Quello che sorprende, nella lotta ingaggiata dal fascismo contro il mito dell’America, è il sostanziale lassismo nei confronti del cinema di Hollywood, le cui pellicole vennero importate senza alcuna restrizione per quasi tutto il ventennio.63 Il pubblico italiano consumava avidamente
le pellicole americane, e il regime favorì addirittura la fondazione di una scuola di doppiatori per sostituire i sottotitoli con la viva voce italiana; i grandi western, i musical e le gag del cinema classico penetrarono senza alcun problema negli ambienti italiani e contribuirono a mantenere vivo il mito
62 BORGESE Giuseppe Antonio, Atlante americano, cit., p. 269.
63 Solo nel 1938 il governo inasprì i controlli della censura e vietò l’importazione di tutte le pellicole provenienti dagli Stati Uniti. Le majors risposero a questa minaccia con un embargo che durò per tutta la guerra.
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americano. Il fascismo non riuscì a trovare le contromisure perché questo fenomeno era in rapida crescita, e soprattutto si stava espandendo a ritmi esponenziali. Scrive Giulia Carluccio:
in questo periodo si assiste a un vertiginoso aumento di pubblico, dei capitali investiti e del numero di sale. Di queste, le grandi sale di prima visione, i cosiddetti movie palaces, sono concepite come grandi templi moderni, cattedrali deputate ad accogliere un tipo di spettacolo ambizioso. […] In America, soprattutto, esso si dimostra capace di fornire miti, modelli sociali e comportamentali, veicolare ideologie e, attraverso le sue star, divenire un vero e proprio oggetto di culto.64
In un periodo che va, idealmente, dal 1927 al 1942, il cinema classico hollywoodiano va costruendo dei canoni produttivi che rimangono inalterati fino ai giorni nostri. Le majors monopolizzano i generi cinematografici e cominciano a spendere budget sempre più imponenti per realizzare pellicole ambiziose, prima in sonoro e poi addirittura a colori. In Italia vengono importati praticamente tutti i film migliori del periodo: da Via col vento a Casablanca, essi sono tradotti e doppiati nella nostra lingua, aumentandone l’impatto audiovisivo sul pubblico.
Il cinema costruiva non solo nuovi tipi di narrazioni, ma anche nuovi personaggi. Sebbene quello europeo sfornasse capolavori indiscutibili (si pensi ai lavori di avanguardisti come Luis Bunuel e Salvador Dalì), fu il sistema produttivo hollywoodiano a monopolizzare l’economia e la cultura del cinema. Proprio grazie alla preminenza delle pellicole californiane, il personaggio «americano» divenne un vero e proprio modello antropologico: bello, integro, declinato nelle forme del cowboy, del gangster, del policeman o del lover, esso era capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo. L’americano del cinema classico era un eroe duro ma dal cuore tenero, interpretato magistralmente dai divi Humphrey Bogart e Clark Gable, vertici dello star system e icone in carne ed ossa di una «fabbrica dei sogni» capace di emozionare tutto il mondo.
L’ammirazione nutrita dal regime fascista nei confronti del sistema industriale di Hollywood fu uno dei più grandi paradossi del ventennio. Mussolini, contrario alla «degenerazione americana» e al «dominio ebraico della finanza a Wall Street», rimase stregato dalle tecniche americane, e cercò di emularle favorendo la fondazione dell’Istituto Luce (1925) e la costruzione di Cinecittà (1931). Tuttavia, un vero e proprio «cinema fascista» non riuscì mai a formarsi veramente né tantomeno ad occupare le sale di proiezione letteralmente invase dalle pellicole americane. Il confronto fu impietoso: il kolossal di regime Scipione l’Africano, non resse il confronto coi grandi classici dell’epoca, da Via col vento a Casablanca.
64 CARLUCCIO Giulia, MALAVASI Luca, VILLA Federica, Il cinema. Percorsi storici e questioni teoriche, Roma, Carocci, 2015, p. 69.
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Questo perché il cinema fascista era vincolato a livello politico (ad esempio, il personaggio di Scipione si muove sullo schermo come fosse un vero e proprio Mussolini, e i «barbari» della Libia somigliano alle armate etiopi di Menelik, forzando un po’ troppo la ricostruzione storica), mentre quello americano poteva generare e assecondare i gusti del pubblico, risultando incredibilmente efficace; inoltre le piccole realtà di Cinecittà e dell’Istituto Luce non potevano competere col più grande sistema di produzione artistico-industriale che la storia avesse conosciuto.
Col fallimento di una «politica cinematografica» dispendiosa e inconcludente, il Ministero della Cultura Popolare si mise presto sulla difensiva, limitandosi a censurare le pellicole «scomode» che potessero mettere in cattiva luce Mussolini e il suo operato. Non a caso, una delle prime opere vietate fu Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin, che ridicolizzava i totalitarismi europei; seguirono
Ben Hur, che per molti anni fu visto senza alcune scene chiave, e Piccolo Cesare di Melvin LeRoy, uno
dei tanti lavori considerati offensivi nei confronti degli italo-americani.
Il cinema fu sempre trattato in maniera ambigua dal regime, che era al contempo ammaliato e terrorizzato dalla sua capacità di influenzare la volontà delle masse. Mussolini fu il primo leader del mondo occidentale a comprendere la «modernità» delle nuove tecniche di riproduzione dell’immagine e costruì il suo consenso attorno alla sua autorità mediatica: attraverso il cinema egli poteva presentarsi come un amico del popolo, un lavoratore, un uomo onesto e un politico sincero.
Mussolini era davvero un personaggio mediatico molto convincente e questa sua caratteristica non passò inosservata negli Stati Uniti. L’incredibile rapporto di stima che venne a instaurarsi tra il Duce e le majors cinematografiche è stato ricostruito con precisione da Diggins:
il Duce granted fullest assistance to the production of American films in Italy, and studio directors repaid him in footage. It will be recalled Ambassador Child planned to do a screen biography of Mussolini; […] Movietone released a film on Mussolini and in 1931 Columbia Studios produced Mussolini speaks, based on his Tenth Anniversary speech on Fascism delivered in Naples.
In the meantime American movies played to enthousiastic audiences in Italy, with Shirley Temple and Mickey Mouse the popular idols. The Italian government, which in the 20s depended a great deal on the importation of American films, used the screen to good advantage. Hollywood’s pervasive sex and gangsterism provided canned propaganda which fascists used to contrast the austere ideals of Italy with a debauched America.65
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Nel 1927, l’azienda di William Fox pubblicò il film Sunrise di J. Murnau, e lo appaiò, come spesso capitava allora, a un altro prodotto cinematografico. Si trattava di Benito Mussolini: the man of
hope, la prima pellicola in Movietone della storia del cinema. Si tratta di un lavoro molto breve, dove
l’ambasciatore americano in Italia, Henry P. Fletcher, introduce «The Prime Minister of Italy», Mussolini, che si prende la scena indossando giacca e cravatta e parlando in tono stentoreo al pubblico degli Stati Uniti. Il breve discorso è seguito da un montaggio piuttosto semplice, che fa scorrere sullo schermo prima il coro vaticano e poi una parata militare italiana, con effetti sonori che colpirono positivamente i recensori americani.
Più tardi, nel 1933, fu il turno della Columbia, che si affrettò ad acquistare i diritti per la produzione della pellicola Mussolini speaks, un documentario celebrativo dei dieci anni di fascismo, in cui la voce fuori campo del giornalista Lowell Thomas interpreta i discorsi del Duce. Il film venne prodotto da due fratelli ebrei, Harry e Jack Cohn, e riscosse un notevole successo, incassando un milione di dollari negli Usa.
Mentre gli americani scoprivano il carattere mediatico e fascinoso di Mussolini, il cinema di Hollywood plasmava nuove forme del mito a stelle e strisce. Le sale di produzione erano letteralmente subissate di pellicole provenienti dall’America e molti sceneggiatori italiani si recarono oltreoceano per carpire i segreti della straordinaria alchimia cinematografica. Tutti i viaggiatori italiani degli anni Trenta fanno il possibile per visitare Hollywood e ci lasciano le loro preziose riflessioni sullo stato dell’arte.
Il cinema, quindi, garantì più di ogni altro strumento la sopravvivenza del mito americano nella società controllata dal regime. Il fascismo si limitò a costruire un’ottima scuola di doppiatori, che italianizzasse le pellicole, e fino al 1938 lasciò carta bianca alle majors hollywoodiane, che inondarono il mercato italiano nonostante gli interventi della censura.
L’America rappresentata nel cinema è un mondo rarefatto, idealizzato, privo di una sua dimensione tragica. È un’America immaginaria, per usare le profetiche parole di Giovanni Tropeano; un’America del tutto priva di legami con la realtà, che supera indenne la catastrofe finanziaria del 1929 e non è toccata dalla questione razziale che elettrizza la società. Per usare le parole di Marazzi, è un’America «buona per ogni occasione», che si presta a lodi e critiche, strumentalizzata a piacere dal regime e anche dai suoi detrattori.66
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Senza dubbio, il cinema americano contribuì a idealizzare ancora di più un mito che andava già incontro, almeno dal 1924, a un processo di rarefazione. E la crisi del 1929 non fece che polarizzare lo scontro tra i sostenitori e i detrattori della cultura americana.
In tutti i testi da noi analizzati c’è spazio per qualche riflessione sul cinema. Inoltre, quasi tutti i viaggiatori italiani fecero il possibile per raggiungere la California, al fine di toccare con mano la realtà produttiva di Hollywood. Il sistema americano era all’avanguardia, confezionava in serie un numero impressionante di pellicole, ed era estremamente codificato attorno allo star system, l’empireo di divi del grande schermo che cominciavano a diventare dei modelli estetici per la società americana.
Cecchi, che si intendeva di cinema ed era direttore artistico della Cines, rimane estasiato dal sistema produttivo americano, capace di curare non solo l’effettiva realizzazione del film, ma anche il suo lancio pubblicitario, vero segreto per il successo. Lo scrittore considera il cinema l’unica arte che riesca a rendere alla perfezione il vitalismo di un paese ancora barbaro, dove le forze della natura non sono del tutto domate e la violenza è all’ordine del giorno. Non a caso, il grande successo degli anni Trenta viene soprattutto dai gangster movies, i film con criminali e poliziotti caratterizzati dall’azione, dal pragmatismo e dai contenuti violenti:
era fatale che il proibizionismo entrasse nel cinema. Il proibizionismo ha creato il contrabbando. L’attività dei contrabbandieri s’è organizzata in gangs. Contrabbandieri, gangs, poliziotti: roba, cinematograficamente parlando, di prim’ordine; e arrivata in buon punto, quando l’onesto film d’avventure, con pirati, puritani e pionieri, ormai cominciava a stancare.67
«Roba di prim’ordine», capace di intrattenere un pubblico molto vasto; il proibizionismo e le sue conseguenze divennero la materia principale di una buona fetta della produzione hollywoodiana di allora, introducendo nuovi personaggi cinematografici e modificandone di vecchi.
Il gangster divenne il nuovo dark hero hollywoodiano, l’eroe tenebroso per eccellenza, un cattivo che, spesso alla fine del film, rivelava un cuore tenero capace di ammaliare gli spettatori. Gli anni Trenta sono dominati da figure alla Humphrey Bogart: uomini dai lineamenti marcati e foschi, nuovi modelli di bellezza, caratterizzati dal pragmatismo e dalla laconicità. Secondo Dragosei, il
gangster del cinema classico hollywoodiano fu l’ultimo dei grandi archetipi americani, molti dei quali
consolidatisi nelle epoche precedenti: esso si aggiunse infatti al colono, al cowboy e al businessman, simboli indiscussi della civiltà Usa.
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Il cinema, una vera e propria fabbrica di sogni, meritò per vari motivi di essere al centro delle riflessioni degli scrittori italiani. Alcuni, come Borgese, si rendono conto della capacità del cinematografo di fissare nuovi stereotipi, nuovi canoni, nuovi gusti:
Hollywood, metropoli californiana e universale del cinema; il luogo dove s’è istituito il canone o modello di bellezza più accurato e monotono che si sia visto sulla faccia della terra dai tempi della scultura greca a noi.68
L’idea è quella che gli americani abbiano idealizzato sé stessi attraverso il cinema, codificandosi in personaggi forti, integri, tipici di ambienti di frontiera dove la legalità è molto spesso vacillante e ci si deve attenere a un codice d’onore personale; Borgese afferma successivamente che il «modello di bellezza» esportato da Hollywood nel mondo è incredibilmente monotono, ma questo aggettivo non va inteso in senso negativo, quanto piuttosto nel senso di uniformità, di adesione unanime, di adattamento del gusto del pubblico.
Anche Mario Soldati riconosce l’importanza dell’eroe-criminale nel cinema degli anni Trenta. In America primo amore scrive:
In America i gangters non sono soltanto invenzioni del cinematografo. In America, passioni violente e mortali, rapimenti, fughe, incendi, linciaggi, delitti, suicidi non sono soltanto trovate degli scenaristi di Hollywood. Basta aprire un giornale. Ogni giorno leggerete infatti, brutti e belli, più interessanti, più divertenti di intere annate delle nostre cronache, dal caso Canella a oggi.69
Insomma, le pellicole incentrate sul crimine hanno successo perché rappresentano una versione idealizzata e spettacolare di avvenimenti reali e conosciuti. Lo stesso Soldati, attratto dal mondo dei gangsters, rimase però deluso dalla reale fattezza del contrabbando di liquori. Mentre il cinema rappresentava gli speakeasy, i locali clandestini per la compravendita di alcolici, come luoghi pericolosi in mano a tagliagole della peggior risma, nella realtà si rivelano locali sobri e rispettabili, gestiti da persone perbene e frequentati addirittura dalla polizia. Anche questo piccolo episodio dà l’idea dello scollamento tra l’America immaginaria, figlia della letteratura e dei film, e l’America reale.
È ancora Borgese, con la sua consueta lucidità, a metterci in guardia sui pericoli di questa America idealizzata proposta dal cinema. Secondo lo scrittore,
68 BORGESE Giuseppe Antonio, Atlante americano, cit., p. 77. 69 SOLDATI Mario, America primo amore, cit., 202.
187 non si deve sempre tenere in mente l’americano giganteo, il yankee: confezionato,
come suole avvenire delle maschere e tipi, più che altro per uso d’esibizione e esportazione. Giova guardare alle masse di statura modesta. Ciò che si può dire dell’americanismo esplosivo e abbagliante, dei suoi ori e orpelli, generalmente serve solo a indicare punti corruttibili e pericolanti di questo sforzo umano. Danno più fiducia questi toni medi, queste pazienze quotidiane.70
Oltre alle descrizioni di Hollywood e delle sue ricchezze, i nostri intellettuali si concedono molte riflessioni teoriche sul cinema, arrivando a un parere uniforme e condiviso.
Sebbene le pellicole hollywoodiane vengano tacciate di «convenzionalità, infantilismo e incapacità di misurarsi con la tragicità della vita, e dunque reputate anti-artistiche a priori»,71 gli
intellettuali non negano la portata rivoluzionaria del cinematografo, simbolo dell’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica e massimo risultato della cosiddetta industria culturale, che proprio a Hollywood decolla in termini finanziari e artistici.
Il cinema, insomma, viene considerato un’arte prettamente americana. Nonostante le dure critiche alle nuove pellicole sonore, le produzioni hollywoodiane sembrano racchiudere in sé tutto lo spirito degli Stati Uniti. Secondo Borgese, «quattro quinti dell’arte americana sono cinematografia» proprio perché il film sono entrati nella quotidianità:
Da noi il cinema è parte; qui è quasi tutta la vita sentimentale e fantastica delle masse. […] Hollywood dunque, non lontana da qui, è un doppio Parnaso americano.72
E se una popolazione eterogenea come quella americana arriva a condividere «quasi tutta la vita sentimentale e fantastica», ciò significa che il cinema costituisce anche un elemento aggregante della società:
La vita di queste comunità urbane, senza comunione, davanti alla pellicola, ha contribuito a fissare i caratteri di questa specie di civiltà estetica, e non solo estetica, in cui abbiamo l’avventura di vivere; un pubblico che non riesce a divenire società, e neanche se lo propone; una massa globale senza conversazione e senza critica.73
70 BORGESE Giuseppe Antonio, Atlante americano, cit., p. 94.
71 MEDA Ambra, Al di là del mito: scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, cit., p. 239. 72 Ivi, p. 160.
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Quindi, il cinema, essendo arte, ha contribuito a fissare i caratteri «di questa civiltà estetica in cui abbiamo l’avventura di vivere», dove un pubblico eterogeneo si riconosce nello star system e nelle produzioni cinematografiche delle Majors. Quando Borgese parla di una «comunità senza comunione» intende, per l’appunto, una società poco coesa, che riesce però a trovare un punto d’intesa trasversale nei gusti e nell’intrattenimento.
Riprendendo le parole di Borgese,74 rimarrebbe da analizzare l’ultimo «quinto» di arte
americana. Tra le nuove arti moderne spicca sicuramente il jazz, che venne accolto inizialmente con scetticismo dalle élite europee. Secondo la Meda,
le dittature nazifasciste ritengono che le sonorità del jazz siano in grado di annichilire la volontà del singolo e deprecano lo stato di fanatismo e di delirio che esse inducono nelle masse. […] Il jazz preoccupa anche gli intellettuali di sinistra, che vedono in esso uno strumento di evasione e irrazionalità, capace di nuocere allo sviluppo del movimento operaio. […] A partire dal 1938, quando le campagne contro la musica sincopata si infittiscono, il jazz si trasforma davvero in un genere musicale rischioso. Sono pochi gli intellettuali che dopo questa data riescono a rimanere immuni alle facili cadute nel disprezzo razzista.75
La musica e il canto provenienti dalla cultura afro-americana faticano ad essere riconosciute come vere forme d’arte, e sono sempre interpretate in senso politico o razziale. Per questo si ha l’impressione che, negli anni Trenta, l’arte americana venga interamente confinata al cinema, e che persino la letteratura americana non goda di sufficiente autonomia.