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La dimensione spaziale della vita sociale

3. Ancoraggio esistenziale e visioni del mondo: lo spazio delle radici cultural

di Lia Giancristofaro∗

Il presente capitolo, lungi dal voler essere omnicomprensivo di una te- matica vasta e complessa, si propone di individuare nelle costruzioni sim- boliche di campanile e radici (alias il back ground culturale di alcuni grup- pi occidentali o dei loro singoli individui) una delle principali funzioni del- la territorialità nelle società contemporanee. D’altronde, già Marcel Mauss1 dimostrò che l’unità sociale non si ravvisa certo nella tribù in senso stretto, bensì si trova nell’insediamento (ossia, insieme, il raggruppamento sociale e l’elemento territoriale) che qualifica tutti i membri del gruppo, corrispon- dendo ad una unità linguistico-religiosa e ad un territorio che, conglobando le terre occupate o attraversate, abbia confini nettamente fissati. Nelle re- gioni in cui c’è stata una grande stabilità storica delle popolazioni, l’identità deriva più da questo insieme sociale che da un particolare legame con una terra esattamente definita. Avviene, dunque, che, in caso di emigrazione in un nuovo territorio, il gruppo prenda a modello l’immagine di quello vec- chio, riproponendone le medesime strutture abitative e gli stili di vita, no- nostante le differenze stagionali e climatiche lo sconsiglierebbero. L’attaccamento a un territorio, quindi, non è facilmente separabile da un complesso di rapporti sociali, di abitudini, di credenze, di riti determinanti un’identità che proviene dalla cultura, e non da una rigida localizzazione fisica; perciò, l’orientamento è insieme fisico e culturale, e la perdita del punto di riferimento comporta una tipica angoscia di dispersione che si ori-

∗ Lia Giancristofaro è docente di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze Sociali dell’Università “Gabriele D’Annunzio” di Chieti-Pescara.

1. In E. Durkheim e M. Mauss, Sociologia e Antropologia, 1966, Newton Compton, Roma, 1976: pp. 141-234. Basilare è il ragguaglio che il celebre strutturalista fornisce relati- vamente alla morfologia delle stagionalità nelle società Eskimo, con cui egli evidenzia i fe- nomeni di totemismo e religiosità primitiva.

gina dal rischio di perdere la propria posizione nello spazio destinato allo stanziamento e alle attività economiche del gruppo.

In merito all’interpretazione dello spazio, tuttavia, è stato più facile ana- lizzare gli usi e i costumi dei vari popoli che non i loro contenuti psicologi- ci, nonché gli stati psichici, essendosi la dottrina soffermata sulle questioni di metodo e sulle prospettive d’indagine, ed occupandosi l’antropologia, in passato, più della cultura intesa come eredità sociale e contesto esistenziale in senso oggettivo che non delle facoltà individuali dell’uomo (ossia dei rapporti tra linguaggio, concettualizzazione, operazioni mentali, esperienze e strutture socioculturali, sia nell’ambito di una stessa cultura che in culture diverse). Dunque, se alcuni studiosi, talvolta tramite la lente deformante dell’ottica etnocentrica, hanno trovato nel clima o nel paesaggio la causa della diversità culturale2, è evidente che la maggior parte di essi, specie nel Novecento, ha insistito sul fatto che è l’uomo ad influenzare la natura, tra- sformandola e adattandola incessantemente alle proprie esigenze. Infatti, fin dai primi tentativi di sistemazione della questione ambientale, l’ostacolo di ogni interpretazione deterministica risiedette nell’analisi del rapporto cultura-natura esistente presso quei gruppi umani che solo apparentemente si trovavano in uno stadio poco evoluto delle tecniche di organizzazione e sfruttamento dello spazio, poiché neppure essi erano passivamente sotto- messi all’ambiente. Perciò, solo gli sparuti gruppi umani, che, volontaria- mente o involontariamente, ancora si sottraggono al contatto con altre cul- ture, sono ancora vincolati agli imperativi della natura, percependo le con- dizioni geografiche e climatiche come fatti sacrali al fine di meglio adattar- si ai loro effetti più distruttivi, in mancanza di un’azione volontaria e collet- tiva di modificazione dell’ambiente3. La reazione alle intepretazioni deter- ministiche del rapporto tra uomo e ambiente ed il conseguente capovolgi- mento dei termini della questione (non è più l’ambiente che determina le azioni dell’uomo, ma è l’uomo che interferisce attivamente con la natura, attribuendole, di volta in volta, un valore e, perciò, mostrando d’essere uno dei più potenti agenti modificatori della superficie terrestre) si sono coagu-

2. Il riferimento spazia dalla scuola diffusionista, di cui fu esponente, nella sottocorrente del determinismo geografico, il berlinese K. Ritter, 1779-1859, autore di un’opera in dician- nove volumi dal titolo La geografia in rapporto alla natura e alla storia dell’Uomo, a stu- diosi come E. Churchill Semple, autore di Influences of geographic environment on the ba-

sis of Ratzel’s system of anthropo-geography, Henry Holt and Company, New York, 1911. I

maggiori esponenti del diffusionismo furono F. Boas (1858-1942) e W. H. R. Rivers (1864- 1922).

3. P. George, L’action humaine, Presses Universitaires de France, Parigi, 1968: pp. 9-11, 13-15.

lati sotto il nome della scuola storica e del possibilismo geografico, della quale il massimo esponente è Lucien Febvre, che attribuisce all’ambiente un valore non assoluto, bensì relativo alla capacità socio-culturale di inter- vento e di organizzazione del gruppo che lo abita4.

Alla base della problematica, troviamo i concetti di orientazione ed o- rientamento. L’orientazione, sinonimo di direzione, è la posizione degli og- getti che ci circondano nel rapporto che essi hanno tra loro e col soggetto che li osserva; dunque, si tratta di un dato generalmente interpretato e quasi sempre connesso, nei suoi valori, al quadrante delle direzioni cosmiche (nord, sud est ovest e punti intermedi). Nelle culture che possiedono il qua- drante dei punti cardinali e dei punti intermedi, l’orientazione diviene dun- que la posizione della persona o della cosa in rapporto alle direzioni cosmi- che o punti cardinali. L’orientazione assurge, allora, a fenomeno rilevante nella considerazione etno-storica e religiosa, tant’è che riti, credenze, nar- razioni mitiche e costruzioni religiose presuppongono determinate orienta- zioni e ne escludono altre. L’orientamento, invece, consiste nell’attribuire a oggetti e persone una determinata orientazione, ma soprattutto nel giudizio (cosciente o meno) che ci informa della posizione del nostro corpo nello spazio.

Poiché lo studio dell’orientazione nelle varie culture viene complicato dalle differenti spiegazioni della sua origine e dagli aspetti rituali ad essa attribuiti, conviene assumere l’orientazione come dato già esistente e stati- sticamente accertabile, nonché proseguire l’indagine riferendoci prevalen- temente all’orientamento, determinabile anche in funzione a punti di rife- rimento diversi da quello solare. L’orientamento, infatti, può essere riferito ai venti, e in particolare ai monsoni, come accade nell’area indonesiana; può essere riferito ai centri religiosi (La Mecca, Gerusalemme o Roma, per esempio); può essere riferito alla patria presuntiva di origine del gruppo, all’area celeste da dove sorge il sole o al punto di levata di un determinato astro. In ogni caso, l’orientamento è sia il punto nel quale vengono trasferi- te specifiche esperienze economiche, vitali ed esistenziali, sia l’attitudine a determinare la posizione e il movimento della persona o dell’oggetto in rapporto a quel punto, che diviene così un riferimento presente e assoluta- mente necessario in tutte le culture, tanto quelle a tecnologia semplice, quanto quelle a tecnologia complessa.

4. L. Febvre, La terre et l’évolution humaine. Introduction géographique à l’histoire, La Renaissance du Livre, Parigi, 1922 : pp. 204, 206-211, 400-402.

Dunque, tutti gli uomini hanno bisogno di riferimenti per orientarsi nello spazio; presso tutti i popoli l’orientamento è fondato su un punto di riferi- mento che varia da cultura a cultura caricandosi di valori specifici, acqui- stando funzione di sicurezza e garanzia nella determinazione dello spazio in cui il gruppo opera; il punto di riferimento libera, infine, il gruppo dalle ca- riche di angoscia e di terrore che possono originarsi dall’incertezza della propria posizione spaziale5. Se perdere il punto determina il disorientamen- to, avere il punto significa essere padroni di se stessi e poter costruire dire- zioni utili e positive in opposizione a direzioni rischiose e negative. Per e- sempio, l’area etnica che assume il sole a proprio punto di riferimento (cioè l’area indo-germanica), attraverso il rilievo del nord-est riesce a realizzare la sua sicurezza di essere nello spazio ed al sole e alle sue direzioni attri- buisce le esperienze vitali, altresì collegando l’eversione della potenza vita- le, ossia la morte, alle posizioni in cui il sole è assente o poco visibile, le quali si esperiscono di notte e durante l’inverno. Ci riferiamo, con le dovute cautele, all’interpretazione di Mircea Eliade, secondo il quale la divisione dello spazio in quattro orizzonti equivale ad una fondazione del mondo e l’omogeneità dello spazio ignoto è assimilabile al caos al quale si contrap- pone, in modo positivo, il simbolismo del centro. Il simbolismo del centro assurge pertanto a garanzia dell’ordine cosmico e si traduce, afferma lo studioso romeno, in ogni montagna sacra, in ogni tempio o palazzo, in ogni città sacra o residenza regale che racchiudano l’axis mundi, cioè gli ele- menti considerabili come il punto d’incontro tra il cielo, la terra e gli inferi: in parole povere, si tratta del punto in cui si manifesta la rottura tra i confini dei vari livelli cosmici e, col contatto tra i mondi, l’irruzione del sacro (ie- rofania) nella vita degli uomini. Se il mito è un atto di creazione dello spiri- to indipendente dalla storia, ma anzi fonda esso stesso la storia, ciclicamen- te ripetendosi nel corso di essa, la storia delle religioni è quindi la storia delle ierofanie che si ripetono nel tempo e nello spazio, riproponendo l'al- ternanza sacro/profano con le feste (espressione del tempo) e con i centri del mondo (espressione dello spazio), sui quali gravano le «credenze di in- vestitura del prestigio»6.

5. Codesto fondamentale bisogno è evidente, per esempio, nel neonato, il quale necessita del riferimento fondamentale rappresentanto dall’abbraccio materno. In mancanza di questa primordiale guida nell’orientamento nello spazio, il cucciolo di Homo Sapiens si sente per- duto e viene sopraffatto dall’angoscia.

6. M. Eliade, Archetipi e ripetizione, in Il mito dell’eterno ritorno, 1949, Borla, Torino, 1966: p. 27; lo stesso concetto si trova nel capitolo Lo spazio sacro: tempio, palazzo, centro

del mondo, in Trattato di storia delle religioni, 1949-1964, Einaudi, Torino, 1954: pp. 140-

La teoria dell’axis mundi, tuttavia, va considerata valida solo parzial- mente per il semplice fatto che la riorganizzazione del territorio non è a- prioristicamente sacralizzata, né può corrispondere a quelle direzioni asso- lute, metafisiche e archetipiche indicate da Eliade, poiché lo spazio è in- nanzitutto funzionale alle esigenze immediate ed economicamente utili ai gruppi sociali, come il movimento nel territorio, la caccia, la pesca, la posi- zione delle coltivazioni. L’elemento ideologico, dunque, non è fondante, ma parziale e relativo all’elemento pratico: non a caso, nella seconda metà del Novecento le ricerche su ambiente e territorialità sono state integrate dai contenuti dell’etologia, la quale ha evidenziato le forme più elementari di localizzazione, divisione e difesa dello spazio per il regno animale. E se per quest’ultimo il territorio comprende, in genere, la zona di nidificazione o la tana, con un’estensione variabile destinata alla ricerca del cibo, nel contesto umano possiamo osservare il medesimo meccanismo di alternanza o pendolarità. Si pensi, per quanto concerne l’Europa, all’epoca altomedio- evale, quando la produzione agricola decadde determinando il restringi- mento delle aree antropizzate e il notevole avanzamento del saltus, ossia l’incolto selvaggio e sconosciuto nel quale l’uomo proiettò le proprie ango- sce popolandolo di creature feroci come serpenti, lupi e orsi che, pur nella loro diabolicità solo virtuale, hanno conservato fino ai tempi attuali un le- game simbolico con gli abitanti7.

Dunque, l’alternanza dei fattori climatici o del sovrappopolamento mo- difica continuamente le simbologie di spazio, ambiente e territorialità. L’ambiente è, perciò, un connubio vissuto di spazio e azione che rappresen- ta l’ideologia di una cultura e, nello stesso tempo, ne riflette l’operatività materiale, venendo modificato differentemente dagli uomini che con esso si relazionano. E l’ancoraggio psicologico di quegli uomini al loro spazio sarà sempre vincolato ad una particolare visione simbolica e collettiva, dunque sociale, dei luoghi, la quale si manifesta insieme attraverso l’orientamento e l’auto-identificazione con lo spazio, operazione mentale che può essere de- finita come un fenomeno di comportamento unito all’organizzazione dello spazio in sfere d’influenza nettamente delimitate, che assumono caratteri distintivi e possono essere considerate, almeno in parte, esclusive di chi li

7. Si pensi, per l’Abruzzo, al culto dei serpenti a Cocullo (AQ) e alla festa del lupo a Pretoro (CH), dove S. Domenico di Sora è divenuto il simbolo locale dell’addomesticazione dell’animale selvatico il quale assurge, tuttora, a rappresentare una dimensione che, da nega- tiva, può diventare positiva per l’intercessione del carisma di santità, cfr. A. M. di Nola Gli

aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Boringhieri, Torino, 1976: pp.

occupa e di chi le definisce. Per questo, la territorialità si fonda su due fun- zioni complementari, l’una positiva (nei confronti di un’area particolare), l’altra negativa (nei confronti di altri individui). Attacco e difesa sono quindi collegati, e alla funzione etologica principale, che comprende l’alimentazione e la difesa dell’individuo, della coppia e dei piccoli, si ag- giungono altre funzioni, attinenti ai rapporti con i vicini e gli estranei.

L’appropriazione materiale e simbolica dello spazio, cioè la sua cultu- rizzazione, avviene in base alla complessa rete di passaggi sociali alla cui base si trovano l’abitazione e gli spazi circostanti secondo schemi concen- trici8; per cui, un’entità costruita in un materiale qualsiasi, variabile di cul- tura in cultura, identificabile anche solo in una grotta o una stuoia sotto un albero, è sufficiente a «consacrare un interno, distinguendolo dall’esterno»9. In molte delle società arcaiche e tradizionali, possedere una casa è fondamentale per scandire i tempi del lavoro e del riposo, dell’alimentazione e del sonno, dell’ospitalità e della malattia, del confort e della coibentazione; quando si è lontani o in pericolo si pensa alla casa, e per essa si combatte fino alla morte; a casa, infine, si muore, circondati dal- la famiglia10. Per questo, la casa diventa il simbolo della continuità familia- re e dei valori ad essa connessi: vi vivono i genitori, i nonni e, in forme simboliche, gli antenati; per alcuni popoli, vi trova ancora luogo l’intera educazione delle giovani generazioni. Il villaggio, per sommi capi, obbedi- sce alle stesse funzioni ma in senso allargato, ed in questo viscerale senso dell’appartenenza culturale il campanile, specialmente nella frammentaria

8. L’organizzazione del territorio corrisponde ai rituali ierofanici (già citati), celebrati per rendere abitabile un luogo sottraendolo al caos naturale. Per una antropologia storica dell’organizzazione del territorio e dell’habitat, cfr. Enciclopedia delle Religioni, Vallecchi, Firenze, 1972, alle voci Geografia e religione (vol. II: 1701) e Città e sua fondazione (vol. II: 260), curate da A. M. di Nola.

9. G. Castelli Gattinara, Antropologia dell’habitat, in AA. VV., Antropologia della casa, Carabba, Lanciano, 1981: p. 30.

10. La casa rappresenta il contesto principale dello svolgimento della vita e, dunque, della morte, come documentavano i demologi siciliani di fine Ottocento: «Il contadino, at- tendendo rassegnato ma non sgomento il dì postremo, non desidera altro, non prega altro che egli muoja tra le mura e nel letto proprio, considerando come il peggio dei malanni la morte che coglie fuori di essi», S. Salomone Marino, Costumi ed usanze dei contadini di Sicilia, 1897, Forni, Bologna, 1970: p. 13. La predisposizione al trapasso casalingo ed in età anzia- na è legata alla necessità di redenzione caratterizzante la fede di matrice cristiana; nel mon- do antico, invece, non si aborriva proprio la morte, quanto invece la vecchiaia, l’infermità e la costrizione in casa, esaltando la morte in guerra e il suicidio, considerato atto di estrema libertà morale, cfr. A. M. di Nola, La nera signora. Antropologia della morte, Newton Compton, Roma, 1995.

struttura del territorio italiano ed europeo, rappresentava l’universo totaliz- zante di ogni agglomerato civico, anche microscopico; era il campanile, in- fatti, che sia visivamente, sia acusticamente, fungeva da faro per l’orientamento nelle campagne e scandiva, con i rintocchi delle campane, i ritmi lavorativi e festivi del gruppo, dunque l’intera vita della comunità e degli individui, dalla nascita alla morte.

La casa e l’abitato, allora, hanno, fino a pochi decenni or sono, rappre- sentato la continuità nel tempo del proprio essere, elevato a parte tempora- neamente visibile di un lungo filone culturale di cui questi due elementi so- no la materializzazione. È evidente come la presa di possesso del suolo e la determinazione dei confini (da cui conseguono la qualificazione della pro- pria identità etnica ed il ricorso alla guerra) costituiscano una costellazione linguistica e simbolica che viene sollevata all’universo del sacro. Bastereb- be pensare alla rete cerimoniale di delimitazione dei termini che i Romani avevano ereditato dagli Etruschi e che circondava di maledizioni coloro i quali li violassero. Un aspetto sacrale e politico non dissimile è ravvisabile, nel mondo cristiano, nel grande rito delle Rogazioni, dove il prete, accom- pagnato dai fedeli, si recava nei quattro punti cardinali del paese e pronun- ziava formule di benedizione per allontanare le calamità e per purificare il territorio nel quale i fedeli riconoscevano se stessi e la loro comunità.

In seguito al rapido passaggio dalle società tradizionali alla post- modernità (dal tribale al globale, per intenderci), l’uomo si è trovato di fronte a territori senza potere, e alla mercé di poteri senza territorio11. Pur essendo fondata su rapporti di violenza (si pensi alla forza cogente con cui operavano le religioni, l’ordine gerarchico, le mitologie e il controllo socia- le), la rete simbolica del totem, del campanile e delle radici riscattava la persona, dandole una maggior sicurezza dell’essere nel mondo. Nella socie- tà in cui il denaro, invece, ha decentrato l’uomo rendendolo vittima e servo dell’anonimia degli imperi finanziari (il villaggio globale, basato sulle rigi- de leggi del profitto, ha bisogno che tutti gli uomini abbiano le medesime esigenze, in quanto il profitto raggiunge la massima consistenza quanto più pianificati e accomunati sono i bisogni dei consumatori), il disfacimento degli schemi di atavica frugalità caratterizzanti la civiltà contadina ha forni- to una spinta propulsiva per l’emigrazione di massa ed il distacco traumati- co dal proprio ambiente e dalla propria visione del mondo, con la conse-

11. S. Latouche, Si può parlare di glocalismo culturale?, in AA. VV ., Territorio e iden-

tità culturale, Atti del Congresso Internazionale di Studi in onore di A. M. di Nola, Cocullo,

guente proiezione in contesti urbani anonimi e indecifrabili i quali, impli- cando nuovi modelli spazio-esistenziali connessi alla sfaccettatura e fluidi- ficazione dell’identità12, hanno ulteriormente indebolito i confini dell’essere, mettendo in crisi l’uomo nella sua essenza.

Ambasciatore di questo filone, assai critico nei confronti di questo cam- biamento della condizione spazio-esistenziale che caratterizza la post- modernità, è stato, nella seconda metà del Novecento, E. De Martino13 che, con le espressioni di crisi della presenza e angoscia territoriale, indicò quella perdita di orientamento materiale ed esistenziale che di frequente porta ai più strani tipi di alienazione e nevrosi: «la presenza entra in rischio quando tocca i confini della sua patria esistenziale, … quando perde l’orizzonte culturalizzato oltre il quale non può andare e dentro il quale consuma i suoi oltre operativi: quando cioè si affaccia sul nulla»14. Il quoti- diano malessere delle ultime generazioni che, col ricorso ad orientalisti, fa- natismi, oroscopi, magia, esoterismi e droghe, esprimono il bisogno di an- corarsi a piani di visione diversi, non tarati sull’etica materialistica e tecno- logica della società dei consumi, è correlato, dunque, alla deterritorializza- zione la quale, nei casi migliori, viene risolta sul piano rituale; ciò accade, in particolare, presso gli emigrati15, i quali hanno instaurato processi intesi ad auto-riscattarsi dall’angoscia attraverso la riproduzione, nelle sedi di immigrazione, dei modelli territoriali e linguistici di origine, creando quar- tieri funzionali a lenire i traumi del distacco dal territorio di provenienza, determinando, nello stesso tempo, un rallentamento della propria dinamica dell’integrazione.

12 Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, 2000, Laterza,Roma, 2006.

13. Ernesto de Martino, nome più importante dell’antropologia italiana, i cui lavori mul- tidisciplinari sul tarantismo e sul lutto sono spesso stati confinati nell’area degli studi folklo- rici, segnò la strada delle questioni metodologiche e strutturali dell’antropologia. Il suo ap- proccio, derivato da quello gramsciano e riguardante anch’esso i fenomeni del potere e dell’egemonia, individuò nella crisi della presenza la conseguenza sociale ed individuale di un lutto o, in questo caso, della perdita dei punti di riferimento spazio-culturali implicita

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