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Sembra quasi superfluo ribadire, ancora una volta, quanto fu importante la mediazione della «colonia» italo-americana nella formazione del mito americano. Il lavoro interpretativo e divulgativo degli emigrati di prima e seconda generazione è imprescindibile, e non deve dunque sorprendere se, fin dai resoconti di Ferdinando Fontana ed Edmondo De Amicis, costoro venissero posti in prima fila nella descrizione dell’America.

La colonia italiana era stata al centro di una lunga discussione politica. Sin dai tempi di Crispi ci si era posti il problema dell’emigrazione, e il fascismo non fece che aumentare l’attenzione dell’opinione pubblica verso gli italiani fuori d’Italia, i quali potevano costituirsi in importanti «quinte colonne» all’interno degli Stati stranieri. Per tutti gli anni Trenta gli intellettuali italiani ebbero a che fare, direttamente o meno, con le minoranze di connazionali disseminate nel continente americano, facendosi spesso testimoni della terribile crisi di identità che attanagliava le comunità di immigrati.

Soldati ha lasciato le impressioni più vivide sugli italo-americani, descritti in maniera a dir poco impietosa. Prima accusa il loro ossessivo richiamo all’Italia, che è ormai un ricordo sbiadito, e poi difende la «dignità» dei poveri rimasti in Italia:

Due o tre settimane dopo lo sbarco a New York, l’ingenuo rispetto che avevo per gli italo-americani subì un colpo decisivo.

Emigrati tra l’800 e il ‘900, serbano inalterata immagine della vita che allora lasciarono nel Regno. […] Tagliati fuori dall’Italia come dall’America, hanno riprodotto, cristallizzato, tra l’Hudson e Long Island, la mentalità e la società italiana come erano all’epoca della loro emigrazione.

Il più povero contadino del più povero paese dell’Italia centrale o meridionale conserverà sempre, e negli stenti e nelle sciagure, gravità, umanità di modi. Ma quelli, nell’agiatezza, colla Ford, col Sunday Paper con la ghiacciaia elettrica, hanno perduto tutto: eguagliando, cupi e ottusi, gli emigrati di qualunque nazione. In faccia alla catastrofe, martiri dello spatrio, giurerebbero di non essersi ingannati.27

Qui e in altri punti del testo Soldati lascia trasparire un rapporto non proprio amichevole con gli italo-americani, i «martiri dello spatrio»; in conclusione, l’autore non risparmia neppure gli

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emigrati di condizione sociale benestante, accusando i professori universitari di origine italiana di essere forse i peggiori di tutta la comunità accademica:

fra tutti i professori americani, gli italo-americani, gli insegnanti di lingua e di letteratura italiana, furono quelli di cui più mi colpì e mi ferì l’ignoranza. I tedeschi, gli spagnoli, i francesi non erano forse migliori. Ma naturalmente ebbi rapporto più vivo con gli italiani. E conoscenza e amore della mia patria mi facevano più grave la loro inettitudine.28

Sicuramente, il caustico giudizio di Soldati fu inasprito dalla mancata riconferma della borsa di studio presso la Columbia University, che lo costrinse a fare il lavapiatti in una bettola newyorkese per prolungare, quasi clandestinamente, il suo soggiorno americano; Soldati critica i metodi di cooptazione degli italo-americani nelle nuove università sorte ovunque negli Stati Uniti, e deplora – come faranno altri – il sistema educativo anglosassone, accusato di essere superficiale e approssimativo.

Emilio Cecchi, invece, non parla praticamente mai degli italo-americani. In oltre trecento pagine (tra Messico e America Amara) la fa soltanto in un paio di occasioni, ma più per scrupolo documentario che per passione patriottica. Durante una visita alle vecchie cave aurifere, Cecchi trova la cassaforte coi registri di una compagnia di fine Ottocento, abbandonata in fretta e furia dopo il fallimento delle quote azionistiche. Dopo aver trovato la lista dei salariati, Cecchi si mette a cercare, per mera curiosità, qualche nome italiano.

Sfogliavo qualche libretto paga. Uno del novembre 1897. I nomi dei minatori erano incolonnati, con accanto fuscellini che, giorno per giorno, indicavano la presenza a lavoro. Ed ecco, mescolati agli altri, anche i nomi degli Italiani. Il sorvegliante sbagliata spesso nello scriverli. Dava di frego: riscriveva sopra. Par di sentirlo compitare: Luigi Ferretti, Giovanni Triscornia, Giuseppe Solari, Luigi Podestà, altri tre o quattro. Mi sembravano nomi di compagni morti. Mi sembrava di ritrovarli, tra la maceria d’un campo di battaglia, su qualche piastrino di riconoscimento. Nel marzo 1899, il libretto paga è preparato con tutti i nomi: ma i colonnini dei giorni son rimasti vuoti. Era uso che, se una miniera non rendesse, una bella notte i proprietari davano fuoco agli impianti. Cercavano almeno di riscuotere l’assicurazione.29

28 Ivi, p. 232.

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Il piglio di Cecchi è asettico e storico, non dedica neppure un pensiero a quegli italiani dimenticati, poiché, semplicemente, riteneva di non aver nulla da spartire con loro. Come la maggioranza degli intellettuali coevi, semplicemente disprezzava la loro fuga dall’Italia. Ed è proprio questo che colpisce: mentre Soldati si lascia andare a critiche caustiche, fresche e giovanili, Cecchi ci regala un silenzio terrificante: non spreca parole né pagine per parlare dei connazionali, e lascia campo alle questioni che reputa veramente importanti per l’America.

Anche Borgese rincara la dose nel suo Atlante americano. Secondo lui, gli italo-americani si macchiano di due peccati: sono incredibilmente ignoranti e hanno abbracciato il fascismo senza cognizione di causa, proprio perché ignoranti. Il suo giudizio quindi è appesantito dalla sua esperienza antifascista, dalla diatriba personale con Mussolini dei primi anni Trenta. Secondo Borgese, infatti, gli italo-americani sono gente meschina, terrificante a vedersi, che generano imbarazzo per tutti gli uomini di cultura; paternalisticamente afferma che «gli immigrati italiani» sono letteralmente «atterriti da questa infinità umana nella quale così spesso naufragano»: parla ovviamente della spersonalizzazione americana, degli slums delle grandi metropoli, e lo fa con un’espressione che rende perfettamente lo spaesamento che, ancora negli anni Trenta, caratterizzava le enclavi italiane negli Stati Uniti.

Tra gli altri, Evola tace sugli emigrati mentre Ferrero fa un discorso molto più «europeo», sostenendo che i nove decimi dell’America siano composti dalla parte peggiore del vecchio continente, ossia dai criminali e dai poveri sfuggiti alle regole europee nel corso dei secoli.

In generale, i pareri positivi attorno agli italo-americani sono pochi. Pavese, intrattenendo una corrispondenza epistolare con Chiuminatto, riscattò un’intera comunità; più avanti, invece, Vittorini riserverà parole di lode soprattutto per John Fante; non è difficile notare come i giudizi positivi provengano soprattutto da scrittori «esterni», rimasti in Italia, lontani dalla presa diretta. Che si tratti di propaganda di regime – che puntava al recupero degli immigrati – o di riflessioni degli americanisti – che invece osannavano l’identità italo-americana, in ogni caso ci troviamo di fronte a giudizi fortemente influenzati dall’America immaginaria.

Una posizione particolare viene invece presa dagli antifascisti di sinistra, quasi tutti di provenienza sindacale, che mantennero inalterato il loro spirito pedagogico e guardarono alla comunità italo-americana ghermita dal regime come a un corpo malato da far guarire in fretta. Nell’autobiografia di Carlo Tresca, come anche nelle poesie di Bartoletti e in alcune lettere di Salvemini, scopriamo che gli italo-americani vengono giustificati perché lo Stato, liberale prima e totalitario poi, non ha fatto nulla per loro, abbandonandoli a un destino terribile. Dando la colpa alla mancanza di un sistema educativo statale, gli antifascisti hanno gioco facile nel diffondere la

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propria teoria pedagogica. L’educazione fu al centro della resistenza intellettuale al fascismo in America e il parere di Gaetano Salvemini ci dà un’idea della portata della discussione politica oltreoceano:

in questo paese, un esercito di giornalisti, radio commentatori, insegnanti, entrambi bugiardi e clericali e altra gente importata dall’Italia, avvantaggiati dalla buona fede di numerosi immigranti, hanno fatto credere che avrebbero tradito l’Italia se non fossero rimasti fedeli a Mussolini. La Mazzini Society confida che dopo la terribile esperienza degli ultimi mesi, quella parte di popolazione italiana in America, ingannata dalla propaganda fascista, tornerà al buon senso.30

Gli italo-americani, innocenti e privi di volontà, sarebbero stati «ingannati» da un esercito di sobillatori controllato dal regime. Nello stesso bollettino del “Mazzini News” si legge:

Il signor Pope ha ingannato gli italo-americani. I suoi giornali hanno diffuso i temi della propaganda senza saper cosa in effetti sia il fascismo. Come risultato, gli italo-americani si sono spesso chiamati fascisti senza sapere cosa significasse e non hanno compreso perché erano accolti con freddezza quando esprimevano ammirazione per Mussolini. Il signor Pope ha scelto di ignorare che in un paese libero la stampa deve illuminare il popolo.31

Ovviamente, diffondere l’idea di una «colonia» manipolata e inerme avrebbe dovuto facilitare la riconciliazione con la società americana, che durante la seconda Guerra Mondiale diffidò non poco degli emigrati italiani, temendo delle azioni di disturbo entro i propri confini. Salvemini, Tresca e gli altri individuarono un colpevole di grande visibilità mediatica, quel Generoso Pope magnate dell’editoria che si era compromesso col regime e che continuò, fino al 1942, a ricevere sussidi da Mussolini per diffondere le idee fasciste in America, e lo trasformarono nel capro espiatorio perfetto per difendere gli interessi degli immigrati italiani.