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Sociologie della città

6. La macchina e la giungla: i due volti urbani dell’Era Ford

Nel 1925 vediamo uscire simultaneamente, sulle due opposte sponde dell’Atlantico, due volumi che contengono riflessioni per tanti versi antite- tiche sulla città e, in particolare, sugli aspetti patologici della vita urbana. Il primo dei due volumi è l’Urbanistica di Le Corbusier; il secondo è il mani- festo della Scuola di Chicago, La città, raccolta di scritti curata dal già cita- to Robert Park35. Coerentemente con la propria ottica ecologica, per cui gli aggregati umani funzionerebbero secondo una logica intrinseca, analoga a quella degli ecosistemi naturali36, Park non ripone grande fiducia nella pia-

34. Fischer C., Toward a Subcultural Theory of Urbanism, in American Journal of Soci-

ology, 6, 1975.

35. Park R., La città, cit..

36. Attraverso processi di competizione, conflitto, assestamento ed assimilazione, che interessano rispettivamente la sfera economica, politica, l’organizzazione sociale e la perso-

nificazione urbanistica e nel controllo razionale del territorio, che non pos- sono non avere una portata estremamente limitata. Gli equilibri ecologici non sarebbero che il prodotto dell’aggregazione di una miriade di progetti, di desideri e di aspirazioni. Qualsiasi intervento di pianificazione troppo ambizioso sarebbe inevitabilmente destinato ad interferire con tali equilibri, producendo un insieme di reazioni e retroazioni che non potrebbero non avere, come conseguenza, il fallimento del progetto stesso. La città descrit- ta da Park assomiglia ad una giungla37. Possiamo calarci al suo interno ed osservare il disordine apparente che ne caratterizza i differenti contesti, do- ve identità e aspirazioni s’incontrano e si scontrano. Possiamo elevarci al di sopra di essa e scorgere, dietro a questo apparente disordine, un complessi- vo equilibrio.

Radicalmente diversa è l’ottica di Le Corbusier, animatore del movi- mento moderno in architettura. Questi utilizza immediatamente, per descri- vere l’urbanesimo del suo tempo, una metafora tratta dalla patologia: la cit- tà “concentrico-radiale”, la vecchia città che si sviluppa progressivamente, in maniera spontanea e incontrollata, attorno ad un centro, è paragonabile ad “un cancro che prosperi a dovere”. La natura del tutto spontanea e ca- suale di un siffatto sviluppo, che giustappone confusamente sedimenti del passato (edifici vetusti, vecchi tracciati viari), vale a spiegarne il carattere patogeno e soffocante, soprattutto in relazione con le esigenze di razionalità e funzionalità caratteristiche della vita moderna.

Il morbo che affligge la vita urbana, conclude Le Corbusier, può essere curato soltanto attraverso una massiccia dose di razionalità pianificatoria, tesa a proiettare la perfezione geometrica e funzionale del proprio progetto sul territorio. Il pianificatore urbano deve seguire l’esempio del primo uo- mo: utilizzare al meglio i mezzi di cui dispone, libero da ogni retaggio del passato sedimentato sul territorio o nell’anima, come se non avesse una sto- ria alle spalle. Per l’uomo emancipato dal pesante fardello del tempo cri- stallizzato nell’agire irriflesso, la razionalità è naturale e spontanea. Il pia- nificatore deve imporre la propria razionalità, senza curarsi dei desideri de- gli abitanti, condizionati da retaggi storici interiorizzati in forma di abitudi- ni. Anzi, attraverso la cristallina essenzialità degli spazi che crea per loro, l’urbanista svolge anche un compito di natura educativa. «Ogni spreco è

nalità, come sintetizzano Robert Park e Ernest Burgess in Introduction to the Science of So-

ciology, Chicago University Press, Chicago, 1921.

37. Jungle è il modo in cui gli hobo, i lavoratori transumanti delle città americane stu- diati da Nels Anderson, uno degli allievi di Park, definiscono i propri precari insediamenti (N. Anderson, Il vagabondo, 1923, ed. cit. Donzelli, Roma, 1994).

assai più che non una perdita economica – leggiamo su di una rivista degli anni cinquanta, intenta a spiegare i principi dell’architettura funzionalista – È un abbandono di questa razionalità che doveva essere il valore universale contenente in sé la propria ragion d’essere: è, al fondo, un’immoralità»38. La casa e la città devono essere concepite alla stregua di una macchina: un’autentica machine à habiter, secondo l’espressione dell’urbanista sviz- zero.

Tra le due componenti della modernità, razionalizzazione ed individua- lizzazione (o soggettivazione)39, Le Corbusier sembra privilegiare la prima a scapito della seconda. Antitetico rispetto a questo, dicevamo, è l’approccio maturato sulle sponde del Lago Michigan, dove l’attenzione si incardina sull’integrarsi di memorie, identità e aspirazioni in un complesso sistemico (o “ecologico”) funzionante secondo una propria logica intrinse- ca, refrattaria rispetto all’esogena razionalità del piano. Le Corbusier con- cepisce la città come un tessuto flessibile rispetto alla demiurgica razionali- tà del pianificatore. La Scuola di Chicago pensa, al contrario, ad un indivi- duo che, nella sua creatività, deve mostrarsi flessibile rispetto alle sponta- nee trasformazioni del contesto sociale ed urbano al cui interno si muove40. L’approccio dell’urbanista svizzero si collega, in realtà, egregiamente ad un più complessivo modello, costituito da un insieme d’ideologie, di mentalità e di pratiche politiche e organizzative, che cominciano ad affer- marsi nella fase interbellica, negli Stati Uniti del New Deal come nella Francia del Fronte Popolare, ma che saranno a tutti gli effetti egemoni nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale (cioè nella cosiddetta “età dell’oro” 1944-71)41. Si tratta di un modello che alcuni autori defini- scono fordista, caratterizzato da un elevato livello di fiducia nell’organizzazione e nella pianificazione razionale42. Centrale, nell’ambito

38. Calza L. et Al., Il problema della casa popolare, in Edilizia popolare, novembre 1957: p. 34.

39. Vedi in particolare, oltre all’analisi di Simmel e Weber già esposta, A. Touraine,

Critica della modernità, 1992, ed. cit. Il Saggiatore, Milano, 2004.

40. Ci troviamo di fronte alle figure del bohemien e dell’ebreo errante di cui parla Wil- liam Thomas, uno dei più significativi esponenti della Scuola (W. Thomas, Source Book of

Social Origins, Chicago University Press, Chicago, 1909).

41. Vedi soprattutto, a questo proposito, E. Hobsbawm, Il secolo breve, 1994, ed. cit. Rizzoli, Milano, 1997; D. Harvey, La crisi della modernità, 1989, ed. cit. Il Saggiatore, Mi- lano, 1993.

42. Il termine fordista è stato coniato da Antonio Gramsci, il quale osservava come negli Stati Uniti, diversamente che nella vecchia Europa, nel quadro di un capitalismo più maturo, l’organizzazione della grande fabbrica arrivasse a riflettersi direttamente sulla struttura della società.

di tale modello, è il tentativo di estendere la razionalità produttiva della fabbrica alla società considerata nel suo complesso, attraverso forme di re- golazione economica che sembrano generare meccanismi di crescita virtuo- si. Il continuo incremento retributivo dei lavoratori ne determina la capacità di assorbire livelli produzione crescente, contribuendo a perseguire, ad un tempo, il superamento delle crisi di sovrapproduzione che ciclicamente a- vevano interessato l’economia capitalistica e il miglioramento delle condi- zioni di vita a livello di massa. L’intervento dello stato attraverso politiche di welfare incide su queste ultime soprattutto in termini di certezze e garan- zie esistenziali. Regolamentazione e controllo dal punto di vista dell’organizzazione sociale e politica, crescente sicurezza sul piano sogget- tivo e biografico, sembrano costituire lo zeitgeist della golden age.

«È utile ricordare – scrive a tale riguardo Michel Husson43 – alcuni ele- menti dello scenario dell’epoca. Alla fine degli anni Sessanta si parlava di capitalismo regolato, organizzato, di convergenza dei sistemi sociali. Il fat- to che le fluttuazioni fossero tenute sotto controllo, lo sviluppo assicurato e il pieno impiego garantito, venivano presentati come acquisizioni del capi- talismo, che si sarebbe liberato delle sue tare di gioventù». Se, come già so- stenuto, la modernità si configura come difficile convivenza di individua- lizzazione e razionalizzazione, in questa fase storica il pendolo sembra spo- starsi verso il secondo dei due poli (la razionalizzazione, appunto). La rego- lazione tecnocratica si tradurrebbe, per lo meno nell’ottica di alcune visioni “apocalittiche” che fioriscono all’epoca, anche in un crescente controllo degli spiriti, attraverso le nuove “tecniche” psicagogiche: sono gli anni in cui Vance Pakard denuncia i “persuasori occulti” e in cui Marcuse teorizza l’avvento dell’“uomo ad una dimensione”, nonché la “chiusura dell’universo discorso”. Sicuramente, in un contesto di guerra fredda, il “compromesso di classe” keynesiano risponde a pressanti esigenze di legit- timazione politica, mentre la necessità di promuovere il consumo di massa, stimolando le corde del desiderio, costituisce una necessità di prim’ordine di un sistema fondato sulla crescita della produttività e del consumo: sono gli anni in cui l’industria pubblicitaria arriva a maturazione e in cui, per de- scrivere le nuove fenomenologie sociali, si conia il termine di “consumi- smo”.

La razionalità della fabbrica taylorista e della regolazione keynesiana si ritrova nella machine à habiter del razionalismo architettonico, che conosce

43. Husson M., Il capitalismo alla fine del XX secolo, Ed. Punto Rosso, Milano, 1995: p. 53.

una fedele applicazione anche (ma non soltanto) nelle colossali realizzazio- ni dell’edilizia residenziale pubblica dell’epoca. Quest’ultima, dopo gli as- sai timidi esordi dei primi decenni del Novecento, risponde a tutti gli effetti al connubio keynesiano di garanzia sociale e d’investimento pubblico fina- lizzato al sostegno della domanda. Lo slum operaio poteva costituire lo scenario urbano tipicamente associato alla prima industrializzazione. Il “quartiere dormitorio” periferico o suburbano, edificato per accogliere i nuovi arrivati o i segmenti di classe operaia espulsi dai più fatiscenti rioni della città storica, costituisce il tipico scenario urbano del trentennio d’oro. La centralità della grande fabbrica nelle dinamiche urbane e il prevalere di un linguaggio architettonico improntato al razionalismo, non esauriscono il discorso su questa fase storica. Altrettanto importante, a fronte dello svi- luppo dei consumi di massa, è il significato crescente degli spazi del con- sumo, dello svago e del loisir. Sono gli anni in cui, nelle città americane, si impone come centro della vita associata quella che Andrea Villani44 defini- sce “la nuova piazza” (lo shopping center o la mall), proseguendo una ten- denza che Walter Benjamin aveva già individuato nella città europea dell’Ottocento.

7. Verso un nuovo ordine urbano?

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