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Essere attenti alle parole, espressione di cura della relazionalità costitutiva

3.2. Orientamenti di un’epistemologia pedagogica fenomenologico-esistenziale

3.2.5. Essere attenti alle parole, espressione di cura della relazionalità costitutiva

dell’essere

Le parole rivelano il nostro rapporto con l’esistenza, dicono di derive e smarrimenti o al contrario di brillanti signorie e fiere padronanze. Le parole denunciano la posizione del soggetto rispetto alla sua stessa vita, e sempre le parole rappresentano possibili varchi con cui contrastare chiusure, isolamenti, solitudini, disagi (Lai, 1993).

Mancare di parole con cui dire di sé, del proprio rapporto col mondo, è mancare di presa sul reale.

Il patrimonio verbale di cui disponiamo per dire il mondo, ci definisce.

Le parole che immettiamo nella relazione, contribuiscono ad alimentarla o a mortificarla, e nel contempo delineano il nostro profilo, la nostra identità.

Ci sono parole che aprono prospettive e parole che chiudono, parole che danno aria, ossigenano, parole definitive e parole sospese, che dilatano gli orizzonti, sfuocano i contorni del presente perché altre forme di vita – più adeguate e fedeli ai moti di espansione del sé, del divenire – possano rivelarsi.

Dopo un incontro, una condivisione ciò che resta non è solo il ricordo dei volti, dei gesti, del luogo, impregnati di una coloritura emotiva che ne accentua la significatività, ma sono le parole – e qualche volta i silenzi – a rendere la reminescenza ulteriormente loquace. Esse costituiscono un’estensione della presenza, dilatando il tempo e lo spazio della con-presenza.

Un’estensione della presenza avviene non solo tramite la memoria, di cui le parole si incaricano e sollecitano, ma nella percezione delle molteplici identità che albergano il sé e che si rendono “visibili” attraverso il processo di nominazione. Dare un nome ai molti io che convivono in noi, consente di scoprire versioni insospettate della personalità, permette all’identità di articolarsi entrando nelle pieghe del mondo e scorgendovi direzioni di percorrenza.

Attraverso le parole, dunque, è possibile schiudere nuove ipotesi di sé che suscitino la nostalgia di un poter essere appena intravisto e via via sempre più definito e desiderabile.

Chi sceglie di dedicarsi ai compiti educativi e di cura, lo fa ponendo anzitutto attenzione alle parole con cui il soggetto rappresenta se stesso e il rapporto con la realtà che lo circonda. È dal racconto che si coglie la sua centratura nell’esistenza o la sua marginalità, il suo protagonismo o lo sfinimento di un vivere che è resa alla

corrente, sopraffatto da sferzate e scuotimenti a cui non riesce a tenere testa. Aver a cuore le sorti di qualcuno tanto da avventurarsi con lui in una relazione sincera – che implica per i soggetti coinvolti una messa in discussione di sé, un cambiamento – richiede la disponibilità a farsi concavi per accogliere, a fare spazio nei pensieri, nei sentimenti, nei progetti alla presenza dell’altro (Cavalieri, 2007), a intrecciare la trama della propria narrazione con quella altrui.

La cura delle parole – proprie, con cui ci si rivolge all’altro; e dell’altro, nella testimonianza comunicativa con cui egli si rende leggibile – esprime ad un tempo la capacità di affacciarsi su altre storie, altre biografie, oltre i propri consueti paesaggi, al di fuori dei territori più familiari e rassicuranti, e di esporsi all’ignoto, all’imprevedibile, al rischio di perdere l’equilibrio garantito dal mantenersi fedeli al proprio baricentro.

D’altra parte non si riesce a capire l’epistemologia particolare di un soggetto se non si colgono le sue categorie mentali, e per far questo occorre calarsi nel suo mondo, coglierne il sistema delle percezioni, delle rappresentazioni, dei dispositivi semantici, delle coloriture emotive.

Il linguaggio è questo dispositivo situazionale-esistenziale, poiché consente alla persona di collocarsi nell’ordine simbolico dell’esistenza, in cui la vita di ognuno si rende narrabile in una fitta trama di interdipendenze e reciprocità. Accogliere l’altro attraverso l’ascolto significa consentirgli di annidarsi nei nostri pensieri, trattenere il ricordo non oleografico della sua presenza, e a quello rivolgere un’attenzione interrogante.

Paulo Freire, che vedeva nella parola la possibilità di iniziazione e realizzazione umana, ovvero la possibilità di dare un nome al mondo umanizzandolo e di coltivare un pensiero critico con cui liberare oppressi e oppressori da una logica disumanizzante per entrambi, scrisse che “per un’educazione concepita come pratica della libertà il dialogo comincia non quando l’educatore/educando si trova con gli educandi/educatori in una situazione pedagogica, ma piuttosto quando quello si domanda su che cosa dialogherà con questi” (Freire, 2011, p. 83). In quel domandarsi che anticipa l’incontro, le parole fanno spazio all’altro, e creano un’attesa in cui troverà posto la sua presenza.

Aver cura delle parole nella relazione educativa, significa allontanare ciò che ingombra per dare ascolto alla differenza, a contrasto dei “condizionamenti psicologico, socio-politici e culturali da cui l’individuo è pressato nella sua realtà storica e in ogni aspetto del quotidiano” (Bertin, Contini, 2004, p. 29).

Accogliere l’altro componendo con le note della sua esistenza una partitura a due voci, è condizione di partenza ma non sufficiente per realizzare una relazione autenticamente educativa. La presenza e le parole ricevute chiedono di essere ricambiate, ovvero restituite arricchite da una “differenza” di vita, o da una riflessione in cui l’altro possa riconoscersi, rispecchiarsi e, rivedendosi,

confermarsi o divergere dalle scelte compiute. Ancora, attraverso le parole è possibile presentificare nuove versioni del soggetto che gli risultino desiderabili, bagliori di un sé possibile sulle cui tracce mettersi in cammino. Si tratta di ritratti promettenti per i quali si è trovato un alfabeto, momenti trascendenti di apertura imprevista.

Le relazioni autenticamente educative scavano in profondità e lì depositano immagini, insegnamenti, parole che continuano a pulsare, ad accendere nuovi pensieri, a suscitare emozioni, a ispirare decisioni, comportamenti, progetti, a dare forma alla vita anche quando le vicende dell’esistere sciolgono la relazione senza tuttavia dissolverne il ricordo. Anzi proprio l’assenza rende ancora più incisiva la memoria, lo scambio, gli apprendimenti.

L’assenza distilla la memoria in comprensioni essenziali e guadagni esistenziali, evidenziando ciò che resiste agli urti del tempo e dà seguito al dialogo interiore contrastando l’oblio.

Disporsi ad una relazione educativa significa accogliere l’altro consentendogli di annidarsi nelle emozioni e nei pensieri, trattenendo l’eco avvolgente delle sue parole.

L’altro si annida in noi attraverso l’impressione che la forza della sua esistenza, la particolarità della sua storia, l’impressione che i suoi silenzi lasciano nella nostra interiorità, modificando la percezione del mondo che ci circonda, dell’umanità particolare di cui facciamo esperienza.

Le parole che ci affida in custodia rappresentano un fascio di luce della sua presenza che ci attraversa. Consentire loro di scendere al fondo della nostra interiorità vuol dire accompagnarle nel superare lo stadio della reattività istintiva e meccanica, della razionalità strumentale e performativa fino ad incontrare le facoltà di un sentire che si identifica con l’ordine del cuore (De Monticelli, 2003), essenza etica e profetica dell’umano.

In questa profondità, in cui l’umanità particolare di ognuno incontra e si riconosce in quella universale di tutti, il vissuto altrui diviene trasparente, intuibile a chi lo accosta con “premura e devozione” (Heidegger, 1976, p. 248). È questa l’esperienza di comprendere e sentirsi compresi, per la mediazione delle parole.

Connessa alla capacità di accogliere, la parola che si incarica di una valenza educativa è una parola arrischiata, che favorisce l’emergere dell’unicità dell’interlocutore, proponendosi come strumento critico, demolitore di luoghi comuni e precomprensioni che standardizzano i rapporti e predefiniscono le aspettative46.

È una parola che agisce una forza destabilizzante e creativa nei confronti del sé,

46 “Il nuovo, il progettato, rispetto alla stereotipia ripetitiva del disordine e della dispersione esistenziali, possono affermarsi solo attraverso una tensione che apra le maglie del tessuto esistenziale e razionale. E per questo il mutamento è anche sofferenza: perché esso esige che si costruisca su un terreno in qualche modo liberato” (Bertin, Contini, 2004, p. 40).

dell’altro e del sistema di relazioni che il soggetto stabilisce. È una parola inattuale, una parola “porosa” (Mortari, 2002, pp. 120-122), permeabile, continuamente sospinta da un’irrequietezza problematizzante, da pluralità, complessità, contraddizioni, lacerazioni. Combatte la ripetitività e la noia, l’apatia e l’indifferenza, la banalità che appiattisce l’incontro e spegne lo sguardo. È una parola di soglia eppure capace di attraversamenti, critica in quanto “inquieta e inquietante quanto mai, in perenne ricerca di strade nuove, ‘differenti’, non sistemabili nel sapere concettuale” (Bertin, Contini, 2004, p. 39), che percepisce la crisi come ampliamento di orizzonti, messa alla prova, provocazione.

È una parola non pacificatrice ma nemmeno istigatrice, misurata e capace di tollerare le eventuali conflittualità emergenti da potenzialità differenti. È votata alla sperimentazione comunicativa, in questo senso è sempre giovane, costitutivamente immune da sclerotizzazioni e irrigidimenti. Schiude all’interesse per l’altro verso il quale la sospinge la passione per l’umano nella fiducia di poter comprendere anche le situazioni più inconsuete e lontane.

Vivere la parola come strumento educativo, significa conservare l’indicibile che sta al cuore di ogni discorso, recedere da smanie definitorie con cui ridurre l’esperienza nelle consuete misure linguistiche.

Come l’essenza dell’esistenza affonda le proprie radici nell’irriducibilità del mistero, così l’indicibile della parola educativa è l’anima in cui si custodisce l’inedito.

Terza parte

Fare ricerca con interlocutori esperti

della parola (educativa)

4

Il disegno di ricerca

Ogni ricerca avviene sempre dentro la cornice di un paradigma, da intendersi come un insieme di assunzioni o premesse che ‘guidano l’azione’ epistemica

L. Mortari, Appunti di epistemologia della ricerca pedagogica

Poichè la ricerca non comincia con un metodo a priori ma con un problema specifico, è il problema che determina il metodo

De Giacinto, Educazione come sistema

Se una ricerca non ha connessione alcuna con i problemi delle pratiche educative non appartiene all’ambito della ricerca pedagogica

M. Baldacci, Metodologia della ricerca pedagogica

A lungo si è ritenuto che per realizzare una ricerca pedagogica propriamente scientifica fosse necessario adeguarsi ai modi delle scienze fisiche applicate all’esperienza dei soggetti, secondo il paradigma positivistico.

Poi la constatazione che questo modello di ricerca non permette di comprendere adeguatamente i fenomeni dell’esperienza umana, ha portato alla progressiva affermazione della ricerca qualitativa, con cui conseguire concettualizzazioni rigorose, affidabili e in quanto tali “certe”: non desumibili da procedure algoritmiche, ma altrettanto valide. Come scrive Chiara Sità: “La ricerca qualitativa, per la quale non sono applicabili le forme di controllo e

standardizzazione proprie delle inchieste e delle ricerche sperimentali, non è tuttavia un approccio ‘antimetodico’, ma richiede l’adozione di una razionalità che consenta di condurre processi inferenziali che portino a risultati giustificati, fondati su criteri condivisi e non vincolati ad angolature parziali o soggettivistiche. In assenza di questo tipo di attenzione, si rischia di produrre un sapere sterile e autoreferenziale, impossibilitato al confronto con altre epistemologie e conoscenze” (Sità, 2012, p. 33).

La ricerca scientifica riferita all’umano si è dedicata con un crescente interesse ai modi con cui studiare l’esperienza soggettiva, cercando di cogliere i fenomeni non dal punto di vista del ricercatore, ma dalla prospettiva dei soggetti e delle loro visioni del mondo. Questo anche nell’ambito delle scienze dell’educazione, con l’obiettivo di costruire una conoscenza pratica, da assumere come guida per l’agire. “Ogni forma di educazione, infatti, implica un lavoro con l’esperienza dei soggetti e richiede di accostarsi al loro sguardo e alla loro prospettiva sul mondo” (Sità, 2012, p. 9).

Il lavoro di indagine e di costruzione della conoscenza descritto nei capitoli che seguono si inserisce nel solco della rilevazione qualitativa, in relazione alla quale vengono qui enunciati e problematizzati i principi epistemici a fondamento di un metodo rigoroso per la ricognizione pedagogica in chiave fenomenologica.

La ricerca di matrice fenomenologica guarda all’esperienza soggettiva e alla sua significatività intersoggettiva, da cui discende l’individuazione e la descrizione delle strutture di esperienza (Robinson, 2014).

Un percorso di conoscenza condotto con queste modalità si presta efficacemente a illuminare e sostenere il discorso educativo, inteso innanzitutto quale processo continuo di riflessione e confronto tra le prospettive di diversi soggetti sul significato delle esperienze che essi realizzano.

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