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Il potere delle parole, il potere dell’educazione: una comune ambivalenza

Un’idea ingenua di educazione, la considera intrinsecamente “buona”, e dunque giustificabile anche negli eccessi di severità sconfinanti nel maltrattamento ai danni dell’educando, come testimonia la stessa storia dell’educazione (Ariès, 1968; Cambi, 2000; De Mause, 1983).

L’adulto è chiamato a promuovere e orientare la crescita del soggetto, a esercitare le funzioni educative di contenimento e regolazione, svolgendo un’azione di limitazione della libertà del minore. Accentuando la dimensione “prescrittiva” e “contenitiva” dell’educazione, questa finisce per essere intesa (e interpretata) come una disciplina che plasma gli individui al fine di renderli “buoni” figli, scolari, cittadini, lavoratori… ovvero forgiati per conservare l’ordine sociale. A questa tensione al “buono” come principio di omologazione, Piero Bertolini associa il concetto di antipedagogia, là dove scrive: “a fronte di chi intende per pedagogia (e per pedagogico) la capacità di comprendere e quindi di aiutare ad impostare l’azione educativa con atteggiamento aperto, critico, dinamico, lontano da ogni comoda e facile sicurezza – sicché la sua prospettiva sarebbe il raggiungimento di una personalità il più possibile libera ed autonoma; sta chi, al contrario, per pedagogia (e per pedagogico) intende la capacità di condurre per mano un individuo (un educando?) su una strada già ben delineata, nella convinzione che, così facendo, costui potrà vivere una vita sicura, tranquilla, lontana dai rischi più pericolosi. Di conseguenza, nel primo caso il termine di antipedagogia corrisponderebbe ad un modo di pensare e poi di stimolare una educazione del tutto negativo, in quanto fondato su un ‘imbrigliamento’ dell’esperienza educativa in schemi rigidi pensati come definitivi. Nel secondo caso, quello stesso termine corrisponderebbe ad un importante e positivo atteggiamento di lotta contro ogni tentativo di immiserimento dell’esperienza educativa in forme pesantissime di condizionamento o di omologazione (ovviamente dell’educando), come è facile immaginare assai comode alla classe

sociale dominante in quanto tutte centrate su una intenzione conservatrice e quindi perpetuatrice di privilegi ed esclusioni” (Bertolini, 2001, pp. 131-132).

È possibile cogliere in questa riflessione la debolezza costitutiva dell’epistemologia pedagogica, la sua apertura a esisti differenti, addirittura opposti, e dunque l’intrinseca ambivalenza dell’educazione, la sua natura “relazionistica” (come di nuovo Bertolini ha messo in luce richiamando E. Paci a proposito della prospettiva fenomenologica con cui mantenersi il più fedeli possibile alla complessità dinamica del reale; cfr. Bertolini, 2001, pp. 94-95), che si appella al rigore morale e al senso critico del soggetto con responsabilità educative: in questo sta la sua forza, ma anche la sua pericolosità. Si può infatti tendere alla “buona educazione” perseguendo forme di “condizionamento”, “imbrigliamento”, “omologazione” tese a conservare i privilegi della classe dominante, oppure impostare una “buona” azione educativa con atteggiamento aperto, critico, dinamico, lontano da ogni comoda e facile sicurezza, la cui prospettiva sarebbe il raggiungimento di una personalità il più possibile libera ed autonoma.

Nel primo caso l’ordine sociale – e i privilegi della classe dominante avvantaggiata, ovvero il mondo adulto – si serve dell’educazione per conservare se stesso, ammettendo anche modalità lesive per il singolo ma subordinate al “maggiore interesse” del sistema, della collettività; nel secondo caso l’educazione svolge un’azione critica e di vigilanza anzitutto su di sé, visti i precedenti storici relativi alle sue implicazioni violente, al fine di promuovere nell’educando la liberazione delle proprie risorse e potenzialità, e sostenerlo con fiducia in un processo autorealizzativo.

Quindi l’ambivalenza della “buona educazione” affonda le radici, a ben vedere, in quella dose di impliciti e non detti che rispondono non tanto alla domanda: “in vista di cosa educo?”, quanto piuttosto: “per chi educo?”. Per l’omologazione o la libertà? Per il mantenimento dell’ordine sociale, che quindi sarà disposto a legittimare il ricorso a mezzi eticamente riprovevoli, o per la promozione e protezione del singolo, di ogni singolo, che in vista dell’imprevedibilità e della novità che lo qualificano come unico potrebbe anche attentare, mettere in pericolo l’ordine (e il soggetto) dominante?

Su questa strada, quando le finalità educative spostano il baricentro del soggetto verso un principio d’ordine indifferente alla sua soggettività (ai suoi desideri, alla sua sensibilità, alla sua volontà…) si sono già delineate le condizioni per la degenerazione del potere nel maltrattamento e nella violenza.

La stessa asimmetria su cui si fonda la relazione educatore-educando istituisce le premesse per un esercizio di potere e di autorità nei confronti del soggetto educativo, in modi spesso nascosti e sottili, ammantati magari di filantropia e altruismo, come ha evidenziato Michel Foucault, che ha analizzato il potere a partire dalla quotidianità dei suoi effetti.

Il potere è presente in ogni rapporto sociale (relazione insegnate-alunno; educatore-educando; medico-paziente; genitore-figlio…) e non si esprime solamente nelle forme eclatanti della repressione e della sottomissione. Esiste anche un “potere disciplinare”, come lo ha definito il filosofo francese, che ha le caratteristiche di essere discreto, dissimulato, operante mediante il controllo e la disciplina, appunto.

Questa forma di potere è difficilmente identificabile perché non è riconducibile ad una persona o ad un’istituzione. È ramificato e avvolgente come una fitta rete, pervasivo, agisce come un principio organizzatore e un dispositivo di sorveglianza. Foucault lo definisce “biopotere” (Foucault, 1988), in quanto si riversa anzitutto sul corpo, immesso in un ingranaggio “che lo fruga, lo disarticola e lo ricompone” (Foucault, 2005, p.150).

Uno degli strumenti con cui agisce questa forma di potere è il linguaggio, che, parafrasando il filosofo francese, può riversarsi sul soggetto “frugando” nei recessi più profondi e intimi della sua identità, “disarticolando” e “ricomponendo” la sua trama di relazioni.

Esiste infatti una “dimensione nascosta” nel linguaggio. È quella che lo rende strumento di vicinanza, canale di trasmissione di affetto, amicizia, solidarietà o al contrario lo investe di una carica umiliante, distruttiva, respingente. Accade quando le parole sono scelte con cura, soppesate per le impressioni che possono suscitare o al contrario quando sono usate come coltelli, o più semplicemente sono buttate in faccia all’altro senza attenzione, con superficialità e leggerezza.

Lo psicologo statunitense Marshall Rosenberg, ideatore della Comunicazione non violenta (CNV o Linguaggio giraffa), che dell’impegno per sensibilizzare ad un uso corretto del linguaggio ha fatto la cifra della sua vita (Rosenberg, 1997; Id., 1999; Id. 2005; Id., 2006; Id. 2016), ha intitolato un suo libro: Le parole sono

finestre o muri (Rosenberg, 2017), evidenziando come le parole possono aprire

varchi, mettere in comunicazione mondi, illuminare paesaggi interiori, ma anche respingere, delimitare, chiudere, stabilire barriere, isolare, imbruttire, offendere, mortificare...

È questione di intenzionalità e buona volontà (che sta alla base delle buone abitudini), di comportamenti rispettosi perseguiti con determinazione fino a diventare “stile” relazionale positivo, ma anche di conoscenza dei danni che possono fare le “parole-muri”.

Le umiliazioni e le offese che si infliggono con le parole sono forme di annientamento dell’altro: atti finalizzati a negarne la dignità, agendo nei suoi confronti una squalificazione che lede il suo senso di identità, il suo valore, l’autostima.

Le persone che sono vittima di queste forme di disprezzo, specie se per periodi prolungati, tendono ad assumere stabilmente atteggiamenti difensivi, eccessivamente remissivi e di chiusura, mostrando un’alta suscettibilità, una

eccessiva tendenza alla sottomissione, una generale diffidenza verso gli altri, fino a strutturare una percezione di sé depotenziata, incapace di resilienza, emotivamente instabile, incline a scivolare in comportamenti infantili e autocentrati (Missildine, 2004), in aperto contrasto con quelli che, in età adulta, dovrebbero essere i compiti che la maturità e soprattutto l’assunzione di un eventuale ruolo genitoriale richiederebbero.

In educazione il potere può promuovere l’umano ma può anche trasformarsi in dominio, sopraffazione, abuso educativo (Riva, 1993). E poiché il potere ambivalente dell’educazione si riverbera sugli strumenti di cui essa si avvale, l’uso delle parole deve essere presidiato da uno sguardo critico e risoluto. Se infatti il buono o cattivo utilizzo delle parole ha alla base ristagni di pensiero e irrigidimenti della coscienza, è forse dalla cura delle ferite originarie, da una riattivazione del pensiero e da una rinnovata sensibilità della coscienza che è possibile interpretare con più attenzione la loro irriducibile ambivalenza.

D’altra parte, come fa notare Piero Bertolini, “il fatto di essere un’esperienza in situazione comporta anche la conseguenza che l’esperienza educativa […] non è mai e per nessun motivo un’esperienza ‘sicura’, priva di rischi. Al contrario, proprio per la sua connotazione relazionistica essa appare sempre instabile, ambigua nel senso in cui Maurice Merleau-Ponty definì ambigua la vita stessa dell’uomo” (Bertolini, 1988, p. 94). Dunque poiché ambivalente è la condizione originaria dell’essere, l’esperienza educativa, in quanto a sua volta originaria (Bertolini, 1988, p. 52 e ss.) non può che possedere quella stessa connotazione.

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Il maltrattamento verbale

come tradimento della parola educante

È vero, non mi hai praticamente mai picchiato. Ma le tue grida, la tua faccia paonazza, le bretelle slacciate e tenute pronte sulla spalliera della sedia, erano quasi peggio.

Franz Kafka, Lettera al padre

La famiglia, questa isola di sicurezza, può essere al tempo stesso il luogo della violenza estrema. Boris Cyrulnik

L’invisibilità delle ferite e dei danni prodotti dai maltrattamenti verbali, e la difficoltà di fissare criteri oggettivi e misurabili, se da un lato ne rende difficoltosa la denuncia e la rilevazione (il maltrattamento verbale risulta precedere e accompagnare le altre forme di maltrattamento, quelle cioè che arrivano ad essere documentate mediante denunce o per l’intervento del servizio sociale; ma rimane invisibile e dunque non contrastato in tutte quelle situazioni, probabilmente assai più diffuse, che non vengono intercettate), dall’altro richiede che aumenti l’attenzione sulla “normale” quotidianità educativa, a partire da quella familiare, principale contesto in cui il ben trattamento di cui ha diritto chi si affaccia alla vita, può tragicamente trasformarsi nel suo opposto. Il che rafforza il compito e le

responsabilità della pedagogia, responsabilità che inizia dalla capacità di vedere, oltre e attraverso il visibile.

2.1. Dove nasce la vita nascono anche le parole per coltivarla o per annientarla

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