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La dimensione spaziale della vita sociale

3. Lo spazio della politica oltre la “trappola territoriale”

La riflessione di Schmitt sulla relazione problematica fra politica e terri- torio costituisce in qualche modo un’eccezione, perché il tema dello spazio e della sua costruzione ha iniziato a essere affrontato solo piuttosto recen-

30. Ibid.: p. 110. 31. Ibid.: pp. 112-113.

temente, almeno nel campo degli studi politici. Più ancora delle altre scien- ze sociali, gli studi politici sono spesso caduti in quella che John Agnew ha efficacemente definito come un’insidiosa “trappola territoriale”, una trap- pola che spinge a considerare il territorio e i suoi confini come elementi so- stanzialmente “naturali” e, dunque, “prepolitici”32. Uno degli esempi em- blematici delle implicazioni di una simile operazione può essere rinvenuto nello studioso che, nel corso del Novecento, ha fornito la definizione pro- babilmente più influente dello Stato e della politica: Max Weber. In alcune sue celebri pagine, Weber definisce la politica secondo due modalità com- plementari: per un verso, come «la direzione oppure l’attività che influisce sulla direzione di un’associazione politica, cioè, oggi, di uno Stato»33, e, per un altro, come l’«aspirazione a partecipare al potere o ad influire sulla ri- partizione del potere, sia tra gli stati, sia nell’ambito di uno stato tra i grup- pi di uomini compreso entro i suoi limiti». In modo piuttosto evidente, que- ste formule di Weber mostrano come la politica non risulti definibile se non evocando la figura dello Stato, nel senso che la politica risulta concepibile - ai suoi occhi – soltanto come l’attività di direzione di uno Stato, o come il tentativo di influire sulla direzione di uno Stato, o, infine, come confronto e contrapposizione fra Stati differenti. Quali siano le implicazioni della diffi- coltà di Weber è palesato peraltro dalla definizione di “Stato” che fornisce: lo Stato, secondo le parole di Weber, è infatti «quella comunità di uomini che, all’interno di un determinato territorio» – un elemento, questo del terri- torio, che è tra le sue componenti caratteristiche – «pretende per sé (con successo) il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica»34.

Per molti versi, la celebre definizione di Weber non fa che declinare su un piano di sociologia politica quella triade di governo, popolo e territorio che, secondo la teoria giuridica di fine Ottocento, costituiva il nucleo fon- dante di ogni Stato. Anche per Weber, infatti, lo Stato era dato sostanzial- mente da tre elementi: 1) una “comunità di uomini”, 2) un “determinato ter- ritorio”, 3) l’esercizio del “monopolio dell’uso legittimo della forza fisica”. Ma proprio in questa celebre definizione emerge l’insidia della “trappola territoriale”. Quando individua nella capacità di pretendere per sé con suc- cesso il monopolio legittimo della forza, Weber si concentra infatti in modo quasi esclusivo sulle due componenti della legittimità e della forza, mentre tralascia di considerare in modo problematico il nodo della “territorialità”. Almeno implicitamente, perciò, Weber segue in questo caso il sentiero del-

32. Agnew J., The territorial trap: the geographical assumptions of international rela-

tions theory, in Review of International Political Economy, 1: pp. 53-80.

33. Weber M., La politica come professione, Einaudi, Torino, 1971: pp. 47-49. 34. Ibid.: p. 53.

la Allgemeine Staatslehre ottocentesca, che aveva assunto – come presup- posto di base della propria analisi – l’idea che lo Stato fosse l’espressione di un popolo geneticamente connesso con un determinato territorio35.

La “trappola territoriale” ha investito, senza rilevanti eccezioni, gran parte delle scienze sociali e, in particolare, quelle discipline che considera- no con maggiore attenzione il ruolo interno e internazionale delle istituzioni e degli attori politici. Come ha sottolineato acutamente Agnew, questa “trappola” discende da tre assunzioni principali: 1) l’idea che lo Stato con- trolli pienamente i propri confini territoriali; 2) l’immagine di una netta di- stinzione fra politica interna e politica internazionale; 3) l’idea che lo Stato costituisca una sorta di «contenitore» per tutti i processi sociali, economici, culturali che si svolgono all’interno dei suoi confini36. Queste tre assunzioni – al fondo di gran parte della ricerca teorica del Novecento, nel campo della teoria dello Stato, della sociologia politica, delle Relazioni Internazionali – implicano proprio l’idea di una coincidenza fra lo spazio politico e lo spa- zio naturale, un’idea che, seppur in modo implicito, non giunge soltanto a “naturalizzare” lo spazio politico, ma, soprattutto, espelle dal campo anali- tico la questione cruciale relativa alla “costruzione” politica dello spazio e del territorio.

Utilizzando una classificazione proposta da Neil Brenner, Bob Jessop, Martin Jones e Gordon MacLeod, si possono però distinguere tre differenti livelli a cui affrontare il problema dello spazio politico e, più precisamente, del rapporto fra Stato e spazialità. In primo luogo, si può concentrare lo sguardo sullo spazio statale inteso in senso specifico: in tale prospettiva, un determinato assetto dello spazio politico costituisce il risultato di specifiche modalità di “territorializzazione” del dominio politico, che, nel caso del contesto europeo, sono il riflesso soprattutto del processo (tutt’altro che li- neare) di State-building, ossia dell’affermazione di un centro sovrano capa- ce di imporre il proprio controllo e che è in grado di ottenere un riconosci- mento internazionale da parte degli altri soggetti del sistema interstatale. Da questo punto di osservazione, lo spazio statale viene a indicare «la spaziali- tà dello Stato stesso, considerato come un insieme di istituzioni giuridico- politiche e capacità di regolazione fondate sulla territorializzazione del po- tere politico»37. Sottolineare il nesso fra l’esercizio del potere politico e un determinato territorio non è secondario, perché sono esistite forme storiche

35. Cfr. Sul punto le considerazioni di Brenner N., B. Jessop, M. Jones G. MacLeod, In-

troduction, nel volume da loro curato State/Space. A Reader, Blackwell, Oxford, 2003: pp.

1-26.

36. J. Agnew J. Op. cit..

di organizzazione politica che non implicavano alcun tipo di stabile territo- rializzazione. Inoltre, rispetto ai precedenti tentativi di territorializzazione del potere, la statualità moderna introduce un’innovazione significativa, che viene a trasformare in modo sostanziale l’elemento della territorialità: quest’ultima diventa infatti elemento cruciale non soltanto per il controllo esercitato dall’autorità politica all’interno dei confini, ma anche il principio che viene a caratterizzare in modo tendenzialmente uniforme ciascuna unità sovrana nel quadro del sistema degli Stati38. Il momento che sancisce la de- finizione del sistema interstatale viene tradizionalmente individuato nella Pace di Vestfalia (1648), al termine delle guerre di religione che avevano sconvolto per un trentennio il continente europeo: con quel trattato, almeno in termini generali, viene riconosciuta l’esistenza di una serie di unità poli- tiche, ognuna delle quali risultava sovrana all’interno dei propri confini. Benché quel modello teorico si rispecchiasse solo parzialmente nella real- tà39, nei secoli successivi, il consolidamento del sistema degli Stati e l’affermazione del modo di produzione capitalistico confermano il ruolo di “contenitore di potere” dell’organizzazione statale e il suo radicamento ter- ritoriale, almeno – come ha notato Peter Taylor – sotto cinque differenti profili: i) la difesa militare e la gestione della funzione bellica; ii) il conte- nimento e lo sviluppo della ricchezza economica nazionale; iii) la promo- zione di identità politiche “nazionalizzate”; iv) l’istituzionalizzazione di forme democratiche di legittimazione; v) l’avvio di differenti forme di poli- tiche di welfare40.

In secondo luogo, il territorio si presenta come uno spazio politico in senso “integrale”, nella misura in cui viene a configurare, al proprio inter- no, un’area omogenea economicamente, socialmente, culturalmente. In questa seconda prospettiva, lo sguardo si focalizza sulle modalità con cui le istituzioni politiche intervengono sulla società per regolarla e per riorganiz- zare le relazioni economiche e sociali, oltre che, in particolare, per ridurre le differenze territoriali. Le politiche volte a costruire i presupposti per in- vestimenti e accumulazione hanno infatti implicazioni evidenti anche sulla

38. Cfr. Taylor P.F., The State ad Container: Territoriality in the Modern Worls-System, in N. Brenner, B. Jessop, M. Jones e G. MacLeod, a cura di, Op. cit.: pp. 100-113.

39. In realtà, la Pace di Vestfalia mostrava ancora un debito piuttosto forte nei confronti della tradizione medioevale: cfr. per esempio Krasner S.D., Rethinking the sovereign state

model, in Review of International Studies, 27, 2001: pp. 17-42.

40. P.F. Taylor, Op. cit.. Ma cfr. anche Agnew J. e S. Corbridge, Mastering Space: He-

gemony, Territory anc International Political Economy, Routledge, London, 1995; Paasi A., Territories, Boundaries and Consciousness: The Changing Geographies of the Finnish- Russian Border, John Wiley, Chichester, 1996.

definizione dello spazio, nella misura in cui favoriscono la concentrazione in determinate aree dei flussi di investimento, incentivano la formazione di agglomerati industriali, sostengono investimenti strutturali o regolamentano movimenti demografici41.

Infine, un territorio si presenta come uno spazio anche - e forse soprat- tutto - in virtù di una determinata rappresentazione, sia perché l’imposizione di demarcazioni territoriali implica sempre l’imposizione di un’identità linguistica, etnica o culturale, sia perché il conflitto sulla rap- presentazione di una comunità, della sua identità e del suo immaginario, è il presupposto della definizione (e ridefinizione) dei confini amministrativi e politici di uno Stato o di una regione. In altri termini, in questo caso la con- figurazione spaziale rimanda al rapporto fra “potere” e “sapere”, ossia a quella funzione di categorizzazione implicata dalla relazione di potere. Le componenti simboliche e rappresentative connesse alla spazialità politica attengono al ruolo costitutivo delle “iconografie regionali” di Gottmann e alle pratiche performative di ogni discorso regionalista già individuate da Bourdieu.

Partendo anche da queste sollecitazioni, la riflessione degli ultimi anni si è concentrata in modo specifico su queste diverse dimensioni, giungendo a una “riscoperta” (o a una vera e propria “scoperta”) del luogo, capace di porre in discussione gli assunti “naturalistici” della “trappola territoriale”. La persistenza di comportamenti elettorali localistici e il successo di movi- menti e partiti separatisti hanno così contribuito a riflettere con maggiore attenzione sulla componente del luogo nella determinazione dei comporta- menti politici, oltre che a mettere in questione l’assunto della centralità del- lo Stato nazionale per la spiegazione dei fenomeni politici42. D’altronde, se nella stagione dei “Trenta gloriosi” la dimensione locale – insieme allo stesso concetto di “luogo” – era stata considerata quasi senza eccezioni co- me un lascito della prima industrializzazione, destinato a essere superato più o meno rapidamente, dopo gli anni Settanta l’idea che lo sviluppo fosse necessariamente destinato a produrre una maggiore concentrazione econo- mica, una omogeneizzazione territoriale e una sempre più stretta pianifica- zione politica è stata posta seriamente in questione. Rimettendo al centro le specificità locali, le peculiarità dei contesti istituzionali o addirittura l’“atmosfera” del territorio (come nella teoria dei “distretti industriali” ela- borata da Alfred Marshall), studiosi di diversa formazione hanno in effetti

41. N. Brenner et Al., Op. cit.: p. 9. Un approfondimento di questo aspetto si trova, per esempio, in Harvey D., La crisi della modernità, 1990, ed. cit. Il Saggiatore, Milano, 1993.

42. Cfr., sulle dinamiche di questa scoperta, Agnew J.A., Luogo e politica. La mediazio-

mostrato come il modello di sviluppo centrato sulla combinazione di taylo- rismo, fordismo e keynesismo - o, più semplicemente, sulla crescita della grande dimensione produttiva, sull’estensione dei settori produttivi finaliz- zati a una produzione standardizzata, su politiche dei redditi estensive, sul ruolo centrale dello Stato nella triangolazione con associazioni imprendito- riali e sindacati operai - non costituisse né una strada obbligata, né l’unica possibile via di fuoriuscita dalla crisi degli anni Settanta. In numerose realtà nazionali, anche in Europa, era infatti individuabile una fitta serie di sistemi produttivi locali, caratterizzati al loro interno da omogeneità e coesione, che si mostravano in grado di rispondere con efficacia ai mutamenti del contesto economico.

In questo modo, si sono per molti versi rovesciate quelle letture che, lungo il corso del Novecento, hanno considerato l’eterogeneità territoriale e il permanere di identità regionali, dialetti e tradizioni locali, come gravi li- miti, oltre che come testimonianze del fallimento del progetto moderno di “razionalizzazione” dello spazio fisico e di costruzione di una effettivamen- te comune identità nazionale. Traducendo sul piano sociale e urbanistico l’ideale di razionalità e organizzazione che sembrava ispirare la fabbrica fordista, i progetti di pianificazione degli anni Sessanta fornivano proba- bilmente la più emblematica testimonianza di una impostazione teorica vol- ta a considerare il territorio come uno spazio virtualmente liscio e le identi- tà locali come sedimentazioni di un passato ormai condannato dall’inarrestabile marcia del progresso. Ma un esempio altrettanto significa- tivo, anche per l’influenza che esercitò sul piano della ricerca delle scienze sociali, era senz’altro offerto dalla riflessione sviluppata negli anni Cin- quanta e Sessanta dalla scienza politica nord-americana sul tema della cul- tura politica. La celebre ricerca condotta da Gabriel Almond e Sidney Ver- ba negli anni Sessanta su cinque democrazie occidentali finiva, in sostanza, col mettere in stretta correlazione l’effettivo livello di democrazia con la formazione di una cultura politica compatta, comune e omogenea all’interno di tutto il territorio nazionale. Assumendo come modello di rife- rimento quello della “cultura civica” - che a giudizio di Almond e Verba avrebbe caratterizzato il contesto statunitense - la celebre ricerca sosteneva, ad esempio, a proposito dell’Italia, che proprio l’assenza di un’identità ef- fettivamente condivisa, la scarsa diffusione del dovere civico di partecipa- zione, la polarizzazione tra opposti schieramenti, la diffidenza nei confronti della politica, il basso livello di interesse e informazione sui temi politici, fossero dimostrazione della tesi secondo cui la scarsa omogeneità della cul- tura politica – insieme alla sua incongruenza rispetto alla struttura politica –

era alla base del cattivo funzionamento del sistema democratico43. In realtà, come è stato sottolineato tra gli altri da Mario Caciagli, l’«ipoteca normati- va che voleva la cultura politica anglosassone, la ‘cultura civica’, se non proprio come meta finale, certo come pietra di paragone dello sviluppo po- litico», aveva finito, da un lato, col costruire il pregiudizio «che si debba prefigurare una cultura politica unitaria», e, dall’altro, col negare il fatto che «le culture politiche sono plurali e distinte, e non solo hanno pari spes- sore e pari dignità, ma hanno pari dignità di sopravvivenza»44.

Insieme al riemergere della dimensione locale, e ai connessi processi di riarticolazione dei ruoli amministrativi, è affiorata anche la problematicità della nozione di “scala”, ossia del concetto che individua l’unità spaziale entro la quale si collocano i processi socio-politici. In primo luogo, è stata nettamente rifiutata l’idea che la scala rappresenti una categoria definita on- tologicamente (legata all’esistenza di territori delimitati, internamente coe- renti e dotati di un’identità specifica), e ne è stato al contrario riconosciuto il carattere di costrutto sociale e politico. Ma, soprattutto, il dibattito si è concentrato sulle implicazioni della definizione della scala, nel senso che «considerare la natura ‘politica’ delle scale geografiche implica una conce- zione di potere non definita da un ‘modello giuridico’, ma dall’analisi di relazioni e forme d’azione concrete»45.

Nel processo di ridefinizione della scala46, la complessità degli aspetti connessi alla costruzione di uno spazio politico – inteso nei suoi tre aspetti di circoscrizione politico-territoriale, di area di regolazione e di spazio sim- bolico - è venuta alla luce, per esempio, in quella che Micheal Keating ha definito come l’“invenzione” delle Regioni47. In effetti, “di regione” - come

43 Cfr. Almond G. e S. Verba, The Civic Culture: Political Attitudes and Democracy in

Five Nations, Princeton University Press, Princeton (N.J.), 1963.

44. Caciagli M., Regioni d’Europa. Devoluzioni, regionalismi, integrazione europea, Il Mulino, Bologna 2003: p. 120. Per una rassegna che considera in particolare la componente territoriale delle subculture politiche, si veda J. Agnew, Luogo e politica, Op. cit..

45. Gualini E., «Governance» dello sviluppo e nuove forme di territorialità: mutamenti

nell’azione dello Stato, in Rivista Italiana di Scienza Politica, 1, 2006: pp. 27-55. Per questo

dibattito, si vedano per esempio: Brenner N., The Limits to Scale? Methodological Reflec-

tions on Scalar Structuration, in Progress in Human Goegraphy, 4, 2001: pp. 591-614;

Brenner N., New State Spaces: Urban Governance and the Rescaling of Statehood, Oxford, Oxford University Press, 2004; Delaney D. e H. Leitner, The Political Construction of

Scale, in Political Geography, 2, 1997: pp. 93-97; Paasi A., Place and Region: Looking through the Prism of Scale, in Progress in Human Geography, 4, 2004: pp. 536-546,.

46. Smith N., Remaking Scale: Competition and Cooperation in Pre-National and Post-

National Europe, in N. Brenner et Al., Op. cit.: pp. 227-238.

47. Keating M., The Invention of Regions. Political Restructuring and Territorial Gov-

è stato notato - «si può parlare e si parla in molti significati: come di un me- ro fatto geografico (in base a criteri di distinzione dello spazio di carattere ‘fisico’), oppure come una distinzione ideale del territorio in base a criteri ‘non naturali’: di natura sociale o storico-sociale o, particolarmente impor- tante ai nostri tempi, economica, sia all’interno di un singolo Stato che a livello internazionale», o «in base a criteri giuridici, ma nel senso specifico di circoscrizione, cioè come sfera spaziale di validità (competenza) o di ef- ficacia degli atti di questa o quella autorità pubblica», oltre che, evidente- mente, come «figura specifica del diritto costituzionale, cioè come ente pubblico territoriale»48. In questo senso, dunque, alla regione geografica, si affiancano le regioni amministrativa, economica, sociologica, culturale e storica, in un intreccio sovente molto complesso da sbrogliare49. Proprio tale ambiguità terminologica e concettuale ha consigliato di introdurre nel vocabolario delle scienze sociali espressioni come “mesolivello”, “subna- zionale” e “substatale” per indicare la più grande unità politico- amministrativa all’interno di uno Stato. Ciò nonostante, non può essere scavalcata la difficoltà di individuare i rispettivi confini e le reciproche re- lazioni tra i diversi tipi di regione. Anche tralasciando l’uso del termine per indicare gli spazi delle relazioni internazionali, della geografia fisica e dell’economia, Mario Caciagli ha per esempio evidenziato la disomogenei- tà che può verificarsi tra le denotazioni “politico-istituzionale” e “storico- culturale”: sotto questo profilo, esistono «regioni che non si riconoscono negli attuali confini politico-amministrativi, o perché essi sono troppo stret- ti o perché sono troppo larghi», e le loro popolazioni possono perciò «bat- tersi perché il loro spazio venga riconosciuto e riconosciuta la loro presenza sull’arena statale e sovrastatale»50, lasciando sempre aperta l’eventualità di una ridefinizione dei confini amministrativi51. E la stessa ambiguità implici-

48. Ferrari Bravo L., Regioni, in A. Negri,a cura di, Scienze politiche 1 (Stato e politi-

ca), Feltrinelli, Milano 1970: pp. 405-413, specie p. 405.

49. Vandelli scrive infatti che il sostantivo «regione» indica un’«area territoriale varia- mente contraddistinta da elementi geografici, storici, economici, sociali, istituzionali», sof- fermandosi inoltre su ciascuno dei singoli aspetti (L. Vandelli, Regionalismo, in particolare p. 308). Sulla nozione di «regionalismo», si vedano inoltre, tra l’altro, le voci stese da Rotel- li E., Regionalismo, in N. Bobbio, N. Matteuci e G. Pasquino, a cura di, Dizionario di politi-

ca, Utet, Torino 1983: pp. 969-972; Zoboli R., Regionalismo, in F. Armao e V.E. Parsi,a cura di, Società internazionale. Vocabolario, Jaca Book, Milano 1996: pp. 404-407; Ronca- tolo M., Regione, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino 1980, XI: pp. 772-797.

50. M. Caciagli, Regioni d’Europa, Op. cit., p. 16.

51. Anche nel contesto dei singoli Stati appartenenti all’Ue, rimane una notevole etero- geneità nell’ampiezza demografica e soprattutto territoriale delle Regioni, un’eterogeneità cui le istituzioni comunitarie hanno tentato di trovare una soluzione con l’adozione di una nomenclatura (Nomenclature of Territorial Units for Statistics), comprendente tre livelli re-

ta nella nozione di “regione” non può d’altronde che emergere anche nella rivendicazione di un adeguato riconoscimento politico per le singole realtà subnazionali52.

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