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Contrastare il maltrattamento verbale in famiglia, promuovere una sensibilità diffusa a

Il contesto familiare disatteso nelle sue responsabilità educative investe di un surplus di responsabilità i contesti educativi istituzionali, formali e informali.

In genere la famiglia maltrattante non chiede aiuto; anzi spesso i genitori che ricorrono a violenze verbali non ritengono il proprio comportamento particolarmente dannoso per il figlio. D’altra parte il bambino vittima di maltrattamento non è in condizione di nominare e denunciare quello che subisce. Per questo occorre che siano gli adulti della comunità in cui vivono i bambini – e in particolare i professionisti dei servizi educativi, scolastici e sociali – a “rilevare i casi di minori che patiscono e tacciono” (Cirillo, 2005, p. 15) e ancora prima, in 24 Preferisco parlare di degenerazione piuttosto che di patologia come si può essere tentati di pensare perché, al di là della difficoltà di definire una parola patologica, l’idea di degenerazione conserva quel margine di arbitrio che sta alla base di scelte e responsabilità, a differenza della dimensione patologica, in cui agenti “esterni” al soggetto (gli agenti patogeni, appunto) sono spesso invocati a giustificazione di comportamenti devianti.

un’ottica promozionale e preventiva, a rendere consapevoli i futuri genitori o i neogenitori (compito che potrebbe essere svolto ad esempio dai consultori, nei corsi di preparazione alla genitorialità, o dalle educatrici dei nidi d’infanzia) a prendere atto delle latenze presenti nell’educazione ricevuta (Musi, 2015) o dello stile relazionale vissuto nella famiglia d’origine e dei possibili “trasferimenti” nelle pratiche educative rivolte ai propri figli (Crivillé, 1995; Cirillo, Di Blasio, 1989; Cirillo, 2005).

A questo proposito le raccomandazioni contenute nel Rapporto di Save the Children sulla violenza ai minori e rivolte al Ministero della salute, al MIUR, all’ANCI, alle Regioni e agli enti locali insistono proprio su azioni di sensibilizzazione rivolte anzitutto ai professionisti della cura, affinché possano trovare nei percorsi curricolari efficaci supporti formativi sul tema del maltrattamento ai danni di “bambini, bambine e donne incinte, sui temi della diagnostica, presa in carico e recupero”. Esplicito è anche l’invito a intensificare la formazione nei confronti dei genitori, promuovendo “modalità innovative di servizio all’infanzia che contemplino la possibilità di veri e propri hub educativi, dove alla componente strettamente educativa si integri un’attività costante di sostegno e promozione della genitorialità, anche a scopo di prevenzione di comportamenti maltrattanti e violenti all’interno della famiglia” (Save the Children, 2017, p. 54).

La riflessione sulla parola in famiglia, dove la vita ha origine e la parola si investe della sua fioritura o esprime la sua forza annichilente, ha mostrato che il contesto domestico è il luogo in cui i maltrattamenti possono essere più profondi e incisivi ma al contempo che è anche il luogo più sfuggente per la ricerca e spesso impermeabile a raccomandazioni educative.

Diversa è la condizione dei contesti istituzionali, che – oltre ad essere più facilmente leggibili riguardo a pratiche, vincoli, culture organizzative e norme, visibilizzate in codici, autorizzazioni e divieti formalizzati – possono incaricarsi di aumentare l’attenzione e il rigore riguardo all’uso accorto delle parole, contribuendo a creare una cultura e una sensibilità diffuse, in grado forse di aumentare anche il livello di sensibilità e attenzione in famiglia. La trascuratezza relazionale, il ricorso a forme verbali mortificanti, l’indifferenza ai vissuti altrui, sono comportamenti radicati nel quotidiano, e creano le condizioni per atti via via più gravi (derisione, bullismo, cyberbullismo, stalking…).

Per questo è quanto mai urgente e necessario iniziare a riconoscere e contrastare i germi della violenza nelle relazioni interpersonali quotidiane, a partire dai servizi educativi, dalla scuola e nell’incontro con i genitori.

Quando la scena pubblica (programmi televisivi, pubblicità, addirittura l’agone politico) ricorre a - e indirettamente legittima – espressioni volgari nei rapporti interpersonali, concorre ad un generale degrado relazionale, proposto e alla fine

accettato, come inevitabile, abbassando il livello della sensibilità e dell’indignazione (Priulla, 2014).

Riportare l’attenzione sui modi degli scambi interpersonali, comunemente ritenuti questione di pura forma, contribuisce invece significativamente alla loro sostanza.

Politiche sociali e familiari illuminate dagli studi sulle conseguenze del maltrattamento verbale possono contribuire ad un cambiamento nei vissuti e nell’ordine degli scambi comunicativi, immettendo negli ambiti diversificati della vita individuale e collettiva un pensiero più accorto e consapevole.

Abbiamo iniziato a leggere e a decostruire dinamiche lesive e dolorose nelle trame familiari, ma questo è solo l’inizio di un lavoro lungo da perseguire con costanza, che chiama in causa la coscienza e il fattivo contributo di tutti. Tali interventi, e la cultura che li sottende, possono concorrere a bonificare sacche di sofferenza nei rapporti familiari tra le generazioni, in un tempo in cui la violenza pare pervasiva e diffusa nella quotidianità (si pensi al drammatico aumento di violenze ai danni delle donne, oltre a quelli verso bambini/e e ragazzi/e). Come suggerisce Mario Schermi in una riflessione che interseca il maltrattamento e l’educazione, “se occorre un pensiero per la decostruzione, ne occorre anche un altro per la ri-costruzione” (Schermi, 2016, p. 171).

Seconda parte

Fondamenti teoretici

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L’orizzonte epistemico della ricerca:

l’orientamento fenomenologico in prospettiva pedagogica

La cecità rispetto alle idee è una sorta di cecità dell’anima; a causa di pregiudizi si è divenuti incapaci di trasferire sul piano giudicativo quello che si possiede nella sfera dell’intuizione

E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una

filosofia fenomenologica

“Noi non pensiamo da nessun luogo, ma dal perimetro di una rete di costruzioni simboliche ben definite; pensiamo a partire da una ringhiera di idee” (Mortari, 2002, p. 70). Queste idee si formano nell’ambiente umano e culturale in cui si cresce, soprattutto in quella nicchia costituita dalle relazioni più importanti, e funzionano quale matrice di un’auto-eco-poiesi che porta ad assumere come evidenti i “presupposti taciti” da cui scaturisce il pensiero. Intraprendere un percorso di studio vuol dire anzitutto disporsi a interrogare quelle inclinazioni della mente che rischiano di rimanere non osservate mentre esercitano un forte potere performativo sul processo di elaborazione dei mondi di significato. Vuol dire rilevare come il modo con cui si abita l’esistenza, con cui ci si rapporta alle sue questioni fondamentali incide sulla ricerca di una costruzione teorica del sapere e della conoscenza in grado di comprendere quelle posture di pensiero. E dichiararlo apertamente. Significa infine cogliere l’occasione per coltivare un movimento autoriflessivo e di “autorischiaramento” (Husserl, 2002a, p. 297) con cui confermare o rivedere gli strumenti attraverso i quali l’esistenza diventa narrabile. Se la ricerca non è mero esercizio di competenza intellettuale ma una delle forme

con cui si interpreta la vita e, mai come in questo caso, si assegna valore alle parole, dichiarare da quale “ringhiera di idee” ci si sporge sull’esistenza quando la si osserva, è la prima operazione di carattere metodologico che occorre compiere poiché esplicita la posizione del ricercatore nella costruzione della conoscenza, e al contempo introduce i presupposti ontologici della ricerca (nomina la natura delle cose), etici (ne ipotizza il dover essere), epistemologici (individua ed esplicita i criteri con cui stabilire la verità) e politici (prefigura ipotesi di mondi desiderabili e possibili).

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