• Non ci sono risultati.

Il potere nelle parole dei genitori: tre frammenti di storie

Le parole hanno il potere di dare forma al reale, di renderlo leggibile e intellegibile, di legittimarlo o censurarlo, ma anche di istituirlo, di determinare il corso degli eventi, rifondandoli, producendo svolte.

La parola violenta mortifica un soggetto incrinando una relazione, viceversa una parola caratterizzata da una tensione generativa schiude spazi di libertà e occasioni realizzative.

Attraverso il racconto di tre spaccati di storie di vita che riferiscono di un intreccio inestricabile tra eredità nascoste nei vissuti familiari (Ravasi Bellocchio, 2012) e comportamenti genitoriali scorretti, vorrei declinare il maltrattamento come espressione di violazione di diritti educativi fondamentali del soggetto. Tali violazioni esprimono un tradimento del ruolo e dei compiti connessi con le responsabilità genitoriali quale forma subdola e assai frequente di maltrattamento.

Nei casi oggetto di analisi, la parola riferisce di una relazione, né potrebbe essere altrimenti; riferisce di sovvertimenti di ruolo, di confini indebitamente valicati. Suggerisce di inquadrare il problema in una cornice più ampia rispetto a quella familiare, in relazione al “clima culturale” di un’epoca, ai ruoli educativi e alle funzioni stesse dell’educare, che, forse, se fossero meglio conosciute, comprese, potrebbero limitare l’esondazione del disagio genitoriale nelle vite dei figli sotto forma di eccessi anche “solo” verbali.

2.3.1. Un invischiamento confusivo

Le violenze più subdole sono quelle che passano inosservate, che attengono ad esempio ad una trascuratezza di certe forme di confidenza e complicità che i genitori agiscono nei confronti dei figli. Provo a spiegarmi con una situazione che mi fu riportata anni fa e che mi fece molto riflettere. La mamma di una ragazzina di diciassette anni, proponendosi come la migliore amica della figlia e incontrando la sua lusingata attenzione, aveva preso a confidarle le frustrazioni della sua vicenda matrimoniale e l’attenzione di altri uomini, a cui non si sentiva del tutto indifferente. La figlia sembrava gratificata da quelle confidenze, che pure ponevano il padre in una ignara condizione di squalificazione e disprezzo.

Un giorno la figlia, per uno screzio di poco conto con la madre, ebbe un’incontenibile crisi isterica, con manifestazioni irrefrenabili di ribellione e violenza, tanto che i genitori chiamando la guardia medica, videro la ragazza trasferita al reparto ospedaliero di “Diagnosi e cura”.

Quando il padre le andò a far visita, la trovò sedata dai farmaci e comprensibilmente poco lucida, eppure quello stato non impedì alla ragazza di raccontare al genitore tutto quello che nel tempo aveva appreso dalla madre. Quest’ultima ebbe gioco facile nel dire che si trattava del delirio connesso al trattamento farmacologico, ma in questo modo la figlia ristabilì un ordine nei ruoli che le confidenze indebite della mamma-amica avevano sovvertito.

Non si è trattato di una vera e propria violenza (per quanto le parole possano fare danni e arrecare dolore anche quando non sono offensive, come in questo caso), né di un’intenzionalità manipolatoria e soggiogatrice (quante volte i genitori, mossi da pur buone intenzioni, hanno detto ai figli: “Vorrei essere un amico/un’amica per te”?!) e tuttavia il rischio di un invischiamento confusivo indica un’invadenza indebita, una trascuratezza del diritto della figlia ad essere preservata da vicende intime tra i genitori, da una complicità che gettava discredito e squalificazione sull’altro genitore. Probabilmente gli scrupoli e il desiderio di approvazione o almeno di comprensione che la madre aveva implicitamente chiesto alla figlia ha fatto saltare i confini, e i ruoli che dovevano garantire delle distanze di sicurezza sono stati tacitamente traditi e sovvertiti.

Si tratta di una situazione eclatante nell’esito, ma non così rara nelle dinamiche relazionali tra genitori e figli. Dice infatti delle fragilità degli adulti, della loro ricerca di attenzioni, di conferme e apprezzamento da parte dei figli; i quali si trovano, così, implicati in responsabilità, aspettative e ambivalenze per le quali non hanno adeguati strumenti di gestione e soprattutto non sono nel ruolo di farsene carico.

La lusinga della complicità che produce invischiamenti e collusioni è un’attrazione a cui è difficile resistere, come si coglie anche nel racconto che segue.

2.3.2. Slealtà e complicità

In un anonimo pomeriggio di sabato, Sofia, 14 anni, si presenta in cucina pronta per uscire: è il fatidico giorno del “giro in centro” con le amiche, per il quale anche il dettaglio apparentemente casuale e trascurabile, è frutto di un’accurata valutazione. Lo sguardo della mamma cade su quel che resta di un paio di jeans, talmente sforbiciati da invitare l’occhio ad infilarsi nei generosi squarci di tela.

- “Come cambiano i tempi, esordisce la mamma prendendola alla lontana – quando ero giovane io un paio di jeans lisi erano sinonimo di ristrettezze economiche. Non che ci si vergognasse, ma se ci si vestiva per uscire, si faceva attenzione a non scegliere proprio i vestiti più logori e usati. Ora invece…”

- “Stai dicendo che non approvi come mi sono vestita?”, taglia corto Sofia.

- “In effetti credo che quei pantaloni abbiano esaurito la loro funzione. Magari usali per stare in casa...”

L’ultima frase deve aver tradito qualche preoccupazione recondita, che suscita la reazione indispettita della figlia.

- “Immagino che preferiresti vedermi vestita con una gonna sotto il ginocchio e una camicettina di pizzo o forse con un ‘tailleurino’ abbottonato. Lo dico sempre che le mie amiche sono molto più fortunate con le loro mamme e neanche lo sanno. E tu devi ritenerti fortunata ad avere una figlia come me che neanche apprezzi. Ti dico solo che quando ci troviamo a casa di Camilla e viene anche Carlotta, che ha una mamma come te, ci troviamo a discutere su come siano fuori dal tempo i vostri divieti. Pensa che una volta anche la mamma di Carlotta era talmente d’accordo con noi, che ha detto a Camilla: “Se vuoi metterti qualcosa che la tua mamma non vuole, non stare a litigare, lo infili nella borsa, vieni qui e ti cambi”. Da allora Camilla esce di casa in un modo, ma poi si cambia da Carlotta chiedendo consiglio a sua mamma: lei sì che ci sa fare…”

Giorni dopo la mamma di Sofia, incontrando quella di Carlotta, porta sommessamente il ragionamento sull’abbigliamento delle figlie, sfiorando il tema dei divieti e delle autorizzazioni. L’altra non fa cenno alle complicità con le amiche della figlia, ma più in generale conclude…: “non credo che ci

si possa più scandalizzare, oggi, di shorts e minigonne, se penso a quanto mi hanno fatto patire i miei invece…”.

Verrebbe da dire: cosa c’è che non va? La scena è talmente ordinaria da rasentare la banalità. Il contenuto di così scarsa rilevanza da non suscitare alcun clamore. Addirittura demodé, per restare in tema. E tuttavia proprio il rischio di non coglierne il disordine relazionale deve far riflettere: la mamma di Carlotta non è un’amica delle amiche della figlia, ma un’altra mamma. La sua complicità nei confronti dell’amica della figlia, indebolisce l’autorità della mamma di Camilla. Possibile che non se ne accorga? Sì, è possibile, se il desiderio di suscitare ammirazione e apprezzamento è maggiore della capacità di stare in una posizione scomoda, solidale con la mamma di Camilla, all’oscuro di quanto accade ogni sabato. Non solo: per la mamma di Carlotta la possibilità di autorizzare all’amica della figlia quanto invece le è stato negato in gioventù (“quanto mi hanno fatto patire i miei”) è l’occasione per un riscatto. Sebbene inconsapevole e tardivo. La sua condizione adulta e il suo ruolo di mamma dovrebbero indurla a sentirsi responsabile anche delle figlie di altre mamme, specie quando entrano nel suo raggio di azione. E tuttavia interferenze più forti di ogni evidenza alterano tacitamente le relazioni, sbilanciano gli scambi, inducono segreti.

In questo caso non c’è ombra di maltrattamento, né verbale né in altra forma. Le parole non suscitano sofferenza e paura, non umiliano, né offendono, non creano restrizioni distruttive, non chiudono relazioni, anzi sembrano aprire nuovi fronti di dialogo e di confronto.

Non dicono nemmeno di una relazione patologica o lesiva (i conflitti che Sofia lascia intravedere sullo sfondo rientrano in una fisiologica mediazione sulle regole come “normalmente” si dà tra genitori e figli, specie in adolescenza, e più ancora tra una madre e una figlia adolescente), né autorizzano a fare previsioni sul futuro.

Dicono tuttavia di nuovo dell’indebolimento dei ruoli, di un sovvertimento delle distanze protettive che i ruoli dovrebbero garantire, lasciando intendere che la domanda: “è giusto comportarsi così? Come onoro e avvaloro il ruolo educativo (non solo proprio, ma anche di altri genitori) e le responsabilità che comporta?” è ormai sbiadita e non svolge alcuna funzione regolativa, tantomeno etica e protettiva.

2.3.3. Una legittimazione salvifica

La terza vicenda conferma quanto esposto fino qui: la parola di un genitore (che può determinare sofferenze e confusione di ruoli, come è stato evidenziato nelle due narrazioni precedenti) è in grado di orientare scelte e comportamenti, di mettere fine a una violenza, come nessun’altra parola è in grado di fare. È una parola potente, che come sa scompigliare, può anche rimettere ordine, rivelandosi

decisiva persino in situazioni fortemente compromesse, come quella di questa storia. Protagonista è Jamilah, una ragazza di origini nigeriane, venuta in Italia non ancora maggiorenne al seguito di promesse di una vita migliore da parte di un “conoscente” di famiglia, e poi indotta con l’inganno alla prostituzione. Le assistenti sociali che l’hanno aiutata a uscire dalla “strada” ne hanno registrato alcuni pensieri in un diario professionale che è stato analizzato insieme ad altri documenti di operatori sociali in una ricerca sulle narrazioni familiari (Iori, 2008):

Sono tornata [sulla strada] perché non è facile21 … [uscirne] Quando ero andata via avevo una guerra interiore. Pensavo a quello che stava succedendo a me qui in Italia e dove vive la mia famiglia, in Nigeria. Mi ero nascosta ma avevo molta paura: paura che mi trovassero, e paura per i miei genitori. Piuttosto che vivere nella paura sono tornata indietro. Ma questa volta proprio non ce la facevo più. E ho chiamato i miei genitori: “Ci hanno detto che sei andata via di casa, perché?’ mi hanno chiesto; …guarda che ti stanno cercando, hanno chiamato anche qui. È venuto quell’uomo con cui sei andata via. Perché sei scappata? Torna indietro, torna a casa!”. Ma loro non sapevano niente. “Mamma, papà, voi non sapete niente!”. “Come non sappiamo niente, lavori, no?’; “No, non è lavoro, io sto ferma tutto il giorno in un posto per gli uomini che vengono a scopare con me”. Mia madre: “Cosa hai detto? Non ho sentito bene”. Mio padre aveva preso la cornetta del telefono e diceva anche lui: “Cosa dici?” “Sì, papà sei tu? È questa la cosa che mi fanno fare qui”. “Mamma mia, per l’amor di Maria! Non devi mai più tornare là. Stai dove sei, capito? Tu sei in pericolo, ci hanno detto che ti vogliono venire a prendere. Non dire a nessuno dove sei”. Poi ho chiamato Lorena e le ho detto che avevo veramente bisogno del suo aiuto. Allora lei è venuta a prendermi. Mi sentivo libera e adesso dormivo tranquilla perché i miei genitori sapevano e mi hanno dato la forza. Poi c’erano la mia amica Lorena ed un’altra, Roberta, che mi davano coraggio.

La parola di un genitore può fare male, ma può anche interrompere il male, come in questo caso. Le parole in famiglia hanno una forza che può cambiare, nel bene e nel male, il corso della vita di un figlio.

Al termine di questa breve rassegna di storie, si può dire ancora una volta, che è difficile stabilire con certezza, univocamente, quando la parola in famiglia maltratta: molte sono le variabili in causa (stili comunicativi, sensibilità, percezione…), inoltre è difficile stabilire gli effetti di comportamenti scorretti e offensivi negli anni, per cui una parola recepita come traumatica e rimossa o non avvertita come particolarmente squalificante al momento, può riemergere e avere effetti negativi nel tempo. E tuttavia è forse possibile azzardare alcune ipotesi: la

21 Jamilah aveva già cercato una prima volta di uscire dal circuito della prostituzione, senza riuscirci.

parola di un genitore verso un figlio inizia a degenerare (quindi ad aprire la strada al maltrattamento) quando contravviene al compito di educare, quando esprime scarsa attenzione per il vissuto del figlio, per il suo contesto di vita e per il suo cammino, quando non è avveduta circa gli effetti che può determinare nel tempo in chi la riceve, quando è indifferente al dolore che provoca, quando costituisce sostanzialmente uno “sfogo” per chi la pronuncia, e non la preoccupazione di adoperarsi per il bene dell’altro.

Il ragionamento apre a molte diramazioni, una delle traiettorie che paiono più centrate e feconde per la riflessione pedagogica è in relazione ai confini.

Outline

Documenti correlati