedia; sembrava nel passio il contrasto tra Pilato e i giudei. […] Finché, da un cantuccio del coro, anonimamente, sbucò la sentenza: sun never goes down. Forse era il contrasto tra la frase luminosa e tanta cupa miseria esibita su quella ribalta, e stipata nella notte per migliaia di chilometri intorno [Virginia]. O forse l’altro contrasto, in platea, con quei puritani schiavisti e latifondisti.40

Nelle descrizioni della cultura nera, tuttavia, permane sempre l’idea di un certo «esotismo» di fondo. Persino nelle accurate riflessioni di Cecchi si nota un distacco, una superiorità data per scontato dal viaggiatore europeo. In molti casi, jazz e gospel vengono considerati gli unici tratti autentici della cultura popolare americana, che oltre al cinema ha prodotto ben poco di originale, che non sia emanazione della precedente radice europea.

39 DIGGINS John Patrick, Mussolini and fascism. A view from America, cit., p. 306. 40 CECCHI Emilio, America amara, in Saggi e viaggi, cit., p. 1366.

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