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Sorprese e guadagni imprevisti

5.1. Un focus group per sollecitare il co nfronto sulle potenzialità della parola

5.1.6. Sorprese e guadagni imprevisti

Raccontare, dare voce ai vissuti, scrivere insieme… sono modi per pensare con gli altri, “tirandosi fuori” (Iori, 1988, p. 53)59 rispetto al senso comune e scontato delle cose, rispetto alle condotte abitudinarie e irriflesse, rispetto al mondo impersonale del “si dice” e del “si fa” (la condizione neutra, inautentica dell’Esserci “nel mondo comune, scoperto al livello della medietà”, Heidegger, 1976, p. 166).

59 “Solo all’uomo appartiene la possibilità della esistenza come ex-sistere (cioè ‘uscire-sa’, oltrepassare la realtà situazionale verso la possibilità) nei modi (esistenziali) di progettarsi il proprio poter essere” (Iori, 1988, p. 53).

La parola rende visibili rappresentazioni che possono essere scambiate. Questo attiva un sistema di interazioni, in cui ognuno ha qualcosa da portare ricevendone in cambio riconoscimento e dignità. Chi non vive in carcere è investito della responsabilità di farsi testimone di quanto ha visto e percepito. I testi diventano così una sorta di lascito testamentario da parte di chi non può uscire.

Carla: “Sento fortissima la responsabilità di gestire i laboratori di narrazione orale e scritta perché sono convinta che chi anima questi momenti complessi debba essere robusto per accogliere quanto succede. Personalmente non mi emoziono mai fino ad arrivare alle lacrime. Sento di essere lì, pienamente ferma per accogliere l’onda emotiva che si alza. Ma so che devo ‘tenere’. Le persone osano quando sanno che qualcuno li potrà contenere. Questa è la responsabilità più forte e cogente. A volte intuisci che quella scrittura semina indizi ma più di tanto non puoi spingerti a chiedere, perché quei sassolini portano in un posto in cui non si può andare. Occorre capire fin dove si può osare, dove ci si deve fermare. La scrittura non è finalizzata a indagare la storia, ma a dire: ci siete, non siete dei numeri”.

Le parole e il silenzio di chi ascolta istituiscono dunque limiti difensivi, esprimendo la saggezza di lasciar essere quel tanto che si può contenere, condividere, osservare insieme: la prefigurazione di conseguenze possibili, per le quali non ci sono forse parole adeguate.

In carcere si rischia di diventare invisibili, relegati in un luogo chiuso, sottratti alla vista, dimenticati. Isolati dai familiari, magari impossibilitati a presenziare alle visite. E allora la solitudine diventa assoluta e inappellabile, come racconta Brunello: “Una volta in cui il carcere apriva a pranzo alle famiglie degli esterni, avevo chiesto a mio figlio di 25 anni, capo scout, se voleva venire. Ci siamo seduti ad un tavolo di persone che non avevano i parenti a trovarli. Abbiamo mangiato insieme. Non si può immaginare una situazione del genere: solitudini assolute”.

Lo sguardo di chi sostiene con benevolenza, di chi resiste alle pressioni del silenzio e dell’invisibilità, può rimettere al mondo, custodire la vita e la dignità. Come sostiene Roland Barthes: senza uno sguardo che sa impreziosire, tutto diventa opaco e muto frammento (Barthes, 1979, p. 61). La narrazione è traccia di questo presidio, è memoria di sguardo umanizzante.

Chi fa spazio a narrazioni si assume il compito di aiutare a vedere l’invisibile; al contempo esplorando i sentieri dell’esistere – fin dove è permesso, come avverte Carla – attraverso l’ascolto e la parola, aiuta a cogliere nelle cose quanti più significati possibili, fino “a leggere la vita in una maniera che comprenda il maggior numero di possibilità” (O’ Connor, 2010, p. 67).

Nell’oscurità di una domanda senza risposta, di una solitudine che attenta ai legami affettivi, di una concentrazione di condizioni alterate e disumane, la parola narrativa spinge a vedere più in là, in una regione interiore, dove è possibile

ospitare e patire le domande, i silenzi, gli aneliti di felicità, la speranza che ri-significa il tempo dilatato e insensato del carcere (Musi, 2017).

La parola organizzata in un discorso o in una scrittura risponde alla necessità di fare ordine, soprattutto là dove questioni destinate a rimanere irrisolte o quanto meno intricate, interrogano la vita tanto da scompigliarla continuamente.

La scrittura è trasgressione e provocazione: chiama il reale a manifestarsi al sentire e traduce il sentire in un altro ordine di realtà: quello simbolico delle parole, che porta nell’ordine del leggibile ciò che ha radici altrove. Un ordine che muta lo sguardo sulle cose ed è pertanto trasformativo.

La scrittura induce e accompagna, visibilizza, consolida il cambiamento a fronte della naturale propensione a ritornare all’ordine conosciuto delle cose (il noto esercita infatti una forza d’attrazione che contrasta l’affermazione del nuovo, anche quando questo è motivo di scoperta positiva e arricchimento).

Scrivendo, disponendosi cioè a cambiare sguardo sulle cose, non si incide nel vissuto dell’altro ma nella qualità della relazione che con lui si instaura. Anche questo fa del lavoro sulla parola un investimento formativo.

Scrivere è in-scrivere: trovare spazio in sé – tra sé – per una parola che dilata le pareti del mondo interiore. La vitalità della scrittura sta in quel “tra” che calca gli interstizi di uno stare-attraverso: tra il mio mondo e quello altrui, tra il dicibile e l’indicibile, tra la luce e l’ombra.

Scrivere, soprattutto quando si riferisce al sentire, è tra-durre. Condurre l’indicibile ad una forma che permetta di starne al cospetto.

L’indicibile non si piega alle parole, ma si lascia lambire. Come scrive Benjamin “tradurre è una forma” (Benjamin, 1995, p. 40), nella forma si rende intuibile una storia, che trova spessore nella pienezza di un senso collocato sempre al di qua e al di là delle parole.

Le parole sono i modi cangianti con cui gli umani interpretano la vita, vi stanno dentro (inter). È sempre Benjamin a scrivere: “solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia al concetto di vita” (ivi, p. 41).

Scrivere di sé, scrivere della relazione che incornicia la soggettività, implica la fatica di uscire dall’anonimato e dall’ombra, comporta il coraggio di assumersi la responsabilità del proprio io mancante, parziale: “Per riconoscersi unico o unica, singolare manifestazione di soggettività, è necessaria sia la capacità di identificarsi che di accettare la propria parzialità: irripetibile io tra altri irripetibili” (Mapelli, 2004, p. 98).

Parlare, scrivere di sé esprime la ricerca della propria voce, della propria corda unica e originale, il proprio stile con cui interpretare l’esistere.

La scrittura è ricerca di nessi, di legami, funge da strumento “meditativo” che fa sintesi, seleziona, costruisce orizzonti simbolici in cui sia possibile abitare. Tiene in

contatto la dimensione individuale e quella sociale, poiché consente di stare in quello che accade, che ci accade. Prendendone consapevolezza, modificandolo, forgiandolo in un divenire non solitario, ma memore dell’essere insieme, impegnati in un cammino comune. Dentro e fuori dal carcere.

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