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II. Lo sviluppo delle forze produttive e la vita della mente messa a valore Alcuni studi di economia, sociologia e

1. La fine del lavoro in Gorz e Rifkin: l’omissione della poiesis

1.2 André Gorz

Nell’itinerario tracciato da Cristophe Fourel in Fourel (2012), la critica del lavoro di Gorz si snoda attraverso tre tappe principali: Metamorfosi del lavoro (1988), Miserie del presente, ricchezza del possibile (1997) e L’immateriale (2003). A queste occorre aggiungere due testi dei primi anni Ottanta, Addio al

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proletariato (1980) e La strada del Paradiso (1983), più un breve saggio apparso

soltanto in lingua italiana dal titolo per nulla enigmatico Il lavoro debole (1994). Per cominciare a illustrare i motivi essenziali della proposta di Gorz conviene richiamare le parole con cui Accornero (1997, pp. 199-200) sintetizza i risultati della sua ricerca:

Gorz fa una strigliataccia alla ragione economica per rammentarci che il soggetto siamo noi e, criticando certe facilonerie circa la creazione di impieghi nei servizi poveri, propone che vi sia un legame indissolubile tra diritto al reddito e diritto al lavoro [come] diritto di guadagnarsi da vivere, e auspica che le economie dei tempi di lavoro vengano considerate come una liberazione di tempo; così le attività mercantili non verrebbero soppresse ma ricondotte a una funzione più limitata.

Nell’ambito delle trasformazioni dei processi produttivi tardo capitalistici Gorz teorizza la progressiva scomparsa del lavoro vivo umano nel senso di poiesis. Rileggendo il Marx del Frammento sulle macchine, nel passaggio in cui il filosofo tedesco connette la metamorfosi dello strumento in macchina con la sostituzione del general intellect al tempo di lavoro quale criterio organizzativo della produzione, Gorz afferma: «dico che il “lavoro morto”, lo “spirito rappreso”, si frappone tra il lavoratore e il prodotto e impedisce che il lavoro possa essere vissuto come poiesi, come azione sovrana dell’uomo sulla materia» (Gorz, 1988, p. 65). Da qui egli deduce la decentralizzazione della questione del lavoro tanto in senso socio-politico quanto in senso epistemologico.

Approfondendo il primo punto si giunge alla teorizzazione del reddito universale e incondizionato, indipendente dal salario e unito al diritto a una quota minima di lavoro redistribuita alla parte attiva della società. Le porzioni di tempo liberato saranno utili a istituire il terreno su cui sviluppare attività non strumentali di tipo artistico, relazionale, di cura, di aiuto reciproco, cooperative, educative, ecologiche, sia nella sfera privata che in quella pubblica; attività o multiattività denominate anche lavoro per sé (Ibidem) oppure definite come quei comportamenti che hanno il fine in se stessi, «la cui produzione è il prodotto» (Gorz, 2003, p. 74). Si tratta in ogni senso di porzioni di tempo non lavorativo che

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si traducono in attività afferenti principalmente al genere della praxis tendendo così a eliminare il fare in quanto poiesis dall’ambito della vita attiva.

La deduzione in senso epistemologico che Gorz trae dalla non conformità del lavoro alla poiesis conduce all’elaborazione di un modello teorico che, in linea con un certo neo illuminismo non troppo dissimile da quello di Habermas, intende replicare alla colonizzazione delle attività extraeconomiche da parte della ragione economica con l’autonomizzazione delle prime dalla seconda, così da assegnare il primato al regno della libertà contro il regno della necessità. Conviene leggere questo passo in cui Gorz annuncia la sovrapposizione tra ragione economica e agire non strumentale e prospetta una via d’uscita:

L’impresa madre può così, sempre secondo il modello giapponese, mantenere solo un nucleo di lavoratori stabili scelti per la loro qualificazione, l’attitudine a imparare e adattarsi ai cambiamenti tecnici, lo spirito di cooperazione e l’attaccamento all’azienda […] È una svolta a 180 gradi: si tratta addirittura di ristabilire quell’unità di lavoro e vita che la razionalizzazione economica si era ingegnata a sopprimere a profitto di una concezione strumentale del lavoro. L’impresa, sotto la spinta della crisi, dell’esasperazione della concorrenza e dei mutamenti tecnici, deve diventare un luogo non più di integrazione funzionale ma di integrazione sociale e di crescita professionale. Questa è almeno la nuova ideologia delle risorse umane. Per certi versi, essa appare come un progresso in confronto al panrazionalismo economico. Riconosce implicitamente che la forza-lavoro non è uno strumento come gli altri e che la sua efficienza, la sua performance dipendono da fattori non calcolabili né razionalizzabili economicamente: l’atmosfera dell’impresa, la soddisfazione nel lavoro, la qualità dei rapporti sociali di cooperazione ecc. Per altri versi, l’ideologia della risorse umane prepara la strumentalizzazione – o, come dice Habermas, la colonizzazione – da parte della razionalità economica, delle aspirazioni non economiche: l’impresa di tipo nuovo si sforzerà di prenderle in considerazione, ma in quanto fattori di produttività e di competitività di un genere particolare. Tutto sta nel sapere se il nuovo atteggiamento prepara un aggravamento dello sfruttamento e della manipolazione dei lavoratori, o un’autonomizzazione dei valori extra- economici e non quantificabili, fino al punto in cui essi restringeranno i diritti della logica economica a vantaggio dei diritti loro propri (Gorz, 1988, pp. 73-74).

Gorz sembra non accorgersi che tra la fine del lavoro come poiesis e il progetto di liberazione dei valori extraeconomici – «apprendere, giudicare, analizzare,

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ragionare, anticipare, memorizzare, calcolare, interpretare, comprendere, immaginare, far fronte all’imprevisto» e ancora la «facoltà di confrontarsi e di comunicare con gli altri, di comprenderne intuitivamente le intenzioni e i sentimenti» (Gorz, 2003, p. 75) – dalla presa della razionalità strumentale vi è per la filosofia il compito di elaborare un modello epistemologico che tenga conto, al contrario, dell’installazione di quegli elementi non economici e non strumentali proprio al centro del processo lavorativo postfordista. Tra il lavoro che non è più

poiesis e la prefigurazione della fine dell’operare produttivo che emanciperebbe la

vita sta l’ipotesi circa l’uso lavorativo di attività e capacità non immediatamente produttive. Se col toyotismo il lavoro non funziona più nel senso del fare produttivo allora sembra legittimo proporre in alternativa al requiem gorziano l’idea secondo cui il re-engineering capitalistico abbia prodotto una creatura contraddittoria, non meno sottomessa e non meno operosa di quella attiva nella fase del taylor-fordismo, ovvero la figura del lavoro come praxis. Una simile omissione è imputata a Gorz da Antonio Negri (1998, p. 118) nella nota recensione a Miserie del presente, ricchezza del possibile allorché il filosofo italiano, difendendo l’epistemologia di ispirazione operaista, sottolinea come sia proprio la sovrapposizione tra lavoro e prassi linguistica a configurare la novità in seno al tardo capitalismo e al contempo il terreno su cui sperimentare forme di lotta ed emancipazione:

considérer ce passage comme une simple réforme régressive de la société salariale et non comme un processus qui implique la transformation du travail (c’est à dire de la nature de la force de travail) est une offense au bon sens. Gorz cite quelques pages de Paolo Virno dans lesquelles il décrit l’asservissement du langage à travers l’exploitation: il oublie de dire que, d’après le Marx des Grundrisse et Paolo Virno, cette exploitation survient sur une base modifiée structurellement: c’est à dire sur laquelle le fait de produire à travers le langage implique la reconnaissance d’une nouvelle, énorme (c’est Marx qui souligne) puissance du travail.

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