Quando la violenza ferisce i soggetti più fragili di una famiglia, le responsabilità genitoriali sono probabilmente disattese da tempo e i figli, percepiti (più o meno consapevolmente) come ostacolo alle aspirazioni di uno o entrambi i genitori, sono ridotti a “cosa” (Scatolero, 2015, p. 19)20, cioè hanno perso quella sacralità di persona che sta alla base dell’inviolabilità e del rispetto.
Molteplici e mai del tutto decifrabili sono le ragioni che potrebbero contribuire a illuminare pienamente questi comportamenti.
Ma, al di là del fatto che una quota di irrazionalità – non ponderabile e diversificata per ognuno – e di imprevedibilità nel corso degli eventi contribuisce a determinare comportamenti e vicende umane, non si intende qui sostenere che la 20 Scrive letteralmente al proposito il criminologo Duccio Scatolero: “la normalizzazione e diffusione dei meccanismi di oggettivizzazione dell’uomo è uno dei più importanti malesseri del nostro attuale vivere”. Questa desensibilizzazione della coscienza, induce a considerare la persona a cui è diretta l’azione violenta come “cosa senz’anima” (Scatolero, 2015, p. 19).
conoscenza di un fenomeno sia sufficiente a individuarne le cause e a definire con chiarezza le condizioni da evitare per prevenirlo o contrastarlo. Troppi sono i limiti di una logica meccanicistica e positivistica applicata all’umano: la sua propensione ad escludere il dubbio, il mistero, la particolarità delle situazioni a favore di una loro generalizzazione e della possibilità di prevedere esiti e conseguenze, rende i guadagni di quella logica assai inferiore ai rischi a cui può esporre. Al proposito già Sergio De Giacinto, suggeriva una “prudenza metodologica” rispetto alla tentazione di elaborare riflessioni certe e definitive in ambito pedagogico: “La definitività confina con il determinismo, ed una teoria pedagogica che pretendesse nella sua totalità ad una capacità di ottenere infallibilmente certi risultati dovrebbe essere più temibile che auspicabile. […] La pedagogia non può servire per creare un mondo deterministicamente prestabilito” (De Giacinto, 1977, pp. 15-16).
Quando l’uso della parola in famiglia ammette il maltrattamento come esercizio s-considerato di potere (in cui il genitore individua il comportamento del figlio come alibi per legittimare la propria incapacità di contenere rabbia e aggressività, perdendo la sensibilità verso ciò che è sostenibile da parte del figlio senza che sia distruttivo), la corrosività dei messaggi contenuta in “parole tossiche” (Priulla, 2014) è riflesso del fatto che sono anzitutto saltati i confini tra sé e l’altro, quei confini che all’inizio dell’esperienza genitoriale erano pressoché inesistenti, poiché un figlio nasce dentro un ventre, dentro un progetto, un desiderio, un’altra storia, è “carne della stessa carne, sangue dello stesso sangue”, è continuità ed estensione nel tempo dei genitori, che “gli passeranno il testimone”. Se non viene percepito come dono della vita alla coppia (cfr. Musi, 2007, p. 145 e ss.), ma dono della coppia a se stessa o, peggio, “contributo” della coppia alla vita sociale, la venuta di un figlio è espressione di una volontà ingegneristica.
Se l’esperienza generativa è intesa come tappa biografica che attesta il corso “naturale” delle cose, espressione di “normalità”, omologazione e inclusione sociale, l’inversione di prospettiva è evidente.
Nel primo caso, nella logica del dono, un figlio è una grazia, una presenza non scontata da accogliere e accudire col rispetto che si conviene a ciò che è sacro, nell’altro un possesso, una proprietà di cui disporre secondo la propria volontà.
Secondo la prima prospettiva un figlio racchiude il mistero di pensieri, emozioni, scelte che risultano imperscrutabili anche ai familiari più prossimi e che quindi vanno accostate con prudenza, contemplate dall’esterno per quanto si lasciano leggere, limitatamente a quanto lasciano cogliere. Quando invece un figlio è percepito come un’estensione di sé, ritenuto conosciuto nel suo mondo interiore e nelle reazioni – superficiali o profonde – che parole e gesti dei genitori possono suscitare, ha già perso il diritto fondamentale ad un’alterità come principio di “individuazione” unica e particolare (Jung, 2013). È ancora una questione di confini.
Si può dire allora che la parola maltratta quando ha perso la memoria dei confini, quando riferisce di confini violati. Può essere una parola urlata, dileggiante, sarcastica (quindi alterata nei modi), o squalificante, umiliante, ridicolizzante (offensiva nei contenuti). Racconta di un malessere sovrabbondante nel genitore che esonda e invade il figlio. È di nuovo una questione di confini.
Porre il problema del maltrattamento verbale in famiglia in questi termini, non ne consente automaticamente una comprensione più nitida e aperta a prospettive di intervento di sicura efficacia, anzi come vedremo immette in altre e non meno complesse questioni. Ma lascia intravedere esplorazioni promettenti e riposizionamenti fecondi per la ricerca pedagogica.
Intendere la parola maltrattante e violenta come corollario di violenze fisiche e abusi documentati attraverso denunce e altri atti formali, induce ad affrontare il problema per approssimazione, in assenza di studi mirati e fonti dirette.
Inoltre, accostando la parola maltrattante in famiglia collegata a violenze e abusi “certificati”, e assumendo come principale letteratura di riferimento quella medico-psichiatrica, giuridica e criminologica, è necessaria una conoscenza di strumenti concettuali e teorie assai distanti da quelli di cui si avvale la ricerca pedagogica, che quindi di quegli studi specialistici potrebbe beneficiare molto limitatamente.
Ma è soprattutto la prospettiva epistemologica della pedagogica che chiede un diverso approccio al tema. La pedagogia si occupa dell’educazione secondo alcuni ambiti di riflessione: quella “connessa ai corsi di vita ‘normali’ che ha la sua principale tradizione di riferimento nella scuola; quella connessa ai corsi di vita ‘speciali’ caratterizzati dal superamento di una certa soglia di disagio (del soggetto e/o sociale) e che ha nella varietà dei servizi socioeducativi una rilevante tradizione di riferimento; quella che riguarda l’educazione intenzionale (progetto, servizi, teorie di riferimento) e quella non intenzionale, sociale, diffusa, informale” (Tramma, 2015, p. 44). Per nessuno di questi ambiti l’intervento educativo punta a “curare” o “riparare” una compromissione del soggetto a cui è destinato; mentre in ognuno dei contesti indicati l’azione educativa è finalizzata a individuare, promuovere, sostenere, potenziale le risorse – evidenti, esplicite o latenti, sopite, depotenziate – del soggetto a cui l’azione è rivolta. Il compito della ricerca pedagogica è pertanto quello di interrogare la realtà cogliendone elementi critici e problematici, ovvero “straordinari”, a partire dall’analisi di quei contesti “ordinari” e a quelle situazioni apparentemente “normali” in cui la devianza, lo straordinario si nascondano e, non visti, “proliferano”.
L’origine di squilibri e iniquità si radica molto prima della violenza e delle sue zone rosse di allerta e pericolo, di scandalo ed eccentricità, interroga l’educazione nella sua responsabilità di applicarsi all’analisi dei processi che determinano conoscenze ed esperienze, alle logiche sottese alla costruzione dell’ordine simbolico, di quel mondo sfuggente e dinamico, perché continuamente in divenire,
che si pone nelle zone del “tra”: tra una comunicazione accesa e una violenta, tra una “punizione educativa” (Schermi, 2016) e un abuso, tra un conflitto “utile e formativo” e uno distruttivo.
La normalità può essere espressione di una omologazione al contesto, ovvero di una insensibilità del soggetto per assuefazione al clima culturale che dispensa e confonde visioni e rappresentazioni (Berger, Luckmann, 1969, p. 179 e ss.).
Focalizzare lo sguardo sulla degenerazione dell’uso delle parole porta l’attenzione sul compito di “riparare”, o curare (to cure), mentre del pedagogista è la responsabilità di leggere con senso critico e disincanto la realtà per coglierne indizi evolutivi (prima che degenerativi), procedendo con ipotesi, interrogazioni e azioni di promozione del positivo presente o latente. La sua forza è una “costante apertura di possibilità, una ricerca ininterrotta sul senso dell’agire educativo, una costante messa in discussione del proprio orizzonte di finalità, delle esperienze di vita, degli obiettivi, dell’universo dei soggetti ritenuti destinatari e/o co-costruttori dell’azione educativa” (Tramma, 2008, p. 12).
La necessità di riposizionare il tema della violenza verbale in famiglia secondo una prospettiva propriamente pedagogica, sposta l’attenzione dai contesti e dai soggetti (i genitori) patologici o fortemente compromessi (psicologicamente o per condizioni di degrado materiale e sociale) e perciò più facilmente esposti a comportamenti dannosi nei confronti dei figli, a situazioni di “ordinario” disordine relazionale nel legame genitori-figli, che rischiano di passare inosservate, assunte come prassi “normale” nelle dinamiche familiari e trascurate anche dalla riflessione pedagogica. Ed è appunto sulle condizioni di “normale” bentrattamento mediante le parole che deve concentrarsi anzitutto la riflessione pedagogica, per cogliere e possibilmente prevenire quelle di “ordinario” e trascurato maltrattamento.