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Parole incoraggianti per un’educazione “esigente”

6.1. Un’opportunità per riflettere sul valore costruttivo o distruttivo delle parole: il focus

6.1.1. Parole incoraggianti per un’educazione “esigente”

Dopo aver spiegato le finalità della ricerca in cui si inserisce il focus group e gli obiettivi ad esso sottesi, la domanda sulle caratteristiche della parola educativa ha attivato immediatamente diversi interventi, che tuttavia fin dalle prime battute hanno mostrato incertezze e difficoltà, come se ci fosse una forte discontinuità tra l’intuizione e la sua traduzione in parole.

“Quando secondo voi la parola è una parola educante? Quali sono le sue caratteristiche? Quando, nel vostro lavoro, vi accorgete che state porgendo una parola che educa?”

Lucia:

Dipende dal contesto, nel senso … da mamma, a casa, le parole educanti sono sicuramente nei momenti in cui vedo mio figlio, mia figlia, rispettivamente di cinque e un anno e mezzo … cioè si differenziano anche a seconda delle fasce d’età, le parole educanti, e …. e a volte c’è anche una difficoltà nell’utilizzo, a seconda della fascia d’età, nel senso che se io spiego a mio figlio e … e provo a educarlo nell’avere più sicurezza in se stesso anziché dirgli … adesso provo..., è difficilissimo spiegarlo.

Allora faccio un passo indietro e faccio outing: nella mia esperienza personale, anche se ho avuto dei genitori meravigliosi a volte sbagliavano a usare le parole per educarmi. Ad esempio: io volevo giocare a pallavolo assolutamente, mio padre continuava a dire che io non ero capace di giocare a pallavolo, nonostante io comunque mi impegnassi tantissimo, voleva che io facessi karate, … e lui continuava a dirmi: no, ma guarda, non serve a niente pallavolo, è inutile che tu ti impunti, perché tanto tu non sarai mai capace, perché tu non sei alta, e quindi io dicevo: ma… scusa, non mi hai mai fatto provare, perché? E ho sempre vissuto con questa cosa perché io non ho mai fatto pallavolo e, di conseguenza, agli occhi di mio padre, io ho sempre sentito questa difficoltà nel sentirmi all’altezza di fare qualcosa, per lui.

Lucia è riuscita a uscire dall’impasse dell’inizio, in cui si è resa conto probabilmente della difficoltà di dare voce alle intuizioni, ricorrendo ad un triplo espediente: un cambio di prospettiva (la domanda sollecitava competenze professionali), il distanziamento temporale e l’utilizzo della contrapposizione (cosa

non è la parola educativa).

Il suo racconto compie un movimento emotivo e di ruoli interessante, attraversando in poche battute più piani: quello di figlia, quello di madre e infine quello di insegnante, lasciando intendere che la percezione delle parole educative si radica negli apprendimenti profondi, nei vissuti emotivi familiari.

Quindi, adesso che ho 36 anni, ovviamente ho capito, ovviamente con l’esperienza che non era quello che lui intendeva dire, in realtà, magari lui preferiva che io facessi karate perché era uno sport più completo rispetto alla pallavolo. Ma è un esempio stupido quello della pallavolo. Però era per dire che mio padre non ha

capito quanta passione volessi metterci in quello sport e che magari, anziché dirmi che non ero sufficientemente alta, sufficientemente brava, poteva usare altre parole per … anziché distruggermi l’autostima, in un certo senso, farmi riflettere sul fatto che quel tipo di sport poteva essere più consono per me.

Stessa cosa sto cercando di non fare con mio figlio: lui spesso si arrabbia quando non riesce a fare le cose e la parola educativa nel mio caso specifico di mamma è: aspetta prima di dire che non sei capace, provaci, non è che non sei capace, adesso non ci riesci, provandoci poi ti verrà. E dopo lui ha imparato, adesso sta imparando e pian piano sta riacquisendo, non so perché non ce l’abbia avuta prima, fiducia nelle sue capacità, ma questo è anche probabilmente caratteriale.

Stessa cosa succede anche a scuola, ci sono dei bambini che magari hanno, in un determinato periodo della loro vita, un momento in cui dicono “non sono capace”, allora la parola educativa è: non è che non sei capace, provaci, prova, vedrai che non riuscendo prima o poi troverai i mezzi, io ti aiuterò, a fare bene questa cosa. Analogo è il contributo di Daniela alla riflessione: “occorre cercare sempre di non dare parole negative, cioè sempre di dare spiegazioni, motivazioni: ‘vedrai che se non ce la fai adesso ce la fai più avanti’”.

Per abbozzare una prima definizione della parola educativa, Lucia è tornata agli albori della sua storia educativa, alle parole che l’hanno ferita e condizionata, di cui da adulta ha colto l’ambivalenza (evidenziando la relazione inquieta tra intenzionalità e sua espressione, ovvero tra manifestazione di parole, comportamenti e loro comprensione) e che l’hanno portata, una volta diventata mamma, a prestare attenzione ai modi della comunicazione nella relazione educativa. Questa ricostruzione impregnata di emozioni ancora vive (“ poteva usare altre parole per … anziché distruggermi l’autostima”), le ha consentito di tornare al suo ruolo professionale e di pronunciarsi sul tema con maggiore chiarezza. Questa strategia di entrare e uscire dalla narrazione autobiografica ha caratterizzato da subito il focus group, in misura sensibilmente maggiore rispetto agli altri due (con i volontari del carcere e con i professionisti della cura sanitaria).

I motivi possono essere diversi; la quantità di piccoli indizi disseminati nei testi e confermati da evidenze emerse negli altri focus e in molta parte dei questionari portano ad avvalorare due ipotesi: l’utilizzo educativo della parola non è motivo di studio e riflessione professionale, manca di parole e forse anche di pensiero profondo; per questo ciò che pare attivarlo nell’immediato è il ricorso ad una condizione di cui ci si sente esperti: il vissuto personale, retrospettivo, ad alta densità emotiva. D’altra parte “le parole hanno un alone denso – fa notare Chiara Zamboni –. È come se portassero con sé un potenziale che va oltre le parole stesse. Il visibile del linguaggio scambia nel dire un invisibile, che ha la qualità impalpabile di un’atmosfera e imparenta le parole di una lingua con parole di un’altra. Le parole portano memoria come i cerchi concentrici sull’acqua portano memoria di una pietra andata sul fondo per sempre” (Zamboni, 1998, p. 117).

La ricostruzione compiuta da Lucia suggerisce dunque una prima caratteristica della parola educativa, che è tale quando è esigente, ma al contempo anche

incoraggiante. E questo pare trasferire sull’uso delle parole un tratto proprio dell’educazione, che è anzitutto un’apertura al divenire secondo due movimenti essenziali: la disponibilità ad accogliere l’altro per quello che è, e l’impegno umile, sapiente e generoso a sostenerlo nella realizzazione di ciò che potrebbe e vorrebbe

diventare.

Nello spazio che si estende tra queste due direttrici si muove l’educatore affinché il percorso finalizzato alla piena realizzazione del soggetto educativo tenga conto di limiti e risorse, sia assiologicamente fondato, co-costruito e sostenuto da una pedagogia critica che pone la ricerca di senso in capo a ciò che si fa.

Questa apertura coglie l’anelito di libertà che ispira l’educazione: si educa per aiutare l’altro ad esprimere il proprio potenziale evolutivo, per aumentare in lui la consapevolezza di sé, per consentirgli di autodeterminarsi e dunque imparare a scegliere, in una conquista di libertà che si rinnova ogni giorno, smarcandosi da ignoranza, paure e limitazioni che trattengono e impediscono di crescere. Ma questa stessa apertura, che dà forza e sostiene il lavoro educativo, è anche motivo di vertigine e timore quando si percepisce il peso della discrezionalità in ciò che si fa, la responsabilità del potere che si esercita, l’incidenza che si può avere sulla vita altrui. Una delle fatiche di educare, infatti, è quella di dare forma a qualcosa che tende ad essere informe, poiché custodisce l’imprevedibilità dell’umano, la sua grandezza e il suo mistero.

Questo “corpo a corpo” con la vita, esposto e proteso al suo “non ancora”, rende l’educazione perennemente incompiuta, impegnata in una inesauribile ricerca di senso che la progettazione istruisce e realizza. “Questo procedere si snoda dalla ‘condizione data’ alla ‘direzione prescelta’, in un orizzonte di possibilità che legittima la progettazione esistenziale di ciascun soggetto, ma non la garantisce: successo e scacco hanno le stesse percentuali di probabilità e, dunque, non è perché si è certi dell’esito di un progetto che lo si elabora e lo si persegue, ma perché attraverso l’impegno del progettare – nel mondo, con gli altri – si può attribuire senso alla propria esistenza” (Contini, 2007, p. 14).

Coinvolto in un incedere cauto e prudente accanto al soggetto in crescita, l’educatore si propone dunque come il compagno di viaggio che sa accogliere i limiti dell’altro e ne promuove il superamento; in questo senso è “esigente”: esercita l’empatia per sintonizzarsi con le risorse del soggetto educativo, per intuirne il potenziale latente al fine di spingerlo fuori (ex agere, da cui esigere) dalla coltre dell’inconsapevolezza e quindi dell’inaccessibilità. Così facendo promuove quell’autoesplorazione che consente di accogliere e considerare imperfezioni e carenze, ma anche di scoprire qualità inespresse che attendono riconoscimento. Questo era il lavoro profondamente educativo di Socrate, che cercava di procurare le doglie del pensiero ai suoi interlocutori affinché uscendo da sé, dalle proprie ristrettezze mentali partorissero la verità. E questo è il lavoro, a

volte ingrato – doloroso come le doglie – non sempre efficace, come ha rilevato Lucia nella sua storia di figlia, eppure potenzialmente generativo dell’educatore.

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