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Come abbiamo più volte sottolineato, gli emigrati italiani negli Stati Uniti d’America tendevano a collocarsi ai margini della piramide sociale, vittime di abusi, razzismi e sfruttamenti al pari di altri gruppi etnici considerati biologicamente o socialmente inferiori (irlandesi, cinesi, afro- americani, slavi). Tuttavia, quando alle comunità italo-americane si presentava l’opportunità di celebrare la propria identità nazionale, le manifestazioni d’orgoglio patrio erano davvero esagerate e arrivavano a paralizzare intere città.

L’esempio più impressionante è dato dal Columbus Day, festa ufficialmente nata per celebrare la scoperta del Nuovo Mondo, ma diventata ben presto patrimonio culturale della colonia italiana in America38. Per molto tempo, questa ricorrenza ebbe carattere ufficioso; nel 1927, però,

aveva assunto un’importanza sociale così forte da essere inglobata nelle liturgie laiche della giovane

37Vincenzo D’Aquila (1893-1971), nato a Palermo ma cresciuto a Brooklyn, ha raccontato nella sua autobiografia (1931) di essersi arruolato di nascosto nell’esercito italiano, e di aver compiuto la traversata oceanica assieme a una nave stracolma di riservisti connazionali. Questo fenomeno, che fu perlomeno comune durante la Grande Guerra, non si sarebbe ripresentato durante il secondo conflitto mondiale. (citato da FRANZINA Emilio, Fra storia e microstoria –

discussioni in rete. La grande guerra degli immigranti americani (1914-1918), Università degli studi di Verona, consultato il 16

gennaio 2017).

38Il Columbus Day è da sempre una festa politicizzata. Nella prima metà del Novecento serviva alla comunità italo- americana per consolidare le proprie radici e mantenere una propria identità all’interno della società angloamericana. Ora, con l’affievolirsi dell’interesse etnico da parte degli americani discendenti da italiani, il Columbus Day è diventato la festa simbolo di un’altra minoranza: quella degli indiani d’America. Una parte della società statunitense, infatti, ritiene ingiusto festeggiare lo scopritore simbolico delle Indie, e quindi il primo colonizzatore della storia. Negli ultimi anni, ci sono state forti dimostrazioni a New York e in altre città, e il Congresso ha già ricevuto delle petizioni per eliminare la festa dal calendario laico.

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democrazia statunitense.39 I Columbus Day erano una vera e propria festa popolare e le Little Italies

di tutti gli Stati Uniti si tappezzavano di tricolori; almeno per un giorno, gli emigrati italiani abbandonavano la propria routine sociale (molto spesso non troppo gratificante) per celebrare la patria lontana ma mai dimenticata.

Il Columbus Day era un giorno in cui l’italianità riemergeva con preponderanza dal tessuto sociale americano, divenendo simbolo di una tenace resistenza all’integrazione anglosassone. Non a caso, le due comunità che più di tutte sono rimaste aggrappate alle loro tradizioni folkloriche nazionali furono quella italiana e quella ispano-messicana, che ancor oggi festeggia il Cinco de mayo40

con una partecipazione popolare impressionante.

Per quanto riguarda i nostri connazionali, l’esempio più evidente di questa lentezza d’assimilazione è dato dalla fortuna della musica lirica negli Stati Uniti, sulla quale è doveroso spendere qualche parola. Secondo Stefano Luconi, che riporta la testimonianza di Anna Maria Martellone, «la vasta popolarità di cui la musica lirica godette nelle comunità italiane degli Stati Uniti nei decenni di flussi di massa ha contribuito a stimolare l’orgoglio nazionale degli emigranti e pertanto ha concorso all’edificazione del senso di appartenenza etnica degli italo-americani in una terra che era generalmente ostile verso i nuovi venuti».41

Partiamo anche in questo caso da una data, il 10 dicembre 1910, e da una città, che è ancora una volta la metropoli di New York. Al famosissimo teatro Metropolitan, infatti, va in scena la prima dell’ultimo, grandissimo capolavoro di Giacomo Puccini: La fanciulla del West. Della straordinaria compagnia teatrale che si esibì, basti annotare su tutti i nomi del direttore d’orchestra (Arturo Toscanini) e del soprano principale (Enrico Caruso).

Abbiamo dinanzi a noi un dramma in tre atti, nella solita forma42 nata a metà Ottocento, che

narra le vicissitudini di un villaggio californiano nato nella stagione fortunata del gold rush.

Sulla qualità dell’opera non possono esserci dubbi: i migliori critici musicali del nostro panorama si riferiscono spesso alla Fanciulla del West come all’ultimo capolavoro della lirica prima

39 Un ruolo non secondario in questo processo di ufficializzazione lo ebbe, come sottolinea LUCONI Stefano nel suo

La diplomazia parallela, il regime di Mussolini, da sempre attento a preservare l’identità italiana degli emigrati.

40 In Messico, il 5 maggio ricorda la battaglia di Puebla, combattuta nel 1852 contro i francesi. Nella comunità messicano-statunitense della California, la festa diventò ben presto ufficiale e contagiò tutti gli Stati dell’Unione. In America, però, viene celebrata non tanto la vittoria sui francesi, quanto l’orgoglio nazionale messicano e l’esaltazione dei valori democratici.

41 LUCONI Stefano, L’importanza dell’opera di Giuseppe Verdi per le comunità italo-americane, Musei Capitolini, Roma, 10 ottobre 2013, consultato il 27 giugno 2018 sul portale AltreItalie.

42 L’espressione «solita forma» venne coniata dal musicologo e compositore Carlo Basevi nel 1859, e indica la struttura estremamente codificata del dramma lirico di metà Ottocento, che aveva raggiunto un canone standard da cui era pressoché impossibile discostarsi. Lo scopo della pièce era infatti tutto piegato ai fini della realizzazione canora del tenore o della primadonna, unici momenti di grandioso interesse per il pubblico.

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del tramonto definitivo del genere presso il grande pubblico.43 Ma a noi, nella prospettiva

particolare di questa ricerca, conviene ricavare alcune osservazioni per nulla secondarie circa il mito italiano dell’America, il ruolo delle comunità di immigrati e l’approccio mentale dei nostri intellettuali al continente statunitense.

Giacomo Puccini si recò più volte negli Stati Uniti, e rimase sconvolto dalla straordinaria partecipazione emotiva egli emigrati italiani agli spettacoli lirici. Dalla metropoli di New York sino agli ultimi villaggi del New Mexico, la lirica faceva parte del patrimonio culturale di ogni italiano ed era anzi motivo di vanto e di orgoglio. Ben dentro il Novecento, Mario Soldati ha raccontato la storia di un giovane figlio di immigrati italiani che era partito dagli States per diventare un grande tenore: nel capitolo Un baritono di Boston, Soldati traccia una descrizione impietosa del morboso attaccamento degli emigrati a qualsiasi cosa emanasse un briciolo di «italianità», lirica compresa, fino a una vera e propria feticizzazione della patria d’origine; insomma, un vero e proprio «meccanismo di difesa» dal sapore freudiano per salvaguardare la propria psiche dalle insidie della società moderna meccanizzata.44

La lirica è stata, storicamente, l’unico settore artistico dominato per più secoli dalla cultura italiana; sin dalle origini rinascimentali, infatti, il dramma musicato si è contraddistinto per l’utilizzo dell’italiano come lingua di recitazione e di espressione tecnica. Negli Stati Uniti, la lirica era ben radicata sin dall’inizio nella costa orientale e si diffuse verso il West seguendo la linea colonizzatrice della frontiera. Che l’America fosse avida di teatro e di spettacoli sembra indicarlo anche la biografia di Lorenzo Da Ponte, che scelse il ritiro newyorkese monopolizzando l’intero mercato degli impresari della città, e ce lo conferma Giacomo Puccini, che un secolo più tardi pensò e compose un dramma interamente dedicato all’epopea dell’emigrante negli Stati Uniti.

Gli artisti italiani del mondo melodrammatico, poi, erano caratterizzati da una notevole mobilità. Molti dei performers più talentuosi del loro tempo girarono in lungo e in largo gli States: Tito Schipa ed Enrico Caruso rivaleggiarono da New York a San Francisco, mentre alcune dive, come Adelina Patti e Alice Zeppilli, divennero vere e proprie star californiane e rimasero oltreoceano per larga parte della loro carriera musicale.

Questo interesse dimostrato dalla classe musicale italiana per gli States è abbastanza evidente ne La fanciulla del West, opera pensata per un pubblico prettamente americano. Puccini pensava probabilmente ai suoi connazionali emigrati che, all’inizio del Novecento, celebravano il Columbus

43 Il tramonto della lirica fu dovuto in parte all’asfissia del genere, che andava esaurendosi, e in parte alla diffusione del cinema, che divenne arte popolare per eccellenza (a costi molto più contenuti).

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Day e acclamavano i loro eroi durante le tournée delle compagnie teatrali italiane.45 E l’intuizione

di Puccini fu straordinariamente esatta: La fanciulla del West riscosse un successo clamoroso, andò incontro a una serie infinite di repliche (che al Metropolitan sono ancora in corso) e divenne a buon diritto l’ultimo, grande pezzo lirico prima del definitivo avvento del cinema.46

Sulla Fanciulla del West è giusto spendere qualche parola a livello letterario. Si tratta di un’opera ideata da un compositore italiano che, pur avendo una discreta esperienza diretta degli Stati Uniti di inizio Novecento, ambienta la sua opera nella California del 1850, azionando tutta una serie di leve stereotipiche e mitologiche che ci permettono di capire a che punto fosse, intorno al 1910, il mito italiano in America.

Innanzitutto, Puccini ambienta l’opera in California, tradizionalmente considerata «L’Italia degli Stati Uniti d’America». Andrew F. Rolle ha dedicato pagine straordinariamente efficaci alla narrazione del Golden State come nuova terra mediterranea: le compagnie di navigazione, nel tentativo di invogliare gli emigrati a compiere una doppia traversata globale (l’oceano atlantico prima, e l’oceano di terra delle Grandi Pianure poi), decantavano le qualità del terreno californiano, il clima ottimo per la viticoltura, e in generale l’atmosfera di ricchezza e fertilità che ogni contadino, da sempre, sognava.47 Se Puccini ambienta il suo capolavoro americano in una California senza

tempo, è perché quella California così arcadica corrisponde alla sua idea mitica di America. Per Puccini, che compone nel 1910, l’America è ancora quella Terra Promessa lontana e misteriosa che non corrisponde ai cupi meccanismi antropofagi di New York, né tantomeno alla civilizzata e progredita costa orientale; è la terra lontana, atavica e primitiva, le cui montagne ricche di metalli sono ancora vergini e i campi non hanno saggiato la lama dell’aratro.

In Puccini troviamo un mito fortemente ottocentesco, e questo porta a due doverose precisazioni. La prima: la lirica è un genere fortemente conservatore, recintato da rigide regole musicali e librettistiche che favoriscono una concezione «semplicistica» e arcadica delle scene. Questo giustifica, per così dire, la California pucciniana come terra senza conflitti, come vera e propria Arcadia da teatro. La seconda: se La fanciulla del West ha avuto un successo così clamoroso ciò dipende, in parte, anche dal fatto che il mito americano messo in scena rispondeva ancora a

45 Il simbolo di questo divismo americano fu, ovviamente, Enrico Caruso, che girò in lungo e in largo gli Stati Uniti portandosi dietro un pubblico entusiasta e orgoglioso del suo connazionale. Il tenore italiano, tra l’altro, si trovava a San Francisco durante il terrificante terremoto del 1906, di cui parlò spesso con angoscia e inquietudine.

46La fanciulla del West, tra gli ultimi capolavori della lirica, è del 1910; La nascita di una nazione, primo grande colossal del cinema classico hollywoodiano, è del 1914. Lo diresse il cineasta David W. Griffith, che canonizzò gli strumenti e la grammatica della narrativa cinematografica negli Stati Uniti.

47 Dopo lo Stato di New York, la California divenne la regione statunitense con la maggiore presenza di italiani. Molti di loro di distinsero come viticoltori e agricoltori (l’esempio migliore è dato dalla Delmonte, oggi multinazionale, ma un tempo piccola azienda californiana).

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determinati desideri del pubblico, specialmente quello italiano (emigrato e non). La California infatti fu l’ultima terra impregnata di mito americano, l’ultima frontiera raggiungibile per i disperati dell’Occidente, e curiosamente anche l’anello di congiunzione tra la lirica e il suo erede, il cinema, che proprio nella Hollywood americana vedrà sorgere la capitale industriale ed artistica della settima

arte.

A distanza di pochi anni, due autori di primissimo piano come Pascoli (1904 e 1911) e Puccini (1910) dimostrano un medesimo interesse per l’alterità degli Stati Uniti. Mentre il poeta si interroga sull’identità irrecuperabile degli spostati, di coloro che abbandonano il nido per sempre, il compositore fa leva sul loro orgoglio culturale e sul loro immaginario collettivo per ricavarne un indubbio successo teatrale e soprattutto dei cospicui ritorni economici.

Puccini, muovendosi tra le rigide regole del melodramma, è costretto entro schemi molto convenzionali; proprio per questo motivo troviamo una lunga teoria di stereotipi capaci di soddisfare il gusto esotico del pubblico (ad esempio, nel personaggio dell’indiano d’America) e la nostalgia per la terra natale, che accomuna improvvisamente gli «eroi» sul palco e gli spettatori nella platea, favorendo i processi di immedesimazione e catarsi su cui si fonda praticamente tutto il teatro. Nel primo atto, ad esempio, il baritono che interpreta Jake Wallace riflette tra sé:

Che faranno i vecchi miei Là lontano, là lontano? Che faranno?...

Tristi e soli i vecchi miei Piangeranno,

penseranno che non torni più!

Jake Wallace, cantastorie girovago, è il doppio ideale dell’italo-americano, il quale può immedesimarsi nell’animo ramingo del personaggio e ripensare, con dolcezza musicale, alla patria lontana. I tre atti del dramma sono ricchi di questi spunti, disseminati con maestria dal librettista Guelfo Civinini su indicazioni di Giacomo Puccini.

Può darsi che l’America di Puccini sia troppo lontana, mitizzata e fuori dal tempo per venirci incontro. Ma essa risponde all’orizzonte d’attesa del pubblico, italiano o emigrato che fosse: soddisfaceva il desiderio di un altrove, la ricerca di una mitica Arcadia che, tra Otto e Novecento, si chiamò California. Insistendo sull’oro californiano, che è effettivamente il colore dominante delle sceneggiature e delle liriche, Puccini fa trapelare, probabilmente per l’ultima volta, un’immagine primitiva, ingenua e fertile degli Stati Uniti, ben poco intaccata dalla irrequieta civiltà meccanica

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che, all’inizio del Novecento, stava ormai prendendo il sopravvento. Siamo nel 1910, a ridosso della prima Guerra Mondiale. Il «secolo lungo», per dirlo alla Hobsbawm, è ormai agli sgoccioli. Sta per cominciare il secolo americano.