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Il nuovo decennio Pavese, Prezzolini e l’America

Il biennio 1929-1930 è un periodo chiave nella nostra lunga ricerca, poiché apre simbolicamente il decennio più interessante dal punto di vista dell’evoluzione diacronica del mito

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tramite due episodi che testimoniano un nuovo corso della cultura italiana nei confronti degli Stati Uniti.

Il primo episodio si colloca nel 1929, quando uno studente di Torino, Cesare Pavese, pubblica la sua tesi su Walt Whitman, provando a vincere (senza successo) una borsa di studio per vivere un anno negli Stati Uniti. Sempre nello stesso anno, Pavese si propone come traduttore ad alcune giovani case editrici (Einaudi e Bemporad) e comincia un legame epistolare con un italiano emigrato in America, tale Antonio Chiuminatto, subissandolo di domande sulla vita d’oltreoceano.

Chiuminatto era un emigrato piemontese, che per tutti gli anni Venti aveva vissuto tra il Wisconsin e l’Italia studiando musica e letteratura. Lo scambio epistolare, durato quattro anni e composto da una settantina di lettere, viene considerato dai critici come uno dei momenti più importanti della carriera di Pavese. Secondo Valerio Ferme,

the encounter would deeply affect Pavese’s career as a writer and was probably the single most important event in promoting Pavese’s Americanism and devel- oping his ideas pertaining to literary and lingustic aesthetics, an influence that is too often ignored or under-appreciated, even by those who have studied Pavese and his epistolary.20

Oggi possiamo leggere l’intero carteggio grazie al prezioso lavoro di Mark Pietralunga, che ha raccolto tutte le lettere e le ha impreziosite con una precisa ricostruzione storica, biografica e culturale. Grazie al suo volume, infatti, scopriamo che la corrispondenza si pone alla base del primo grande saggio di Pavese (il lavoro su Sinclair Lewis del 1930) e che Chiuminatto chiarì moltissimi dubbi linguistici al giovane traduttore, incitandolo a perseverare nella professione.

Le lettere di Pavese sono inoltre cariche di un entusiasmo impressionante. Lo scrittore spinge Chiuminatto a inviargli – clandestinamente – i nuovi romanzi della letteratura americana, e si dice impaziente di tradurre, e quindi scoprire, l’America. Secondo Pietralunga, le lettere di Pavese sono caratterizzate da una vera e propria «gioia della scoperta», nata dall’ammirazione per la narrativa fresca e innovativa degli americani:

the correspondence with Chiuminatto offers an eloquent testimony of Pavese’s joy of discovery of America, his fascination with American language, and his in- satiable curiosity to learn about American literature.21

20 FERME Valerio, Cesare Pavese and Anthony Chiuminatto: their correspondence, Michigan State University Press, 2008, p. 168.

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Pavese ha un entusiasmo contagioso e sorprende il fatto che la sua ammirazione per l’America non venga minimamente intaccata dal tracollo finanziario del 1929. In una lettera del 5 aprile 1930, ad esempio, leggiamo:

you are the peach of the world! Not only the wealth and material life but really in liveliness and strength of art which means thought and politics and religion and everything. You’ve got to predominate in this century all over the civilized world, as before did Greece, Italy and France.22

L’America è «la cima del mondo», un paese caratterizzato dal «benessere» e dalla grande disponibilità di risorse materiali. Gli Stati Uniti immaginati dal giovane traduttore non sono, ovviamente, quelli descritti da Depero o da Soldati, che vissero in prima persona gli effetti della crisi. Secondo Pavese, inoltre, l’America è caratterizzata da un grande rinnovamento spirituale, che la farà primeggiare nel secolo come nel passato accadde con «Grecia, Italia e Francia».

Lo slancio idealistico di Pavese è stato analizzato da Fernandez già nel 1953. La spiegazione trovata dallo studioso è di natura psicologica: Pavese e tanti giovani intellettuali, frustrati dal soffocante monopolio culturale del regime, cominciarono a guardare altrove, alla ricerca di quel rinnovamento artistico di cui avvertivano un disperato bisogno. Ripudiando la poesia ermetica e la narrativa ancora dominata dai vecchi schemi dannunziani e veristi, Pavese inaugurò una nuova ondata di attenzioni verso l’America; se fino al 1930 la cultura degli Stati Uniti «apparteneva agli specialisti», grazie a Walt Whitman e Sinclair Lewis il traduttore cominciò una lenta opera di riscoperta degli Stati Uniti che sarebbe culminata, dodici anni dopo, con la pubblicazione di

Americana curata da Elio Vittorini.

Non c’è dubbio quindi sul fatto che gli anni 1929-30 siano stati contrassegnati da un lavoro preparatorio febbrile e concitato, carico di conseguenze per tutto il decennio. Eppure, il 1930 non fu importante solo per il lavoro pionieristico di Pavese; un altro episodio, proveniente dalla «cultura ufficiale», torna utile per dimostrare il rinnovato interesse dell’Italia per l’America dopo la crisi economica dell’anno precedente.

Mentre la Depressione divorava gli Stati Uniti, il regime cercò di diffondere oltreoceano l’idea che le crisi del capitalismo potessero essere superate agilmente con il corporativismo, il fumoso sistema economico decantato dai teorici di Mussolini. Il Duce pensò dunque di finanziare la costruzione di un istituto accademico vicino al regime che potesse introdurre, nel dibattito universitario americano, le posizioni del fascismo; nel 1930, il Dipartimento di Italianistica della

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Columbia University di New York ottenne un cospicuo finanziamento per fondare la Italian House, meglio conosciuta come Casa Italiana, il cui scopo principale divenne la promozione della cultura fascista all’interno dell’istruzione superiore americana.

Il progetto era senza dubbio ambizioso, perché sino a quel momento il regime si era limitato a monopolizzare i mezzi di informazione delle sole colonie italo-americane (radio, cinema, giornali in lingua, romanzi). La Casa Italiana aveva bisogno di prestigio e rispettabilità, e proprio per questi motivi venne scelto un direttore che potesse rinforzarla con la sua autorità: l’incarico toccò a Giuseppe Prezzolini, che aveva già avuto diverse esperienze accademiche in America e accettò di buon grado il trasferimento a New York.

Le vicende della Casa Italiana sono state ricostruite con precisione da Daria Frezza Bicocchi23 e John Diggins, i quali mettono in evidenza gli scarsi risultati ottenuti da questa

istituzione. Secondo lo storico statunitense,

higher education in America, always sensitive to the dangers of state control and the erosion of academic freedom, remained on the whole critical of Fascism in all phases of Italian life.24

Insomma, la Casa Italiana cercò di scalfire il muro dell’indipendenza accademica americana ma, nonostante gli sforzi economici del regime, non ci riuscì. Basti pensare che il massimo evento promosso dall’istituto, un convegno del 1931 intitolato Bolscevismo, fascismo e capitalismo, venne in larga parte boicottato dagli esperti di economia delle università americane, i quali non ritenevano applicabile il modello fascista alla loro società.

Anche Dante Dalla Terza, nel suo interessante Da Vienna a Baltimora, ci ha lasciato curiosi retroscena sulla Casa Italiana di New York. L’autore sostiene che l’istituzione, nata con scopi filantropici e di inclusione, finì col diventare del tutto autoreferenziale. Le reticenze del suo direttore, Prezzolini, che faticava a dare una linea precisa all’istituzione, si risolse in una continua improvvisazione; questa mancanza di una precisa identità che rendesse riconoscibile la Casa Italiana fece sì che l’istituzione diventasse un simposio frequentato dai soli professori di Italianistica della Columbia, gli unici in tutti gli States ad avere comprovati rapporti di stima con il regime fascista. Sempre secondo Dalla Terza, l’unico professore che si allontanò volutamente dalla fascistizzazione del Dipartimento fu quel famoso Livingston che, nel 1923, aveva invitato Pirandello in America per la stagione teatrale a lui dedicata.

23 FREZZA BICOCCHI Daria, Propaganda fascista e comunità italiane in USA: la Casa Italiana della Columbia University, “Studi Storici”, XI, 4, 1970, pp. 661-697.

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La Casa Italiana fu, in poche parole, un fiasco completo. Lo stesso Prezzolini, esprimendosi al riguardo, scrisse riflessioni poco lusinghiere sulla scarsa importanza dell’istituto:

non si può dire che i cittadini americani di origine italiana non frequentano la Casa Italiana, né si può dire che non la frequentano abbastanza. È che ci sono ancora moltissimi di loro che non sanno cosa sia e cosa faccia.25

L’Italian House sarebbe poi sopravvissuta alla caduta del regime, andando incontro a feroci critiche da parte del mondo accademico per la sua connivenza con il fascismo. La sua fondazione, avvenuta nel 1930, è significativa dell’importanza dell’America nel dibattito culturale in Italia: tanto la cultura «ufficiale», che mandò Prezzolini a New York, quanto la cultura «non ufficiale», che con Pavese importava clandestinamente romanzi americani, dimostravano il ritorno prepotente del mito americano alla sua dimensione politica e letteraria, che avrebbe dominato la scena almeno fino alla seconda Guerra Mondiale.

Pavese e Prezzolini rappresentano non solo l’interesse verso gli States, ma anche il grado di scollamento tra la percezione dell’America e la sua effettiva conoscenza. Secondo Marazzi

È imbarazzante rendersi conto del fatto che sia parecchi temi costanti sia numerose osservazioni individuali sono in ultima analisi riconducibili a una comune ignoranza delle peculiarità storiche, geografiche e culturali della civiltà statunitense.26

Cesare Pavese, da un lato, sceglie volontariamente di non riconoscere gli elementi negativi presenti nella società americana: nelle sue lettere a Chiuminatto si esalta per la vitalità della società a stelle e strisce e al massimo azzarda qualche critica relativa allo slang, la parlata dialettale. Allo stesso modo, Prezzolini a New York rappresenta la sostanziale incapacità del regime di relazionarsi con uno Stato che non era mai stato compreso fino in fondo, e anzi veniva spesso e volentieri sottostimato da un punto di vista culturale; il fallimento della Casa Italiana fu tale anche perché l’America era diversa da come era percepita in Italia.

Insomma, sostenitori e detrattori del mito cominciano a parlare d’America senza più preoccuparsi dell’effettiva consistenza reale degli Stati Uniti. Per tutti gli anni trenta, l’altrove americano diverrà una singolare palestra di discussione, un’arena dove dibattere, interrogarsi sul futuro, e fare persino della resistenza culturale alla linea dettata dal regime. Come avrebbe detto

25 FREZZA BICOCCHI Daria, Propaganda fascista e comunità italiane in USA: la Casa Italiana della Columbia University, cit., pp. 661-697.

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Ferrero nei suoi appunti, l’America – resa distante dall’autarchia del fascismo e dalle restrizioni immigratorie – si stava trasformando in uno specchio dell’Italia, utile per conoscersi con maggiore profondità di vedute.