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L’ontologia relazionale del soggetto al cuore dell’educazione

3.2. Orientamenti di un’epistemologia pedagogica fenomenologico-esistenziale

3.2.4. L’ontologia relazionale del soggetto al cuore dell’educazione

Poichè si viene al mondo quale frutto di una relazione, la relazione costituisce l’essenza e la struttura profonda dell’essere umano, la condizione del suo divenire e del suo sviluppo. Non si è soli nell’apprendere ciò che serve a vivere, né si può prescindere da una relazione per imparare a conoscersi, immettendo nell’incontro con gli altri ciò che proviene dal profondo di sé.

tra quanto apprende nelle incessanti interazioni con il mondo circostante, e quanto non può che affrontare in una immediatezza solitaria (il rapporto col proprio corpo, con il dolore, con la morte, con le scelte fondamentali della vita…)43.

C’è un movimento circolare tra questi due piani della soggettività che si sviluppano in una duplice direzione: introversa, cioè rivolta al proprio mondo interiore, ai propri “paesaggi dell’anima” Galimberti, 1998)44, ed estroversa, orientata al cospetto degli altri.

L’ampiezza dei paesaggi interiori sostiene e alimenta la profondità con cui lo sguardo porta l’io fuori dai propri confini fisici incontrando l’alterità e tornando a sé più arricchito.

Il pensare e il sentire che si limitano allo spazio intrasoggettivo, si depotenziano, perdono linfa vitale (la quale può passare solo dove ci sono canali di connessione, in un sistema chiuso non c’è ricambio né stimoli vitali), e alla fine annichiliscono. Mentre ciò che muove gli umani a interagire è la volontà di rispondere ad un innato desiderio di unione, “l’unico capace di sconfiggere la tentazione della solitudine ed il pericolo dell’anonimato” (Mollo, 1986, p. 365).

Ma solitudine e anonimato sono la motivazione difettiva, la ragione in ombra dell’insopprimibile attitudine individuale e universale all’apertura agli altri. La quale ha, invece, come motore principale non la paura di scadere ad un livello di vita inferiore, ma la necessità ontologica di concepire l’esserci di ognuno come co-esistenza.

L’esistere singolare è infatti sempre compartecipato, poiché è sempre l’essere-insieme-agli-altri che struttura e dà fisionomia all’essere-individuale.

Emmanuel Mounier sostiene a questo proposito che la persona non si realizza che nella comunità (Mounier, 1990, pp. 87-111), in cui il divenire di ognuno non è rappresentabile come un co-esistere per giustapposizione, ovvero come “un’architettura immobile, che vive e dura nel tempo” (ivi, p. 89); al contrario la sua struttura è più simile ad “uno sviluppo musicale” (ibid.), dove il suono di ogni strumento si accorda con quello altrui e concorre ad un’orchestrazione complessiva. Questa propensione all’apertura si mostra in quella “socievolezza incontinente” descritta da Wallon (1949; cfr. inoltre Galli, 1971) e riferita al secondo semestre del primo anno di vita del bambino, in cui si avvia quel processo di interazioni tra “coscienza introiettiva e coscienza eiettiva” (Mounier, 1990, p. 600), che rende possibile l’esperienza della socialità. Il rapporto interpersonale assume quindi significato e orientamento nell’orizzonte di senso della “comunitarietà” (Mollo, 1986, p. 135), ovvero nella tensione verso un significato condiviso in base al quale si pongono le premesse del vivere insieme, nel dialogo, nello scambio e nella

43 L. Mortari parla a questo proposito della “solitudine inaggirabile dell’esistenza singolare, in cui ciascuno si trova a sopportare da solo la fatica di esistere” (Mortari, 2002, p. 104).

44 Questa immagine è ripresa ed esplorata sotto un profilo pedagogico da Demetrio, 2000; Id., 2003.

reciprocità.

La vita comunitaria non è allora semplice condizione materiale in cui si organizza la convivenza, ma costituisce anzitutto una dimensione interiore, un modo di concepire le cose e di contestualizzare concretamente il problema dell’essere.

D’altra parte “è il sentirsi iscritti in una dimensione comunitaria che può produrre un continuo sforzo comunicativo” (ivi, p. 137), poiché il riconoscimento di una condizione sostanzialmente analoga è ciò che rende possibile e armonico il dialogo tra le differenze, ovvero tra identità in incessante ristrutturazione, in vitale cambiamento evolutivo. L’a priori dell’identità individuale è dunque la relazione: sia sul piano biologico sia su quello ontologico.

L’allentamento del legame sociale, la sua perdita di forza coesiva, è il riflesso dell'incapacità degli individui di frequentare la differenza nell'identità, ritenendola non fonte di co-implicazione ma di estraneità, a cui guardare con distacco. Questo fenomeno determina una dispersione di saperi e risorse di cui patisce l'individuo e la collettività intera. Al contrario, promuovere la socialità implica una pratica relazionale fondata sul riconoscimento che l'alterità è parte della mia identità; se io nego, trascuro l'altro, nego e trascuro anche una parte di me.

Insieme all’altro realizzo la mia individualità scoprendo la mia dimensione plurima. Io sono più individuo, più me stesso, nel momento in cui sto insieme ad altri.

Questo è anche principio di creatività, e di una solidarietà che ha le sue radici in una dimensione fattuale. Non c'è infatti un mondo dei valori in sé, ma una produzione sociale dei valori. I valori sono veri nella misura in cui sono condivisi e strutturati in una pratica che li incarna. Solo se diventano significati incarnati e contrastano l'espansione illimitata della ragione illuministica – dalla quale nasce l’idea dell'individuo-atomo a cui è da ricondurre la volontà di dominare razionalmente ogni cosa (corpo, natura, altri) – si riuscirà a produrre un cambiamento.

Centrale è l’esperienza dell’incontro, che sottrae il discorso sull’altro alla retorica, al rischio dell’astrattezza, rimettendolo al suo essere particolare, al suo riconoscimento. Su questo insiste instancabilmente Lévinas quando parla del volto: il volto non è un’idea, un concetto o un ideale. È la manifestazione di una presenza particolare; la sua espressività è memoria – impressa e leggibile nelle pieghe della carne – del suo modo di abitare il mondo. “Il volto si esprime nel sensibile” (Lévinas, 2000, p. 203).

L’esperienza è la condizione con cui l’altro si rende prossimo, accessibile ad una conoscenza vissuta, con cui il fluire del tempo si tematizza. È la personificazione attraverso la quale il con-mondo (il comune mondo-della-vita) diviene, nel respiro vitale che rende l’io concavo e convesso, straniero e conosciuto (Ricoeur, 1993),

ospitante e ospitato. Comunque errante, come l’articolata etimologia di esperienza (da ex-per-ire) suggerisce.45

Comprendere questo significa entrare in rapporto con il particolare, imparare la grammatica dello sguardo, la sintassi dei gesti, l’eloquenza della postura. “Il volto è presenza viva, è espressione. […] Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso” (Lévinas, 2000, p. 64): lo sanno bene i bambini, tentano di dissimularlo gli adulti, che così ne smarriscono la capacità di lettura, vi si rassegnano i vecchi, che ai segni del volto affidano la testimonianza del tempo e una sommessa richiesta di attenzione.

Coniugare alterità e prossimità vuol dire sentirsi interpellati dalla presenza dell’altro, anche in assenza di alcuna richiesta esplicita. La “nudità del volto” (ivi, p. 204) indica l’essenzialità della sua chiamata. Che sollecita la libertà con cui mi muovo nel mio spazio vitale (Nanni, 2002, p. 58).

Alterità e prossimità costituiscono dunque lo sfondo di natura ontologica e antropologica sotteso alla piena realizzazione umana, impegnata nei processi di interazione, condivisione, compartecipazione. “La relazione con gli altri è una modalità generale dell’esistenza umana di cui la relazione educativa è una modalità particolare” (Iori, 2000, p. 110).

In seno ad essa ha origine il linguaggio, che quindi non è solo mero strumento comunicativo ed educativo, ma estrinsecazione ontologica in cui fenomenologicamente prende forma ogni significatività. Come scrive Ruggenini: “l’uomo può abitare soltanto lo spazio dischiuso dalle parole che gli consentono di condividere con altri l’esperienza di un mondo. Dove manca la parola […] non si apre nessuno spazio abitabile, ma ciascuno si trova contenuto entro limiti che gli restano indifferenti, nel senso che non producono la sua differenza rispetto agli altri e alle cose di cui si occupa. La collocazione fuori dello spazio abitabile – fuori dello spazio della parola – è in realtà l’omologazione di ciascuno con ciascuno e con ogni cosa che occupa il vuoto di un’estensione meramente calcolabile (Ruggenini, 1991, p. 75). In assenza di parole buone con cui abitare l’esistenza non si può che vagare smarriti, senza punti di riferimento, e questo rende lo spazio improgettabile.

Senza parole che gettino un ponte tra l’interiorità umana e il mondo esterno,

45 Il latino ex-per-ire significa “venire da” e “passare attraverso”, per cui l’esperienza è ciò che io nel presente attraverso provenendo dal passato. L’esperienza “si nutre tanto di un rapporto con il passato quanto di una assunzione di responsabilità verso il futuro. Richiamarsi all'esperienza è richiamarsi a un desiderio di ‘spessore’, o alla ricerca di una ‘presenza’ che non sia assoluto smarrimento. Chi ha esperienza, diceva Benjamin, è capace di narrare, e di prestare ascolto a ciò che gli altri narrano. Non solo questo: è capace di prendere atto di ‘ciò che sta attraversando’, e dunque di orientarsi. […] l'idea di esperienza di cui abbiamo bisogno non è tanto quella di un vissuto ‘eccezionale’, quanto quella di un percorso, o di un ritmo, che colleghi le molteplici sfere di vita in cui abitiamo, le molteplici avventure di cui siamo protagonisti” (Jedlowski, 1994, pp. 101-149).

questo resta irrimediabilmente altro, inabitabile, inagibile, disabitato. Intrigo indecifrabile di segni resistenti ad ogni processo di addomesticamento (nel senso letterale di ricongiungimento con il proprio mondo, di familiarizzazione del mondo portandolo a sé), ostili a concedere riparo al soggetto e a lasciarsi condurre nella sua casa senza porte né finestre.

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