Verso la fine di Messico, Emilio Cecchi inserisce una riflessione improvvisa su una precisa caratteristica dell’animo americano. L’autore scrive:
l’America è una terra un po’ matta. Ed è terra di spettri. Basta vedere nel cielo di Nuova York quella luce quasi sempre bianca che stampa ombre del più tenue color avorio o cinerino. A volte l’ombra è talmente diafana che fa pensare a un corpo astrale. […] In gran numero, però, gli americani sono estranei a quest’atmosfera: e stanno duri e insensibili come pezzi di legno. Diventare pezzi di legno fu l’unica loro difesa, in una realtà così inquieta e ubbriaca. Altra forma di difesa, o meglio di adattamento, si riconosce nelle innumerevoli sette o superstizioni americani. Ogni città americana ha più «stregoni» d’una città medioevale o di una foresta congolese. Segno che ce n’è bisogno.56
Il brano citato si pone in apertura di un lungo excursus che permette a Cecchi di riflettere sul rapporto stralunato che gli americani hanno costruito con la natura e la morte.
Mentre gli europei, secondo l’autore, hanno un ciclo doloroso ma naturale di gestione della morte, gli americani si sono volontariamente privati delle emozioni legate ai lutti per sopravvivere nei difficili ambienti di frontiera. Questo scompenso psicologico avrebbe generato dei nuovi bisogni religiosi, quasi tutti mistici e settari, accuratamente soddisfatti dalla grande diffusione di comunità religiose – si pensi ai mormoni di Salt Lake City – ai quattro angoli dell’Unione.
Cecchi sostiene poi che in America esistano tre tipi di morte, tutte accomunate dall’indifferenza, dalla necessità di guardare oltre, allontanando il prima possibile il lutto.
La prima è la morte del familiare, che in America si risolve «nella duplice ansietà di sgomberare subito il cadavere dalla casa, e di pagare alla morte il dovuto omaggio»; la seconda è la morte delle macchine, che dopo il 1929 giacevano invendute «in fondi abbandonati e sconvolti, tra cactus e cardi, come scheletri antidiluviani»; infine, la morte dell’animale, associata alla caccia che avviene «senza una minima ostentazione di crudeltà, ma con un senso di un’innocenza incredibilmente rozza». Insomma, il minimo comun denominatore sembrerebbe una sostanziale incapacità – o assenza di volontà – nell’associare alla morte qualsiasi tipo di emozione. Questa
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sterilità emotiva è rintracciabile anche in Ferrero, che accusa gli Stati Uniti di essere un paese senza tradizioni cristiane, e dunque completamente privo di sentimenti quali la carità e la pietà. Come spiega in maniera eloquente Ambra Meda,
una conseguenza dell’assenza di religiosità nella cultura d’oltreoceano viene identificata nella negazione del male, nel tentativo di rimuovere tutti gli aspetti dolorosi dell’esistenza e di rifiutare il tragico. […] La tendenza a bandire i sentimenti negativi è un ulteriore motivo di contrasto con la visione drammatica dell’esistenza e con il culto della morte tipici della civiltà europea.57
In Europa, il «culto della morte» aveva profonde rispondenze sul piano filosofico, teologico e letterario. Il suicidio, tema centrale nella letteratura europea sin dalle origini, con la Commedia di Dante e le opere teatrali di Shakespeare, non ebbe in America un’attenzione altrettanto profonda. Mentre nel Vecchio Continente la disperazione personale e l’ossessione per la morte continuavano ad essere parte integrante della cultura – a maggior ragione dopo la Grande Guerra – in America era in atto una vera e propria rimozione collettiva del dolore.
Mario Soldati ne ha fornito un’interpretazione esaustiva, dimostrando come la efficiency americana avesse preso il posto dei crucci spirituali europei. Il brano U.S. Hotel merita di essere letto da cima a fondo:
In ogni stanza, nel cassetto di ogni scrittoio, oltre penna inchiostro e carta, è una busta bell’e stampata col nome e l’indirizzo del direttore dell’albergo. IN CASO DI SUICIDIO. American efficiency! Efficienza, anzi Efficacia Americana! Questa volta è ben detto. Ci uniamo all’entusiastico universale riconoscimento. È meraviglioso come le pareti di celotex, i doppi usci a valvola, i feltri dei tappeti attutiscano i rumori. Un colpo d’arma da fuoco, non lo sente neppure chi occupa la stanza attigua. E poi, insieme a quella tale busta, nel cassetto di ogni scrittoio, c’è anche un cartello. un bel cartello giallo, DO NOT DISTURB. Non disturbare. Il cliente, se vuole, lo attacca fuori dell’uscio. Non temete, signore. Non sarete disturbato. Sparatevi pure.58
«Sparatevi pure»: con quest’espressione lapidaria Soldati dà il senso della morte in America, un fenomeno inusuale che, se affascina i viaggiatori degli anni Trenta, arriva letteralmente a stregare gli americanisti rimasti in Italia.
57 MEDA Ambra, Al di là del mito. Scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, cit., p. 310. 58 SOLDATI Mario. America primo amore, cit., p. 176.
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La maggior parte della letteratura d’oltreoceano tradotta dal 1930 al 1942 ha a che fare con il macabro, l’orrido, il mostruoso e il violento. Eugenio Montale, che tradusse numerosi testi in quel periodo, giustificò questo atteggiamento affermando che il paese più ricco e felice del mondo si fosse paradossalmente dotato della letteratura più angosciata e terrificante, simbolo di uno scarto psichico di notevole rilevanza59. Per gli americanisti, questa rimozione costante del dolore nella vita
quotidiana non poteva che trovare sfogo nella letteratura, dove il conturbante è un elemento centrale. La provincia americana, quella che stregò Vittorini e che ispirò Pavese per la descrizione delle sue Langhe, è una terra dominata dalla violenza; i libri più apprezzati del periodo, dai racconti di Edgar Allan Poe a Moby Dick di Melville, passando per i testi di Hemingway, sono narrazioni dominate dalla lotta, dalla brutalità dello scontro tra uomini e natura.
L’ossessivo richiamo alla morte è uno degli elementi che più attrae, nella società e nella letteratura americana. I nostri intellettuali sono affascinati da questa cupio dissolvi, dalle tendenze macabre insite nel ragionare statunitense, dalla violenza che sembra diretta conseguenza della fisionomia sociale americana. Infatti, un paese dalla scarsa legalità, dominato da un sistema produttivo impersonale e autoritario, non poteva che portare alla brutalizzazione di una società completamente nuova, priva di radici culturali profonde e comuni.
Riguardo alla violenza, Borgese descrive l’America come «una società disordinata e anarchica», che non sprofonda nel solo caos grazie alle caratteristiche dei suoi cittadini:
sotto l’apparenza dell’anarchia, molte sostanze della vita e del costume americano, dal sentimento al galateo, dalla cucina al linguaggio, hanno questa durezza draconiana, questa fissità rituale. Ora immaginate questa regolarità e uniformità degli atti e delle espressioni di ogni giorno estesa a quasi ogni moto dell’anima. Voi comprenderete subito perché gli americani, nonostante le libertà politiche e le anarchie legali, si sentano ben altro che liberi.60
Se per Borgese la violenza dei singoli è un male necessario al fine di mantenere la coesione della società, per Soldati vi sono delle conseguenze tragiche:
in quelle case maledette, si direbbe che un delitto, un suicidio è stato o sarà consumato: spettri, non uomini, ad abitarle. E occorre, osservandole, che il più grande e vero poeta dell’America è tutt’ora Poe.61
59 Parole appartenenti a Eugenio Montale, raccolte da FERNANDEZ Dominique, Il mito dell’America negli scrittori italiani
(1930-50), cit.
60 BORGESE Giuseppe Antonio, Atlante americano, cit., p. 212. 61 SOLDATI Mario, America primo amore, cit., p. 48.
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Tutto, negli Stati Uniti, si convoglia nella violenza. Se i viaggiatori si rendono conto della brutalità dei rapporti interpersonali, i pensatori in Italia incolpano il sistema produttivo e la mancanza di attenzioni spirituali. Evola e Moravia sono i critici più duri del materialismo americano e non c’è dubbio che la crisi del ’29 e alcune produzioni cinematografiche come Modern Times di Charlie Chaplin abbiano fissato, nell’immaginario collettivo, quest’impressione di barbara rozzezza insita nello spirito americano.
Ad esasperare questa morbosa attenzione dei nostri intellettuali verso il macabro americano concorre persino il proibizionismo, considerato spesso alla stregua di una crociata inutile e destinata al fallimento. Secondo Borgese, che visse le ultime fasi del fenomeno,
è discorso comune che il proibizionismo è pure una specie di guerra civile: non dichiarata, non guerreggiata, - torpida, occulta – ma quasi ugualmente devastatrice. Quasi peggio, dicono i più corrivi agli estremi, perché non se ne vede la fine.62
Il proibizionismo, dunque, come «guerra civile», come battaglia morale senza eguali nella storia dell’Occidente moderno, che si risolse in un fallimento completo: i traffici illegali fiorirono in ogni dove e le organizzazioni criminali divennero più potenti che mai, ora che disponevano di denari, coperture politiche e arsenali bellici di prim’ordine.
La violenza, dunque, viene percepita come leitmotiv della cultura americana. I nostri intellettuali si sentono attratti da questa ossessiva tendenza alla brutalità e dal rapporto complicato con la morte; proprio per questo, tutti dedicano un numero considerevole di pagine al richiamo di episodi crudi, dai linciaggi alla cronaca nera; tutti elementi considerati «caratteristici» dell’America.