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Ponti di parole che costruiscono legami

6.1. Un’opportunità per riflettere sul valore costruttivo o distruttivo delle parole: il focus

6.1.5. Ponti di parole che costruiscono legami

Le parole costruiscono legami non solo tra le diverse versioni di un soggetto, ma anche tra soggetti, contribuendo così a ridurre le distanze, a sollecitare apertura, a promuovere la conoscenza reciproca, a favorire intese e conoscenze. In un saggio dal titolo: “Le parole nella relazione con i bambini: osservare il ‘linguaggio in azione’ al nido” pubblicato alcuni anni fa, Chiara Bove, riferendo e comparando diversi studi e ricerche, ha messo in luce come educatrici e insegnanti propongano a bambini e bambine nei momenti informali dei servizi educativi “uno stile dialogico che promuove la loro partecipazione al racconto e alla ricostruzione attiva della storia promuovendone il contributo attivo” (Bove, 2016, p. 33). Sintetizzando poi i risultati di una ricerca cross-culturale “sul parlare al nido” (ivi, p. 44, corsivo nel testo), evidenzia la profonda interdipendenza tra acquisizione del linguaggio e socializzazione (che le antropologhe del linguaggio E. Ochs e B. Schieffelin definiscono “socializzazione linguistica”, 1983): “Si tratta di un uso della parola al plurale che non significa che venga meno l’attenzione individuale; piuttosto significa orientare le parole al gruppo e alla collettività, usando le parole per tenere insieme tutti i bambini, per sostenere l’attenzione, per coinvolgere i bambini che parlano ‘meno’, per favorire lo scambio e il confronto tra pari” (Bove, 2016, p. 51). A queste osservazioni sono riconducibili le riflessioni delle insegnanti partecipanti al focus group, che hanno rinvenuto, nella parola educativa, la capacità di costruire ponti, che diventano relazioni significative, legami, comunità, riconoscimento e appartenenza.

Monica: “... le parole educanti sono le parole su cui si può costruire… mi viene in mente questa idea … può costruire sia chi le pronuncia e sia chi le ascolta, ti rendi conto immediatamente, come diceva la Dani, quando… le pronunci perché capisci che crei dei ponti tra te e i bambini, tra un bambino e l’altro perché, comunque, non so, un’idea che rimbalza è una parola che crea legame e … che ‘accende’ [le relazioni]. Anche con i bambini che fanno più fatica con il verbale è importante il tono di voce, è un bel ponte anche quello, per farsi capire e proprio stare attenti al tono della voce a … dire tante cose”.

Allenare lo sguardo sul reale vuol dire cogliere il mondo “non come accozzaglia disordinata di fatti tra i quali una ragione matematizzante possa mettere ordine, bensì come trama di significati che si offrono solo a chi, con le virtù dell’umiltà e del rispetto, oltre che affidarsi ai potenti fasci di luce della ragione, sappia acuire l’occhio del cuore per cogliere, forse soltanto nella penombra e nei ‘chiari del bosco’, ciò che perlopiù passa inosservato” (Bruzzone, 2006, p. 109, corsivi nel testo).

Questa fondamentale apertura consente una libertà di ricerca in grado di accogliere il divenire dell’evento educativo, di scorgerne le sue possibilità evolutive, di registrarne i tratti imprevedibili e originali.

Coltivare lo sguardo a recepire i piccoli movimenti, i particolari “secondari” di cui la situazione concreta si contorna, consente di porli al centro di un movimento evolutivo che non si impone per il clamore dei fatti, ma si esplica anzitutto nella facoltà immaginativa del guardare comprensivo di quanto sta oltre.

La possibilità di individuare un principio metodologico in questa prassi richiede dunque uno spostamento dal piano della rilevazione oggettivante alla capacità di non disgiungere la realtà dallo sguardo che la coglie. La metodologia conoscitiva ed educativa che ne discende assume come centrale da parte di chi indaga il lavoro sul proprio modo di osservare, la disposizione ad essere presente al proprio sguardo mentre si è in situazione, la capacità di vedere l’altro e al contempo la relazione che questi instaura con quel mondo di parole, immagini, emozioni, ricordi che inevitabilmente si affaccia (e si interfaccia) sulla sua esistenza durante lo scambio.

Rileggere le competenze tacite e le pratiche silenziose che sostengono molta parte del lavoro con bambini e bambine, porta a riconsiderare con stupore l’umile e profonda sapienza di cui è intessuto il lavoro di cura.

Ad esempio le competenze necessarie per dedicarsi ai bambini tenendo presente contemporaneamente il gruppo con le sue dinamiche e ogni bambino con le sue peculiarità, è un sapere tutt’altro che scontato o secondario.

Questa capacità di tenere ogni bambino nel cuore e nello sguardo consente di garantirgli un posto anche nel pensiero degli altri. È uno degli aspetti più complessi del lavoro educativo, una sapienza sottile entro la quale si cresce senza averne una piena coscienza.

I guadagni si colgono retrospettivamente, ma è possibile cercare ab initio gli ingredienti di tale sapienza? …è possibile coltivarli con intenzionalità e determinazione? …farne il patrimonio, immateriale e prezioso, che le educatrici con più storia trasmettono alle più giovani?

L’attenzione al pensiero che pensa, la capacità di fare spazio al non detto, di cogliere l’intenzionalità di un gesto, di leggere i pensieri in controluce intuendo la gestazione di quanto ricerca una forma con cui presentarsi, sta prima della trasmissione di contenuti e li filtra. Determina moti delicati e silenziosi di conforto e conferma che alimentano l’autostima di chi muove, incerto, i primi passi nel mondo delle parole e dei significati.

Ad uno sguardo attento, desaturato e leggero, fatto di sensibilità e accortezza, i piccoli movimenti con cui le sfumature delle differenze individuali danno rotondità e spessore alle relazioni, divengono la nitida punteggiatura che scandisce gli scambi comunicativi, i guadagni di comprensione e libertà, la via d’accesso ad altre logiche, più ampie: “ciò che prima stava semplicemente sotto gli occhi si può anche vedere” (Longobardi, Zamarchi, 1989, p. 30).

È possibile allora scoprire la fecondità di un implicito che attende parola per entrare attivamente nei processi di costruzione della conoscenza, mantenendo un legame profondo con la realtà e i soggetti che la abitano70.

Coltivare uno sguardo gravido del possibile (il poter essere dei soggetti educativi) mette in contatto con molta parte di quel sapere inespresso che sostiene lo scambio nella forma dell’educare e dell’apprendere. Si tratta allora di conferire autorevolezza a quella conoscenza pratica che si costruisce seguendo l’evolversi dell’esperienza, sostenuta da ipotesi interpretative continuamente sottoposte ad una revisione critica, “a partire da una ricorsività dialogica fra il lavoro della problematizzazione teoretica e l’analisi dell’esperienza” (Mortari, 2003b, p. 14).

Far decantare il linguaggio, accogliere le sensazioni del corpo, ascoltare le piccole dissonanze che punteggiano un dialogo, i segnali di novità e talvolta di discordanza che affiorano nella relazione, ri-apprendersi attraverso le parole degli/delle altri/e (bambini e bambine, colleghe e colleghi), recepire le piccole grandi distorsioni che scuotono i saperi e attivano un “corpo a corpo” simbolico con gli apprendimenti, aiuta a sciogliere le soggezioni che inibiscono, a flessibilizzare i vincoli, a sottrarsi alla sudditanza del sapere ufficiale, al fine di far emergere e portare a espressione la capacità di produrre conoscenza in proprio, rintracciando ad ogni passo un punto di equilibrio tra le teorie consolidate e l’ascolto impregiudicato del reale.

70 Sull’educazione implicita come interazione sociale precoce che concorre ai processi identitari cfr. Pourtois, Desmet, 2005.

È possibile così tradurre l’invisibile in una forma non sfuggente di conoscenza, introducendo il vissuto nell’orizzonte di un pensiero animato dal desiderio di ricercare il senso di quanto accade.

È un’operazione vitale non solo perché costituisce l’essenza del sapere pratico, ma in quanto ossigena la vita della mente; poiché “nel momento in cui la trama del vissuto rimane senza parola scompare alla vista, lasciando senza radici vitali il pensiero” (ivi, p. 16).

Una competenza educativa che si muove tra i chiaroscuri delle parole coltiva una sapienza che illumina l’intuizione e crea spazi di silenzio in cui posare l’attenzione sulle parole che portano all’altro, intercetta l’intenzione che dà vita ai primi scambi affettivi, sostiene la capacità di trattenersi sulla soglia di un mondo in costruzione mantenendosi a distanza, presenti senza invadere, accessibili senza anticipare.

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