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Ristabilire i confini: prima forma di tutela e protezione

La fine degli anni Sessanta, coi suoi movimenti contestativi ed emancipazionisti ha segnato uno spartiacque nella storia della famiglia e dei rapporti tra le generazioni. Si è passati da una “famiglia etica e normativa” a una “famiglia affettiva” (Pietropolli Charmet, 2012, p. 200; Scabini, Cigoli, 2000; 2012). La prima caratterizzata da un’autorità indiscussa del padre e dalla trasmissione di valori, norme e stili di vita alle generazioni discendenti; la seconda fondata sugli affetti più che sulle regole e le sanzioni.

Mentre nella famiglia etica la preoccupazione dei genitori era sostanzialmente quella di fornire principi e indicazioni per favorire l’ingresso nel mondo da parte dei figli, preparandoli ad una vita di fatiche e sacrifici; nella famiglia affettiva la maggiore preoccupazione dei genitori è quella di favorire la realizzazione e la felicità dei figli, risparmiandoli da tutto ciò che potrebbe turbarle (Pietropolli Charmet, 2000).

L’educazione nei due sistemi e ordini sociali è nettamente differente: nel primo caso si fonda su un’etica della responsabilizzazione, nel secondo sull’autorealizzazione (Lanz, Iafrate, Marta, Rosnati, 1999; Lanz, Iafrate, Rosnati, Scabini, 1999; Claes et al. 2005), con differenti conseguenze riguardo all’autostima, alla prevenzione e al contrasto di depressione e irritabilità, alla percezione di una vita soddisfacente da parte dei figli (Alfieri et al., 2014, pp. 61-78).

Genitori eccessivamente concilianti e accondiscendenti disattendono un’educazione alla responsabilità e all’impegno, necessari per introdursi nella vita adulta (Maiolo, Franchini, 2003; Vallario, Giorgi, Martorelli, Cozzi, 2005), finendo con l’indebolire i figli, sempre più incapaci di accettare ed elaborare rifiuti, sacrifici e frustrazioni.

E così, oscillando tra ipercelebrazioni e oblio, i figli di oggi rischiano di essere abbandonati a se stessi, alle prese con un universo respingente del quale percepiscono di non possedere le chiavi. Un universo ostile e un tempo cupo che

non riescono ad assumere con convinzione e protagonismo e in cui faticano a collocarsi. Diventano essi stessi un’ombra.

Su di loro pesano come macigni le aspettative della società e del futuro.

Essi si trovano, così, ad avere il compito di risplendere nella loro singolare individualità quando ancora non hanno gli strumenti per capire se stessi e il proprio posto tra gli altri.

Da figli del desiderio (Gauchet, 2010), bambini e bambine, ragazzi e ragazze sono diventati il risultato di una volontà ingegneristica che continuamente si ridisegna in funzione dei progetti, delle aspirazioni, delle mancate realizzazioni dei genitori.

Quando i ruoli si confondono, si sovvertono, colludono non è solo un principio d’ordine che salta, ma gli spazi vitali che fagocitano, si comprimono, annientano, creano mostri…

La riflessione sui confini, sui loro spostamenti che squilibrano le relazioni, riferisce di una dominanza del soggetto educativo a fronte di una malcelata fragilità dell’adulto con responsabilità educative. Così ne parla Mario Schermi a proposito della controversa relazione tra educare e punire: la punizione gode oggi di uno scarso credito pedagogico, senza che vi sia alcun confronto sul suo valore regolativo: “Negli ultimi decenni segnati in pedagogia dalla più marcata centralità del crescente22, dalle più sicure tecnicalità delle scienze dell’educazione e dalle più sospettose prospettive critiche […], gli ‘orientamenti regolativi’ delle educazioni (comprese le pratiche punitive) sono apparsi più sfumati, se non anche cancellati, sotto il peso delle preoccupazioni circa le eventuali derive autoritarie, dirigistiche, normative a cui potrebbero essere esposte le esperienze del crescere a cura educativa. E così, mentre il mondo prende congedo dagli dei, dalle ideologie, similmente nel perimetro pedagogico dei mondi domestici (famiglia, scuola) si segnala la scomparsa dei codici normativi, delle funzioni regolative, dei ‘padri’” (Schermi, pp. 130-131, corsivi nel testo).

Creare un confine è un compito di cura, che tutela e preserva, è un atto generatore di realtà, che dà forma al mondo introducendo una discontinuità dove prima c’era omogeneità, è un atto di forza ma anche di conservazione della vita di fronte all’anarchia che produce rischi.

Zygmunt Bauman diceva che nella contemporaneità si ha la sensazione che vengano attivati molti giochi simultaneamente e che durante il gioco cambino le regole di ciascuno (Bauman, 1999; cfr. inoltre Augé, 2007).

Siamo lentamente scivolati in una vertigine quotidiana in cui dobbiamo continuamente rinegoziare tutto. Abbiamo puntato alla conquista di una libertà

22 L’Autore definisce “crescente” il soggetto educativo in crescita, e in nota specifica: “In quel cammino che dal puerocentrismo degli inizi del Novecento conduce fino alla formulazione di una ‘pedagogia dell’ascolto’” (ivi, nota 1).

sempre maggiore (le grandi avventure colonialiste, i moti contestativi, il Concilio Vaticano II…), per cui ci sentiamo vertiginosamente liberi e pensiamo che tutti gli ostacoli siano esterni. Questo porta a pensare che la libertà come assenza di vincoli e legami sia sempre qualcosa di positivo, di auspicabile, da perseguire e garantire. Le regole, i limiti, i confini paiono un attentato alla libertà e per questo sono continuamente messi in discussione.

Questa condizione alimenta il disorientamento e l’incertezza e riguarda tutti: cittadini, genitori, educatori, insegnanti. Anche i bambini. Un tempo le regole si esprimevano sotto forma di appartenenze a istituzioni, di cui si assumevano i codici di comportamento e riconoscimento, ora tutto questo va continuamente rifondato.

Dare troppo valore alla libertà come possibilità di s-confinamento produce condizioni ingestibili nelle relazioni: i genitori delegano e poi controllano educatrici e insegnanti; si propongono come guide dei figli dai quali si attendono però continue conferme e approvazioni; gli insegnanti limitano il confronto con le famigli su questioni tecnico-disciplinari (legate ai processi di apprendimento, all’acquisizione di competenze, ai successi e agli insuccessi nelle prestazioni), nella difficoltà di prendere esplicita posizione sui temi relativi all’educazione.

Ma la libertà è innanzitutto interdipendenza matura e responsabile (Hoffmans-Gosset,1994), riconoscimento di relazioni. Nessuno è libero in assoluto, sciolto da ogni vincolo.

Educare oggi implica la fatica e il compito di ricostruire continuamente i contesti, che non sono più dati, ma da riconquistare ad ogni passo.

Ridefinire i confini è un’arte collettiva, ha a che fare con la costruzione della polis, con la realizzazione di una trascendenza che governi: ponga norme, gerarchie, non come sfruttamento degli uni ai danni degli altri ma priorità di obiettivi e organizzazione funzionale a conseguirli. Gerarchia deriva da ieros: sacro e indica un aspetto della struttura della coscienza, legato allo sforzo di creare un mondo che abbia significato. Un significato condiviso, su cui costruire la coesione e l’ordine.

Occorre che ognuno si prenda cura del “noi”. Diversamente la vertigine crea violenza. Se non si ha il senso del collettivo è difficile gestire i confini (e gli inevitabili conflitti). Quando ci si orizzontalizza nelle relazioni – anche e soprattutto in quelle formali, istituzionali, tradizionalmente gerarchiche, ma anche in quelle “private” familiari – non si riconoscono più le differenze, e sfumano le condizioni del debito e del credito, della riconoscenza e della restituzione (Stoppa, 2011).

La caduta delle gerarchie, della verticalità delle relazioni ha indebolito i limiti del rispetto. L’indifferenziato – processo che va al di là delle intenzioni individuali – è disfunzionale al principio d’ordine nell’esistenza individuale e collettiva: non si

riesce a regolamentare nulla. Va dunque ripristinata qualche forma di autorità e di gerarchia riconoscendo all’educazione un valore collettivo.

Da questo sguardo a quanto è accaduto intorno a noi, è possibile scendere all’interno di noi, attraverso le parole dello psicoanalista Massimo Recalcati: “il nostro tempo è il tempo della crisi simbolica della funzione dell’autorità genitoriale. […] è il tempo dell’ “evaporazione del padre”, perché è il tempo dell’ “evaporazione della Legge della parola” come ciò che custodisce la possibilità degli umani di vivere insieme. I sintomi di questa evaporazione sono sotto gli occhi di tutti […]: difficoltà a garantire il rispetto delle istituzioni, frana della moralità pubblica, eclissi del discorso educativo, caduta di un senso della vita condiviso, incapacità di costruire legami sociali creativi, trionfo di un godimento sganciato dal desiderio… è un indebolimento del senso della Legge che ha come suo tratto fondamentale quello di sostenere la vita umana che è imprescindibilmente caratterizzata da mancanza, e senso del limite, da una impossibilità di autosufficienza. […] La legge della parola non abolisce le asperità delle relazioni umane, ma rende possibile la loro inclusione in un discorso” (Recalcati, 2016, pp. 59-62).

La Parola, intesa come il divieto edipico, l’autorità simbolica, l’ordine… dirime le relazioni, stabilisce priorità, fonda la civiltà, orienta i pensieri e le energie, finalizza le esperienze in un progetto di senso. Ripristinare il senso dell’autorità non è affliggere i bambini con un’educazione minacciosa e punitiva, ma dare direzione alla loro esuberanza pulsionale, emotiva e cognitiva. È offrire un limite (l’holding di cui parla Winnicott, 1990, p. 121), un “ponteggio”, un’impalcatura (scaffold) affinché possano organizzare proficuamente le proprie risorse (scaffolding). Queste due chiavi di lettura (autorità e limite) aiutano a individuare uno dei compiti prioritari dell’educazione in questo tempo: un compito che è necessario aver chiaro all’interno del proprio ruolo educativo, per costruire un’alleanza effettiva ed efficace, rispondente ad un bisogno realizzativo profondo, in cui individuale e collettivo convergono.

2.4. Un cambio di prospettiva necessario: dalla parola che maltratta alla

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