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Squalificare attraverso i paragoni, denigrare le amicizie, non prendere sul serio.…

6.2. Le ombre dell’educazione: parole ingrate

6.2.3. Squalificare attraverso i paragoni, denigrare le amicizie, non prendere sul serio.…

serio

Nel concentrarsi sulle parole che ledono, per definirne le caratteristiche, le partecipanti al focus group individuano una serie di esempi – tratti per lo più da vicende personali – accomunati da privazioni: le parole che fanno male sono quelle che privano del riconoscimento di valore; istituiscono paragoni o costruiscono gerarchie tra soggetti collocando la “vittima” in posizioni di inferiorità, sono quelle 74 Il filosofo francese Jean-Paul Sartre ha sottolineato come nella vergogna l’oggetto su cui si posa l’attenzione non è una cosa del mondo, bensì l’io stesso, o meglio, il per-Sé (Sartre, 2002). Chi prova vergogna si vergogna di sé. “E tuttavia, la vergogna è sempre assolutamente vergogna di fronte a qualcuno. Essa mi parla del mio essere-per-altri, si annida in me nell’istante in cui mi accorgo che gli Altri mi guardano, poiché ‘con lo sguardo d’altri […] io non sono più padrone della situazione’. Nell’essere-guardato da altri e nell’essere sottoposto al loro giudizio consiste l’essenza della vergogna, che produce alienazione. È dunque il sentimento dell’essere oggetto, espropriato della propria soggettività” (Bruzzone, 2011, p. 69).

che tolgono valore al contesto di amicizie che un soggetto frequenta, sono ancora quelle che non prendono sul serio, quelle che escludono e fanno sentire invisibili, che non portano rispetto ai vissuti.

Sara:

io stavo pensando, non è proprio una parola, però con mio papà, quando facevo le superiori, ogni volta che facevo una verifica, papà chiedeva come era andata a me, quando prendevo il voto ma poi chiedeva sempre anche: invece la tua amica, sempre con questa amica, che cosa ha preso? E lì mi sentivo..., dentro di me dicevo: mah, dopo un po' che andava avanti, ma cosa te ne frega… ti dovrebbe fregare solo di me e quindi, anche quel senso di non essere vista, comunque da tuo padre o comunque da tua madre… è una cosa che l’ho portata dentro … Il fatto che dicevo: papà pensa a quello che faccio io, non a quello che fanno gli altri, stavo pensando che succede anche a scuola con... magari, due fratelli: un fratello va molto bene a scuola, l’altro invece va peggio e c’è questa cosa di far sempre il confronto che poi fa sentire un senso di insicurezza in chi va un po' peggio.

La parola che riconosce il valore di un soggetto per la mediazione di un altro (il paragone col il voto di un compagna di scuola) fa sentire “non visti”, come dice Sara. E non si è visti non solo perché la richiesta di un risultato viene astratta dal contesto, dalle circostanze, dal processo, dai vissuti, ma anche perché la misura del valore di una prestazione non è in relazione con le possibilità del soggetto, ma è fuori di lui, in un altro.

Un’altra modalità di svalutazione è quella che racconta Alessandra. Anche in quel caso non viene considerata la personalità del soggetto, con rispetto per le sue scelte e le sue frequentazioni; ma un giudizio negativo nei confronti delle amiche denigra indirettamente anche chi quelle amiche le ha elette come “amiche del cuore”:

Io invece, la parole che mi han sempre fatto peggio son state quelle di mio fratello, più grande di tre anni, molto protettivo nei miei confronti. Quando io arrivavo a casa, con mia mamma - sono sempre stata una persona, sono tuttora una persona molto espansiva, estroversa, se ho qualche problema lo butto sempre sul tavolo e cerco di discuterne in famiglia - quindi arrivavo a casa e magari avevo discusso con le mie amiche e dicevo cosa era successo. Costantemente le parole di mio fratello sono sempre state: tu devi smetterla di stare sempre insieme a queste quattro deficienti - …che però son state le mie amiche del cuore da sempre - … perché ti fai prendere in giro. Mi diceva che mi facevo prendere in giro, che ero troppo buona e mi diceva che mi dovevo scantare. Erano sempre le tre cose classiche che mi diceva, non tenendo mai conto del fatto che, in realtà, ero parte in causa anche io nelle discussioni e nelle litigate, e non mi sentivo, assolutamente, la persona debole che lui descriveva e non mi ci sento tuttora. Le sue parole mi han sempre fatto male perché non capiva, mio fratello, che io in realtà in quel momento, avrei avuto bisogno di un confronto dove mi si diceva: “beh, guarda la tua parte, per riuscire a progredire in questa relazione”, piuttosto che sentirmi invece, sempre dire che ero la debole di turno. Finché non sono cresciuta, io questa cosa me la sono portata dietro. Eh, sì, quelle parole lì mi hanno sempre un po’… un po' ferito. Dopo crescendo, insomma, si capisce che lui l’ha fatto per protezione, l’ha fatto perché mi vuole bene. Lui da ragazzo, e di tre anni più grande, vedeva più pericoli per me, più

di quelli che in realtà intorno a me potevano esserci in un contesto di paese piccolo, in cui ci conoscevamo tutti (Alessandra).

Se di “pericoli” si trattava, il fratello ha preferito cercare di annientarli evitando di condividere le proprie preoccupazioni con Alessandra. Ma il desiderio di protezione, seppur mosso da buone intenzioni, non ha neutralizzato la percezione di disapprovazione e di non meritare nemmeno un confronto diretto. Messaggi che hanno accompagnato la crescita di Alessandra, alimentando probabilmente un senso di insicurezza e di sfiducia nelle proprie scelte.

Sara:

Per me la caratteristica che offende nelle parole è la presa in giro, buttare sul ridere magari una cosa anche vera, una caratteristica che magari riconosco anche vera, di me, che però mi può far star male. Il fatto che l’adulto che magari è il mio educatore, è il mio riferimento, non mi prenda sul serio. E anche per quanto piccola sia … per quanto banale proprio il fatto che io non venga presa sul serio da te, adulto… fa soffrire.

Non essere presi sul serio è motivo di turbamento, di sofferenza, ha spiegato Adrianne Rich, riferendosi in particolare alle donne. Poetessa, saggista e insegnante femminista, nel settembre 1977 A. Rich pronunciava un discorso alle studentesse del Douglas College che aveva per titolo “Per reclamare un’istruzione”, in cui invitava le giovani donne che l’ascoltavano ad “assumere la responsabilità di se stesse” e a “pretendere di essere prese sul serio dalla loro Facoltà”75.

Dalla capacità di rivendicare il diritto di essere prese sul serio, diceva in sostanza la studiosa statunitense, deriva la possibilità di prendersi sul serio autonomamente, perseguendo quella libertà intellettuale che si ottiene imparando a “pensare con chiarezza”, “discutendo con intraprendenza”, “scrivendo con proprietà” (Rich, 1982). Tutte pratiche che, attraverso l’uso delle parole, alimentano la percezione del valore di sé. Non essere presi sul serio, invece, è la prima condizione per dubitare del proprio valore.

Un’altra costruzione di parole che feriscono è quella che ignora la presenza. Non sentirsi coinvolti in una conversazione, essere visibilmente ignorati, toglie dignità: non si è degni di un posto in quel contesto. Come osserva Monica:

A me da ragazzina, mi è venuto in mente, sentendo queste cose, mi è capitato spesso, anche nell’infanzia, che a farmi male più che altro erano le parole che non venivano dette, in certi contesti. Per esempio, quando abitavamo in campagna, le compagnie del paese erano già formate per cui molto spesso mi sono sentita esclusa, in certe situazioni. Erano le parole che gli altri si dicevano, tra loro, e io venivo esclusa, a volte anche tra adulti. Probabilmente, senza volere, tra genitori si fanno inviti, eccetera, e tu non ci sei in mezzo. Ecco! Queste cose me le ricordo molto bene, come cose che … mi facevano stare male, cioè insomma, mi facevano sentire un po' esclusa… poi soprattutto nell’adolescenza, … poi dopo ho trovato la mia compagnia, per cui dopo i quattordici, quindici anni non è mai più successo. Ma prima, si! Anche da bambina, insomma, in tante situazioni. Magari, non so, in contesti di compleanno, quando ci sono anche le mamme… persone che si

frequentano anche fuori, comunque tra di loro, e non con i miei genitori, ad esempio. Parlavano di feste insieme e tu sei quella che non c’eri e comunque, quella che non sarai invitata la volta successiva e … sì: è molto brutto questo. Quando si è in tanti bisogna fare attenzione, io che l’ho subita, sto molto attenta a questo: quando si è in tanti non bisogna escludere qualcuno, perché è una brutta sensazione. Sei lì e non sei considerata. Tutto, sommato, se tu non ci fossi non sarebbe poi quel gran dramma, ecco …

Anche sentirsi descritti in modo approssimativo, senza impegno, essere malintesi, definiti senza attenzione, fa sentire poco importanti, scarsamente considerati. Quelle parole feriscono e vengono respinte. Difendendosi da espressioni ingrate anche la persona si allontana e rifugge la relazione.

È Paola a mettere in evidenza questo aspetto delle parole che fanno male: Per me la parola che lede è anche quella parola che non ti descrive che, anzi, è proprio altro da te, quindi che non ti appartiene neanche, che non è vero che ti sta dicendo qualcosa che ti fa da specchio, e che quasi, come diceva Monica, ti rende invisibile … Io le sentivo così queste parole. Se tu mi descrivi così, vuol dire che tu non mi vedi veramente per quello che sono, vuol dire che non hai capito che, in realtà, sono altro … e i bambini, secondo me, ce l’hanno questa percezione, magari non riescono a trovare le parole per comunicarle, però capiscono benissimo quando la parola non è educativa perché, non ci trovano posto. Lo vedo, lo vedi anche dal loro sguardo, non trovano posto, dentro di loro, per quella parola lì. E io mi sentivo, così!

Un’altra “categoria” di espressioni che squalificano e mortificano sono quelle che “non riconoscono le emozioni” o che le limitano riconducendole a stereotipi di genere, come spiega Giovanna:

per me, invece, stavo pensando che le parole che ledono, sono anche quelle che non riconoscono le emozioni che stai provando in quel determinato momento. Per esempio, ricollegandomi alle differenze di genere spesso, non sempre, comunque capita che quando un bambino, un maschietto, piange viene [da dire] a un genitore, ma anche a noi educatori può succedere: “ma no, dai, sei un maschio, cosa piangi?” E questo sminuisce l’emozione, comunque la tristezza che sta provando. Quindi le parole che fanno male sono appunto, quelle che sminuiscono proprio la situazione. Non so, mi viene in mente, proprio per fare un esempio banale: un bambino che perde, non lo so, il suo colore preferito, va dalla mamma e la mamma gli dice: “dai non è successo niente”. In quel momento però, lui sta provando tristezza perché ha perso il suo colore preferito.

Paola coglie in quelli che possono essere liquidati come capricci o reazioni di poco conto, la relazione profonda che esiste tra vita emotiva e costruzione identitaria.

Gli atti emotivi appartengono alla classe degli atti “egologici”: rappresentano una via privilegiata alla conoscenza di sé, perché, come scrive Roberta De Monticelli, è “nel sentire che si incontra se stessi” (De Monticelli, 1998, p. 179).

Il sentire non solo attiene a qualcosa che accade tra l’io e il mondo, ma rende più significativo il mondo e più trasparente l’io a se stesso, mettendoci in contatto con diversi livelli di profondità del nostro essere personale. Stereotipi diffusi e idee socialmente condivise assegnano al maschile e al femminile sentimenti ed

emozioni “legittime”, esprimibili, socialmente approvate e accettate, come dice Giovanna. In realtà non c’è sofferenza più acuta, o gioia più pura, o rabbia più sottile o emozione più indicibile che non meriti rispetto. Se i sentimenti costituiscono quella tavolozza grazie a cui ciascuno di noi dà colore, dà senso alla quotidianità degli eventi, ogni vissuto emotivo ha una sua dignità e un suo valore. È necessario pertanto “autorizzarci” a vivere e riconoscere le emozioni e i sentimenti che proviamo, per accogliere e favorire la comprensione di quelli altrui.

La competenza emotiva inizia laddove mettiamo fine al predominio della retorica dei “buoni sentimenti” (che ci impedisce di dar voce alle emozioni “difficili”), o alla tentazione ricorrente della rimozione (che non permette di accettare le emozioni “impegnative” e di imparare da esse), o alla superficialità frettolosa con cui spesso liquidiamo i sentimenti come qualcosa di aleatorio o “di poco conto”.

6.2.4. Al cuore delle parole che fanno male: attentare alla sacralità della persona

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