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Aver cura delle parole per sostenere altre versioni di sé

5.2. Quando la parola in carcere è educativa?

5.2.2. Aver cura delle parole per sostenere altre versioni di sé

Staccate dal corpo, immemori dei vissuti, sganciate dall’esperienza, le parole si dissanguano e muoiono. Ennesima espressione degli esiti annichilenti del carcere.

Come scrive Laura: “Spesso in carcere le parole si riducono all’ossessiva narrazione del percorso criminale e dell’iter processuale, diventano linguaggio

burocratico, infantilizzante, ripetitivo e, soprattutto, sono parole inascoltate. Occorre ridare autenticità e dignità alle parole e dare dignità alla persona che tali parole utilizza”.

Così anche Marco, che sembra rilevare come l’immissione di inautenticità alimenti rappresentazioni diffuse false e ingannevoli: “Le condizioni della detenzione si riflettono anche sulle parole: spesso le avverto false, stereotipate (come nel caso della lamentela sulle condizioni della detenzione, della giustificazione del reato o della lamentela per una pena ritenuta eccessiva), tese a secondi fini (compiacere il volontario, far arrivare indirettamente un messaggio positivo all’istituzione sulla propria rieducazione, inviare al gruppo messaggi impliciti o rimarcare il proprio protagonismo). Sono parole che riflettono storie di vita, relazioni con il corpo proprio e altrui. Sono parole che chiedono un contesto di ascolto, di confronto con i pensieri altrui, di incontro con le parole dei libri, che per i più risultano o inedite o, per chi è lettore abituale, significative fonti di compagnia, di riscoperta di un sé capace di pensiero ed emozioni, non solo confinato nella categoria del detenuto”.

Sono stati versati fiumi di inchiostro per ribadire che il soggetto umano non si esaurisce in una condizione fisica (differenza di genere, colore della pelle, disabilità…), in uno stato sociale (povero, giovane, sposato, disoccupato), in un orientamento sessuale, un ruolo o un’esperienza (ad esempio di migrazione). Sembrerebbe pleonastico eppure il passaggio da una concezione decontestualizzata, fondamentalista e statica dell’identità ad una relativistica, situazionale, dinamica ha segnato un cambio di paradigma epocale e una svolta culturale (Lasch, 2004; Gargani, 1985; Melucci, 1992), per quanto soggetta a non poche resistenze. Un cambiamento non ancora compiuto. Lo conferma la reiterata tendenza a identificare l’individuo con qualche sua particolarità, anomalia o azione. È quello che Goffman ha contribuito a spiegare col concetto di “stigma sociale” (Goffman, 1968). E che altri hanno rimarcato schierandosi apertamente contro l’ideologia dell’identità (Lai, 1999; Remotti, 2007, Id., 2010; Maalouf, 2005).

Il ricorso a sintesi linguistiche – efficaci per la comunicazione mediatica, immediata e “ad effetto” ma spesso dannose per il carico di stereotipi e pregiudizi a cui si prestano – di contro a più articolate e prudenti perifrasi, ha portato all’abuso di sineddoche, nella forma di una parte (condizione, ruolo, esperienza, orientamento sessuale…) per il tutto (la persona nella sua complessità e integralità). Questa prospettiva, assai poco funzionale a interpretare la complessità del nostro tempo, ma ancora più radicalmente a comprendere la complessità umana (Bocchi, Ceruti, 1994; Moravia, 1996, pp. 122-123) non aiuta a cogliere nei soggetti le molteplici sfaccettature della loro identità, tantomeno a riconoscere le loro risorse e possibilità di cambiamento. Un immigrato continua ad essere innanzitutto uno straniero, un omosessuale un “diverso”, un disabile un soggetto “da includere”:

perché nasce e rischia di crescere “fuori” dal sistema sociale, con le sue relazioni e opportunità.

E se un’ingente profusione di energie (pubblicazioni, politiche, progetti, finanziamenti) a fatica guadagna qualche grado nell’ampliamento della visuale in riferimento a situazioni che non suscitano particolari resistenze (per cui ad esempio non si fatica a riconoscere che un ospite della pediatria è innanzitutto un bambino; e che un povero, un uomo di colore, un disabile sono anzitutto persone), là dove a caratterizzare un soggetto è un comportamento riprovevole (ad esempio violento, criminale) o considerato deviante (come nel caso dell’omosessuale), scarsa o nessuna attenzione viene riservata alla valenza performativa del linguaggio e delle conseguenze che questo può avere nell’autopercezione personale (si pensi ai casi di dileggio orale o “virtuale” nelle forme del cyberbullismo, che hanno causato concretissimi suicidi) o nell’immaginario collettivo. Perciò un detenuto rimane innanzitutto un criminale, un ladro, uno spacciatore, un omicida…, un ergastolano o un “fine pena mai”. Raramente ci si ricorda che è stato un bambino, che è un figlio, forse un padre, una persona che certamente ha sbagliato, anche molto, ma che non si esaurisce negli errori commessi, per quanto aver perseverato in azioni malvagie, specie durante gli anni della formazione, induca ad abitudini difficili da sradicare62.

Nell’uso esclusivo di espressioni totalizzanti (detenuto, carcerato, galeotto, ergastolano) si consuma la sottile vendetta delle parole: reiterate condanne senza replica e senza appello, appiattimento della vita in un’ombra che non lascia margini da cui possano emergere altre versioni di sé63. La speranza di fare luce su queste altre versioni identitarie è in fondo il principio che anima l’educazione in situazioni-limite. Ma se non si ammette la possibilità di uno scarto tra il male compiuto e quello che di buono si può ancora conservare nel profondo di sé, la vita stessa diventa uno “scarto”.

Un modo – non l’unico, non sufficiente – per portare alla luce frammenti buoni di un’identità dannata è quello di iniziare a nominarli. La storia dell’umanità ha avuto origine dalla parola, non è azzardato dunque pensare che un nuovo inizio possa giovarsi di parole nuove con cui dare voce a dimensioni inesplorate di un io plurimo e sfaccettato.

Se l’essere umano è organicamente connesso al contesto in cui vive, contesto che non si configura come il contenitore esterno entro cui si producono determinati fenomeni o processi, ma come una dimensione costitutiva della stessa 62 Efficace a questo proposito è la definizione che Sergio Moravia attinge da Dilthey, secondo il

quale l’essere umano è la risultante, aperta, del suo passato personale (Moravia, 1996, p. 135).

63 Come scrive efficacemente Ferraro: “Chi sta in carcere non parla e non scrive e non si rivolge a persone, perché non è considerato persona. Non basta che uno mantenga, comunque, in vita l’altro perché l’altro sia una persona. La pena è quando non ci sono persone intorno a te” (Ferraro, in Musumeci, Ferraro, 2014, pp. 35-36).

individuazione del soggetto (Moravia, 1996, p. 122), intervenire sull’ordine simbolico – linguistico, nominale – della rappresentazione di sé, può avviare possibilità di riflessione (e forse di cambiamento) insperate, aiutando a indirizzare lo sguardo su aspetti positivi della storia personale e del profilo identitario. Non si tratta di narrazioni destinate a stabilire la “verità giudiziaria”, ma a sostenere una riflessione più ampia sulla propria vicenda, sulle sue implicazioni nella vita degli altri, portando alla luce impliciti e ombre (Musi, 2015b). Narrazioni finalizzate a contrastare la presa immobilizzante dello stigma64.

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