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Sociologie della città

Appendice 2 – Ogni giorno in Europa

2. Approcci alla pianificazione urbana

L’approccio attuale alla pianificazione urbana risente di un percorso av- viatosi negli Stati Uniti, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60, quando, dinanzi alla lotta del governo contro la povertà e il degrado urbano, emerse la ca- renza delle soluzioni proposte. Venne messo in forte discussione l’approccio tecnico razionale, dimostratosi inadeguato alla trattazione delle complessità delle problematiche politiche, sociali ed economiche, e ci si ri- trovò a prendere atto che la pianificazione è portatrice di giudizi di valore, riferibili alle diverse categorie sociali, smentendone la tanto sostenuta neu- tralità. In particolare, nel 1963, un gruppo di architetti di Manhattan vollero dar voce a dei poveri (soggetti tradizionalmente esclusi dai processi deci- sionali), permettendo loro di esprimere il proprio dissenso nei confronti del piano redatto dall’amministrazione, proponendo delle alternative progettua- li alla costruzione di una autostrada, e dando vita, attraverso l’“Architectural Renewal Commitee di Harem” – il primo Centro di archi- tettura che si autodefinì di community design – ad un percorso alternativo di advocacy planning2. Fu il sociologo americano Paul Davidoff3 che, nel 1965, rapportò alla tradizione teorica l’intero percorso e definì il modello di pianificazione alternativo a quello razional-comprensivo, prevedendo una partecipazione pubblica al dibattito politico sull’indirizzo degli interventi governativi in campo sociale ed urbano.

L’advocacy planning e il community design si tradussero nel “Vecchio Continente” nel community planning4, che caratterizzò inizialmente la sola

2. L'advocacy planning è uno dei tentativi più organici di promuovere una partecipazio- ne effettiva del cittadino e di dare spazio decisionale alle comunità locali. Per approfondi- menti vedi Maurizio Carta, Pianificazione territoriale e urbanistica. Dalla conoscenza alla

partecipazione, Medina, Palermo, 1996.

3. Il termine advocacy planning venne coniato da Davidoff, in un articolo del novembre del 1995, vedi Davidoff P., Advocacy and Pluralism in Planning, in Journal of the American

Institute of Planners, 1965, 4: pp. 331-338.

4. Con il termine community planning ci si riferisce ad una serie di modelli e stili di pro- grammazione, fondata sulla partecipazione attiva del cittadino e sul coinvolgimento della

Inghilterra, e si diffuse poi nel resto dell’Europa, nelle forme di partecipa- zione istituzionalizzata che ancora oggi stiamo vivendo con lo sforzo di in- trodurre nuove professionalità e nuove competenze attinenti lo sviluppo so- stenibile e condiviso5.

In Italia, si è ha avuto uno grosso contributo concettuale quando l’Università di Architettura di Venezia ha avviato nel 1970 dei corsi di Pia- nificazione territoriale, urbanistica ed ambientale.

Da allora la politica urbana è stata interessata da una molteplicità di cambiamenti, che hanno riguardato le modalità di governo dello spazio pubblico, le forme di partecipazione e la qualità delle relazioni tra i cittadini e le istituzioni locali6. Il tentativo è stato quello di superare la logica proce- durale, gestita esclusivamente dall’urbanista, per arrivare ad un approccio globale, intersettoriale e multiculturale, attraverso un percorso processuale dinamico, che prevede il coinvolgimento ampio di vari consulenti e stake- holders; questi co-producono proposte attorno a cui mobilitare consenso

comunità nei processi di formazione del piano, e nella quale la progettualità fisica si collega a quella economica e sociale al fine di promuovere uno sviluppo equo; la comunità è consi- derata nel complesso delle sue articolazioni - le sue istituzioni, le associazioni di volontaria- to, i gruppi di volontariato, i gruppi informali, le imprese economiche. Per ulteriori appro- fondimenti vedi Venturini L., Urbanistica e comunità. Politiche e piani per la rigenerazione

urbana a New York, Dipartimento di studi urbani, Università degli Studi – Roma 3, Roma,

2004, tesi di dottorato.

5. «Con maggior enfasi culturale nella Gran Bretagna degli ultimi anni, e con maggiori risvolti legislativi e di movimenti popolari referendari in Italia, e altrove in Europa (per 1’Italia, cfr. le leggi del 1990 n. 142 e 241), si sta affermando l’esigenza di una riappropria- zione anche pratica dei diritti di cittadinanza da parte dei singoli cittadini, in rivolta pacifica contro un certo modo di intendere la democrazia politica attraverso un eccesso di delega del- la vita politica ai partiti e agli apparati centrali. Nuova cittadinanza viene da molti assunta pure come exit dalla polarizzazione tradizionale ideologica tra partiti di destra e di sinistra. Va detto che si ha riscoperta, spesso minuta e concreta, dei diritti del cittadino, anche nei riguardi dei disabili. Donde la esplicitazione dei diritti del malato spedalizzato, dell’handicappato, del minore, dell’anziano non autosufficiente, ecc., specie nei confronti delle tecnoburocrazie di welfare state e della burocrazia pubblica», in Ardigò A. e G. Maz- zoli, a cura di, Le nuove tecnologie per la promozione umana, FrancoAngeli, Milano, 1993: p. 33. Sulla capacità dell'advocacy planning di creare una reale democrazia urbana, Robert Goodman, sostiene: «l’advocacy planning può al massimo riuscire a trasferire un certo pote- re urbanistico ai quartieri a basso reddito, a bloccare interventi pubblici, ma queste comunità devono sempre operare entro i limiti imposti da persone che vivono fuori dal loro ambito e hanno interessi totalmente diversi dai loro» (Goodman R., Oltre il piano, Il Saggiatore, Mi- lano, 1972: p. 31).

6. Avallone G., Gli spazi della nuova politica urbana. Governo e partecipazione nelle

città contemporanee, http://www.sociologia.unical.it/ais2004/papers/avallone%20paper.pdf.

Vedi anche Bussadori V., The Italian recognition of Spatial Planners, http://www.ceu- ectp.org/inc/cgi/dd/dd20051130.pdf, 2005.

per l’individuazione delle priorità, in un’ottica multidimensionale e multi- disciplinare, utile ad affrontare gli alti livelli di complessità in gioco7.

Vi sono state innumerevoli critiche al modello razionale, alcune delle quali negano il carattere sistemico della città, negando addirittura che sia opportuno parlare delle città come entità significative, e proponendo una rappresentazione degli spazi postindustriali come intersezioni di reti eco- nomiche e sociali di ampiezza internazionale, legate dai flussi di informa- zione, slegate dalla fisicità del luogo e dalle distanze, per cui è assoluta- mente inutile ipotizzare di poter sviluppare progettualità complesse. In que- sta impostazione ha senso la libera progettazione degli snodi comunicativi, rappresentati dai nodi direzionali, svincolati da qualsiasi controllo pianifi- catorio: «Perciò, lo strumento privilegiato dell’intervento non è il piano (corredato delle analisi preparatorie e delle previsioni di sviluppo), ma il progetto architettonico, con la sua autonomia formale e la sua valenza este- tica»8 e ciò «ha costituito una giustificazione a una prassi di intervento sulla città basata su grandi opere, spesso slegate da effettive ipotesi di sviluppo delle città, nelle quali il finanziamento pubblico ha semplicemente aperto la via a redditizi interventi di grandi gruppi finanziari, promotori immobiliari, imprese di costruzione»9.

In opposizione alle critiche al modello razionale, si sono sviluppati per- corsi che rivalutano la possibilità di influire sulle città in base a criteri di sviluppo individuati sulla base di obiettivi pubblici co-definiti10. I nuovi approcci, infatti, tendono a superare le difficoltà in cui ci si è venuti a tro- vare affrontando la pianificazione attraverso studi settoriali separati, facen- do fronte agli atteggiamenti paralizzanti conseguenti le difficoltà di lettura delle complessità e dell’imprevedibilità dei fenomeni in gioco, con uno stimolo all’approfondimento degli elementi, delle relazioni, dei processi e delle tendenze, attuato secondo visioni orientate alla scoperta, e tracciando nuovi percorsi di semplificazione delle procedure di regolazione della pia-

7. Sugli aspetti connessi alla complessità dei fenomeni vedi Morin E., La conoscenza

della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1986. Cfr. anche: APAT (Agenzia per la protezione

dell’ambiente e per i servizi tecnici), Agenda 21 Locale 2003. Dall’Agenda all’Azione:linee

di indirizzo ed esperienze, http://www.provincia.vt.it/agenda21/flies_PDF/APAT.pdf.. Carta

M., op. cit., 1996.

8. Mela A., Sociologia delle città, Carocci, Roma, 1996: p. 128. 9. Ibidem.

10. A tal proposito vedi il contributo di Occelli S., Le metodologie come impegno

all’azione: il ruolo dell’attività modellistica in Cecchini A. e A. Plaisant, a cura di, Analisi e modelli per la pianificazione. Teoria e pratica: lo stato dell’arte, FrancoAngeli, Milano,

nificazione. Gli stessi autori che sostengono questi approcci, addossano il livello di laboriosità procedurale, che comunque ancor oggi permane, più che ad una reale indispensabilità tecnica, a forme di esclusione di chi non ha conoscenza ampia e approfondita delle problematiche tecniche. E ciò, sostengono, è adeguato esclusivamente per una amministrazione strumenta- le del consenso, attuata attraverso il controllo dei privilegi di coloro che so- no abitualmente coinvolti nella gestione del territorio, pietrificandone ruoli e poteri.

L’adozione di una prospettiva partecipata nell’ambito della pianifica- zione urbana, implica la messa in atto di percorsi dinamici e interattivi, di confronto fra i soggetti portatori sia di competenze professionali che dell’uomo della strada. Il raffronto permetterebbe di mettere in campo i- stanze, aventi pari dignità di trattazione, e di condividere intese e proposte finali attraverso processi di mediazione11.

La complessità nello studio dei sistemi urbani tiene conto degli innume- revoli processi messi in gioco dalla elevata varietà delle problematiche che contraddistinguono lo spazio urbano12.

Lo studio dei sistemi urbani quali “sistemi complessi”13 rimanda ad ap- profondimenti teorici non affrontabili in questo contesto; a tal proposito è utile riferirsi a quanto definisce la Occelli14: «ci si può accontentare di e-

11. Gli studiosi del tema, nella loro analisi, hanno messo in luce questi aspetti e hanno formulato un nuovo paradigma del planning, caratterizzato fondamentalmente da:

(1) la ricerca di soluzioni alternative, accettabili in relazione a diversi criteri;

(2) una maggiore integrazione tra dati, hard e soft, e giudizi sociali, rispetto al cumulo di informazioni;

(3) una maggiore semplicità e trasparenza per chiarire le cause di conflitto; (4) la concettualizzazione delle persone come soggetti attivi;

(5) la promozione delle forme di pianificazione bottom-up;

(6) l’accettazione delle incertezze e la ricerca di opzioni “aperte”, in vista di una loro fu- tura attuazione.

Cfr. Attili G., M. Ayuso, C. Cellamare e A. Ferretti, Regolamento per la partecipazione

alle scelte urbanistiche e alle trasformazioni urbane, in Castelli G., a cura di, Metodi e pro- cedure di partecipazione alle trasformazioni e alle scelte urbanistiche, Aracne, Roma, 2005:

p. 28. Sull’argomento, vedasi anche La Guida del Consiglio europeo degli urbanisti per i

pianificatori territoriali ed urbanisti, Try it this way. Lo sviluppo sostenibile a livello locale,

http://www.ceu-ectp.org/inc/cgi/dd/dd20040504.pdf. 12. Cfr. anche Occelli S., op. cit.: p. 75.

13. «si diffondono schemi analitici che considerano i sistemi territoriali come sistemi e- stremamente complessi, anzi “ipercomplessi”, dotati non di un unico centro regolatore, ma di una molteciplità di decisori diffusi, tra cui non esiste necessariamente cooperazione e di- visione funzionale dei compiti» ripreso da Mela A., op. cit.: p. 127.

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