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Sociologie della città

5. La vita urbana nell’analisi della scuola di Chicago

Il pensiero di Simmel trova un terreno fertile negli ambienti accademici americani. Il sociologo tedesco, infatti, annovera tra i suoi allievi anche Robert Park, trasferitosi provvisoriamente in Europa29 per assimilarne la linfa culturale. Il background dello studioso americano contempla un’ormai sedimentata esperienza di ricerca che si è venuta a concentrare nell’università di Chicago dove, subito dopo il 1890, la prima istituzione americana di sociologia accademica è nata attorno ad Albion Small. L’humus pragmatista di quello stesso ateneo, dove anche Dewey tiene i suoi corsi, si colloca alle fondamenta di una delle più significative correnti della sociologia americana, l’interazionismo simbolico30. Quest’ultimo sa- rebbe, alle sue radici, inscindibile dalla scuola di pensiero di nostro più specifico interesse, cioè la scuola di sociologia urbana di Chicago, che si organizza per l’appunto attorno a Robert Park. Il retaggio delle comuni ori- gini risulterebbe particolarmente visibile nell’enfasi posta sulla vita quoti- diana e sugli universi culturali che, di continuo, si sviluppano al suo inter- no31.

Chicago costituisce, in ogni caso, un laboratorio interessante per chi si interessi di quotidianità urbane e di dinamiche territoriali. Ha meno di 100mila abitanti attorno al 1870, quando un incendio la rade al suolo. Ne annovera diversi milioni ai tempi di Al Capone e del proibizionismo, che sono anche quelli della maggiore creatività della scuola di Chicago. I nuovi arrivati provengono da aree geografiche assai diverse, e la convivenza non è sempre delle più facili. Gli spazi di una città sottoposta ad una così rapida trasformazione sarebbero, inoltre, teatro di una continua formazione e dis- soluzione di forme sociali e fenomeni culturali – proprio come nell’analisi della modernità che Simmel ci lascia nella sua estrema opera, il Conflitto culturale nella modernità del 1918. Accanto alle rappresentazioni simme- liane della modernità e della città moderna, vediamo recepita, da parte dei sociologi di Chicago, l’idea durkheimiana dell’anomia (che, in fondo, si coniuga assai bene con le prime due). La solitudine e il degrado morale e sociale sono l’inevitabile conseguenza del venire meno dei legami tradizio- nali. La “solidarietà” (direbbe, per l’appunto, Durkheim) si fa problematica.

29. Dopo essersi laureato in filosofia con William James e Josiah Royce.

30. Vedi, a questo proposito, V. Cesareo, Sociologia. Teorie e problemi, Vita e Pensiero, Milano, 1993.

31. Così secondo due degli epigoni delle sociologie di stampo interazionista, Barney Glaser e Anselm Strauss (The Discovery of Grouned Theory, Aldine, New York, 1967).

Studiando i percorsi esistenziali degli immigrati di origine polacca, per e- sempio, William Thomas e Florian Znaniecki32 introducono i termini di or- ganizzazione e disorganizzazione. L’esperienza del contadino polacco nel proprio ambiente rurale originario è quella dell’organizzazione. Le relazio- ni e le pratiche sociali hanno una loro configurazione precisa, definita e l’individuo dispone di solidi riferimenti esistenziali. Nel nuovo ambiente metropolitano subentra, invece, l’esperienza della disorganizzazione, con tutte le sue conseguenze patologiche e i tentativi di riorganizzazione che seguono (riemerge qualcosa dell’ottimismo evoluzionistico di Durkheim: l’anomia è propria di una fase di transizione, in vista di una nuova sintesi sociale di più elevato livello).

Sullo stesso argomento, vediamo capacitarsi uno tra i più promettenti al- lievi di Park, cioè Louis Wirth, nel suo studio sul ghetto. L’ebreo della pri- ma generazione, che arriva da un’Europa dove il ghetto costituisce spesso un’istituzione ufficiale, vive una sensazione di libertà totale, salvo stabilirsi nei pressi della sinagoga e della macelleria ebraica, come i suoi correligio- nari. Gli americani “wasp”33 si allontanano e la zona, nei fatti, ridiventa un ghetto. Se ne accorgono i suoi figli, ansiosi d’integrarsi e di emergere nell’esistenza sociale del “nuovo mondo”. Di nuovo, però, lasciandosi alle spalle il “ghetto”si stabiliranno gli uni nelle vicinanze degli altri, dando o- rigine ad un fenomeno della stessa natura.

Nella sua analisi sul ghetto, Wirth dimostra una straordinaria capacità di esplorazione e di analisi delle realtà sociali urbane, della loro cultura, della loro organizzazione e delle loro dinamiche interne, che quasi contrasta con il recupero, nell’analisi dell’urbanesimo come modo di vita, dello schema simmeliano in tutto il suo semplicismo dicotomico. Tanto per cominciare, in quest’ultimo scritto, l’autore cerca di identificare sulla base di una serie di caratteristiche l’oggetto del suo argomentare, cioè la città. In primo luo- go egli individua il numero degli abitanti: una città, per essere tale, deve avere tanti abitanti. Questo è vero, però non basta, altrimenti un grande numero di persone, disperso su di una landa ancora più grande, costituireb- be una città. Il secondo requisito, quindi, è la densità. Ma anche questo non basta, altrimenti un campo di concentramento sarebbe una città. Il terzo re- quisito è l’eterogeneità sociale degli abitanti. Le caratteristiche degli ag- gregati che presentino in misura accentuata questi tre requisiti (ovvero

32. Thomas W. e F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America, 1917-19, ed. cit. Comunità, Milano, 1967.

l’atomizzazione sociale e il carattere asettico e impersonale delle relazioni umane) possono essere spiegate come conseguenza della necessità di con- trollare, su di un piano psicologico e cognitivo, le dimensioni e la comples- sità dell’ambiente circostante. In Wirth, come in Simmel, siamo quindi di fronte ad una sorta di “sociologia negativa” della città: quest’ultima si ca- ratterizza sempre come assenza di qualche cosa: assenza di emozioni, as- senza di legami comunitari, assenza di valori tradizionali, assenza di obiet- tivi esistenzialmente rilevanti, assenza di radici.

Il modello di Simmel e Wirth fornirà (in positivo o in negativo) la base teorica di numerosi lavori di carattere empirico, anche grazie alla facile ri- spondenza che trova a livello di senso comune. Lo recupera, per esempio, il sociologo Claude Fischer34, se non altro per criticarlo e rovesciarlo nell’ambito delle sue ricerche sui movimenti e le subculture giovanili negli Stati Uniti (è proprio nelle grandi città, sostiene Fischer, che i fenomeni comunitari sono più frequenti ed intensi). Nei grossi centri l’intensità dei legami diminuisce? Tutta la più recente ricerca empirica sembra relativizza- re, ancorché non invalidare, questo basilare assunto. Il tutto può dipendere, per esempio, dal genere di legame in questione (per esempio, amicale piut- tosto che parentale) o dalle caratteristiche sociali e demografiche dei sog- getti considerati (gli anziani possono essere relazionalmente più deprivati in un contesto caratterizzato da un elevato grado di urbanizzazione, ma per i giovani può essere vero il contrario).

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