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L’amore per una parola che fa incontrare e che umanizza i contesti più aridi .124

5.1. Un focus group per sollecitare il co nfronto sulle potenzialità della parola

5.1.1. L’amore per una parola che fa incontrare e che umanizza i contesti più aridi .124

motivazioni diverse: per Marco ha rappresentato l’evoluzione del laboratorio di lettura e scrittura condotto da tempo: “Lo strumento della parola è un mio strumento da tanti anni. Non mi interessa un tema in particolare, ma la sua

rappresentazione narrata; le potenzialità che custodisce”. Potenzialità che “si esprime nel lasciare emergere parti di sé che non si conoscono”, dirà in seguito.

Laura invece utilizza la narrazione per dare forma al tempo e ai confronti in carcere: “Stare in carcere è davvero faticoso, non è come transitare. È qualcosa di opprimente, la narrazione crea comunità momentanee che hanno un grande peso su di me, come guadagno di consapevolezza di chi ero e sono”.

Anche per Brunello la scelta di operare in carcere e di occuparsi della narrazione si intreccia con le proprie vicende autobiografiche: “Il mio papà era un cancelliere del tribunale e sono convinto che la curiosità mi ha portato a voler conoscere più profondamente un mondo carico di aspetti affascinanti e misteriosi che già faceva parte della mia vita.

In carcere ci devi proprio voler andare, perché di per sé non è un luogo attraente, non è gratificante: né sotto il profilo professionale, né come volontariato. Se sono rimasto e ancora non ho un calo di interesse è perché ho trovato che il mio andare avesse senso. Le persone mi aspettavano. Ho compreso che i percorsi narrativi non sono solo una cosa che facevo per me, ma servivo a qualcosa, e nel sociale non è così frequente”.

Infine per Carla gli incontri che già realizzava in luoghi maschili di detenzione hanno dato vita a riflessioni e domande che si sono tradotte nell’ipotesi di un percorso dedicato specificatamente all’elaborazione del rapporto col proprio padre da parte delle persone detenute: “Il tema della narrazione, e della narrazione della paternità in particolare, è stata un’esperienza cogente nel mio impegno in carcere. Quando ho iniziato a operare in carcere avevo appena perso mio padre e assistevo alla paternità di mio figlio: due esperienze molto diverse, ma ugualmente intense. Inoltre sono cresciuta tra sole donne e volevo conoscere di più e meglio l’universo maschile, che nei laboratori di narrazione e scrittura autobiografica è emerso con una generosità e freschezza imprevedibili.

Qualche tempo dopo un papà detenuto a Piacenza mi ha regalato una lettera terribile che gli aveva inviato il figlio, dicendomi: ‘Mio figlio è peggio di un magistrato’. Si trattava di uno scritto che esprimeva molta rabbia e delusione per una promessa e una speranza tradite: ‘Pensavamo fosse tutto finito, ma tu, papà, non cambi mai’.

Da lì ho pensato che a questi padri manca uno spazio di maturazione. Sono maldestri, non sanno creare relazioni adulte. Sono accomunati dalla delusione che hanno suscitato nei figli. La narrazione e la scrittura possono offrire uno spazio di ascolto per tutti, a differenza del solo confronto verbale, che penalizza chi è più timido e non riesce a raccontarsi.

La scrittura in particolare permette di andarsi a rileggere, sostiene una sorta di autorieducazione”.

5.1.2. Il potere della parola

Il lavoro di narrazione e di scrittura in carcere è un lavoro di ricerca di parole non usurate, non banali, che possano custodire l’autentico, l’essenziale. Accompagnare a scoprire il proprio mondo interiore, nella certezza che i paesaggi dell’anima sono così affascinanti da non richiedere alcuna illusione cosmetica, ma attendono di essere raggiunti ed esplorati, significa dare parole, vocaboli, strumenti per potersi esprimere e intimamente comprendere. Come sostiene Heidegger distinguendo tra chiacchiera e parola, quest’ultima è autentica e significativa quando conduce ad una “comprensione originaria” (Heidegger, 1976, p. 211 e ss.), quando risale agli essenziali, affronta ferite, vuoti d’amore, rende riconoscibili emozioni e sentimenti deprecabili e distruttivi come parte di sé, della propria storia. “La chiacchiera, che chiude nel modo descritto, è la modalità d’essere della comprensione sradicata dell’Esserci. ” (ivi, p. 214)

Percorrere insieme l’universo visibile provando a coglierne, dietro ogni superficie, una profondità inesauribile, aiuta a passare dal “così-si-dice” di parole logorate dall’abitudine e dalla trascuratezza a parole “primigenie”, gravide di mistero, del proprio mistero, mai del tutto risolvibile ma da imparare a guardare, interrogare.

Il compito di chi ascolta e attende con pazienza parole autentiche contrasta quell’oblio dell’essere che genera alienazione e perdita: scomparsa di frammenti di sé non nominati: “nessuna cosa è dove la parola manca”, scrive Heidegger citando il poeta Stefan George (Heidegger, 1973, p. 129). La narrazione e l’ascolto assumono così una valenza maieutica e poietica57: permettono di “portare alla parola qualcosa di cui mai ancora si è parlato” (ibid.).

La parola si interfaccia con l’indicibile e lo porta a nominazione, rischiarandolo almeno in parte; contribuendo a dare forma all’esperienza essa esprime il proprio valore formativo e performativo. Come è accaduto nei laboratori di scrittura e narrazione, che “hanno permesso di fare esperienza di una libertà interiore e di silenzio. Cose che in carcere sono impossibili da trovare. Soprattutto il silenzio. Quello che ha stupito tutti, anche i detenuti, erano quei 10 minuti di silenzio e concentrazione durante la scrittura, in seguito alla quale si condivideva la lettura di ciò che ognuno aveva scritto. Il fatto che persone detenute stiano in silenzio e accettino di mettersi a nudo è una cosa particolare. Il carcere infatti induce a coprirsi. Il corpo è visibile ma l’anima viene gelosamente nascosta. I detenuti in genere proteggono la loro intimità, invitarli a scoprirla, darle voce, condividerla è stata la sfida più grande, che in molte occasioni ha prodotto stupore, commozione” (Laura).

57 Scrive ancora il filosofo tedesco: “la verità come illuminazione e nascondimento […], accade in quanto è gedichtet, poetata” (Heidegger, 1968, p. 56.).

Narrare la propria storia permette di ri-conoscerla attraverso l’ascolto che gli altri le dedicano. E questo ascolto permette di acquisire nozione del suo significato. È una riappropriazione che produce un cortocircuito emotivo nella forma della commozione perché svela il “chi” del protagonista alla sua stessa coscienza.

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