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La tesi sul linguaggio come lavoro

IV. Sul divenire poiesis della praxis: lo schema omologico della produzione in Ferruccio Rossi-Land

1. Genesi del programma di ricerca su lavoro e linguaggio in Italia

1.2 La tesi sul linguaggio come lavoro

L’argomento di Rossi-Landi (1968, p. 151) è un classico della filosofia del linguaggio italiana: «fra gli artefatti materiali come legname, scarpe o automobili, e gli artefatti linguistici come parole, enunciati o discorsi, esiste e non può non esistere una profonda, costitutiva omologia, che con espressione brachilogica si può battezzare “omologia del produrre”». Sono almeno tre gli elementi attraverso cui l’autore giunge a concepire lo schema omologico della produzione: la riflessione hegelo-marxista su linguaggio e lavoro, ovvero su praxis e poiesis (a), la filosofia wittgensteiniana dell’uso (b), la linguistica saussuriana (c).

a) Da Hegel e Marx Rossi-Landi eredita l’idea che teorizza il linguaggio e il lavoro, e dunque la praxis e la poiesis, non già nel segno dell’opposizione bensì nell’ottica dell’alleanza allorché ciò che interessa esaminare sono i processi storico-naturali di umanizzazione:

per varie ragioni, il contributo più importante è di gran lunga quello di Marx; e la più ovvia fra quelle ragioni è che in Marx c’è anche Hegel – non solo per la dialettica,

65 Cfr. i numeri monografici delle riviste Il Protagora (1987, n. 11-12) e Athanor (2003-2004, n. 7), nonché la raccolta di saggi a cura di Bernard, Bonfantini, Kelemen e Ponzio (1994).

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ma anche perché è a Hegel che va fatta risalire, e sia pure in parte grazie al modo in cui aveva assimilato Smith, la concezione antropogenica del lavoro e del linguaggio

(Ivi, p. 65-66).

Sempre nel volume del 1968, nel capitolo dedicato allo schema omologico, Rossi-Landi aggiunge:

Per risalire al lavoro anche nel campo del linguaggio e poter considerare gli oggetti linguistici come artefatti è necessario ricorrere al pensiero classico tedesco e al suo rovesciamento in praxis. Sono stati infatti Hegel e Marx i primi a parlare insieme di linguaggio e di lavoro, a intuire la possibilità di studiare l’uno per mezzo dell’altro; ed è da essi che ci vengono gli strumenti concettuali atti a svolgere tale possibilità e a spremerne tutte le implicazioni. Sulla loro scorta si può sostenere non solo che nell’omologia fra produzione materiale e produzione linguistica non si dà alcun forzamento, ma anzi che si dà forzamento nel rifiutarla: in quanto, rifiutandola, i processi lavorativi che essa sarebbe in grado di mettere in luce anche in fatto di produzione linguistica vengono obliterati e falsati col forzarli dentro a caselle pre- costituitesi in funzione di interessi soltanto specialistici o altrimenti ideologici, e per tale loro carattere tramandate (Ivi, p. 157).

Come già osservato nel § 4 del primo capitolo una volta ereditato il lascito hegeliano, relativo soprattutto ai contenuti delle lezioni jenesi sulla filosofia della spirito sviluppati poi dal materialismo marxiano, il gesto successivo di Rossi-Landi consiste nel dedurre dall’omologia antropogenetica tra linguaggio e lavoro l’equivalenza delle loro sequenze logiche: «l’omologia fra produzione materiale e linguistica è un’omologia al tempo stesso logico-strutturale e storico-genetica» (Ivi, p. 155).

b) Di Wittgenstein Rossi-Landi critica il concetto di uso, su cui l’autore delle Ricerche filosofiche fonda il significato delle pratiche linguistiche, perché non sarebbe in grado di cogliere la complessità del parlare comune in quanto si soffermerebbe soltanto sulla sfera dello scambio e della circolazione tralasciando quella della produzione:

a Wittgenstein manca anche la nozione di valore-lavoro: cioè del valore di un determinato oggetto, in questo caso linguistico, come prodotto di un determinato

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lavoro linguistico. Egli va dall’oggetto linguistico in avanti, non dall’oggetto linguistico all’indietro. Gli strumenti di cui ci serviamo per comunicare, egli li considera pertanto come datici, e quindi come “naturali”: sono una specie di ricchezza di cui noi liberamente disponiamo (Ivi, p. 122).

La mossa di Rossi-Landi sta nell’includere l’uso nel lavoro (cfr. Ivi, p. 32), adombrandone così una concezione in cui si privilegia il momento della poiesis sulla praxis. Tale nozione diverge da quella proposta da Agamben (2014a), e già discussa nel § 1 del terzo capitolo di questa ricerca, secondo cui l’uso esibendo l’indistinzione tra praxis e poiesis ne provoca la disattivazione. Alternativa ad Agamben, e comunque in polemica anche con Rossi-Landi, è poi la linea di ricerca inaugurata da Virno (2015b) in base alla quale l’uso pur sottolineando l’intreccio tra agire e fare - «l’uso di un terreno o di una informazione è “politico” nella precisa misura in cui è anche “produttivo”; e viceversa» (Ivi, p. 157) - è lungi dal decretare il superamento della coppia e anzi rappresenta «la matrice non specificata di ogni operatività» (Ivi, p. 158).

c) Rossi-Landi intende la categoria di lavoro linguistico come terzo elemento irriducibile alla coppia saussuriana langue-parole: «il lavoro linguistico sta dalla parte del langage in quanto si oppone sia alla

parole perché collettivo anziché individuale sia alla langue perché

lavoro anziché prodotto» (Rossi-Landi, 1968, p. 15). Come già supposto nel paragrafo dedicato alla linguistica del lavoro in Francia (cfr. Infra, secondo capitolo, § 4), l’istanza rossilandiana sarebbe assimilabile a quella degli interpreti di Saussure che, a partire dalle riflessioni di Pêcheux (1969) e Foucault (1971), criticano la coppia

langue-parole introducendo un ulteriore termine, ossia il discorso

concepito come luogo in cui dimora l’espressione storicamente determinata degli enunciati (cfr. Bachtin, 1979, pp. 245-290). La familiarità tra Rossi-Landi e i linguisti dell’analyse du discours sta soprattutto nel metodo, dunque, nella scelta di oltrepassare la bipartizione saussuriana impiegando una triade di concetti che avrebbe

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il vantaggio di fornire un’immagine più concreta e reale dei processi linguistici. Col suo gesto tipico anziché puntare sul discorso Rossi- Landi vira sul lavoro:

alla bipartizione fra lingua e parlare si deve sostituire una tripartizione: il lavoro linguistico (collettivo) produce la lingua (collettiva) su e con cui si esercita il parlare dei singoli, i cui prodotti rifluiscono nello stesso serbatoio collettivo da cui ne sono stati attinti materiali e strumenti (Rossi-Landi, 1968, p. 15).

Agli elementi qui illustrati si può aggiungere ancora un quarto che indica un tema comune anche ai primi tre, ossia la distinzione tra attività e lavoro. In apertura di Rossi-Landi (1985), l’autore separa l’attività dal lavoro come la praxis dalla poiesis e aristotelicamente osserva: «l’attività reca in sé il proprio fine, mentre il lavoro se ne distacca» (Ivi, p. 5). Se, sotto questa luce, utilizziamo il lessico aristotelico e teniamo conto dell’equazione stabilita da Hannah Arendt (1958) tra praxis, politica e linguaggio, allora ecco che non sembra inopportuno interpretare lo schema omologico di Rossi-Landi come il modello del divenire

poiesis della praxis. Egli guarda alla capacità sociale di produrre manufatti nel

segno di ciò che distingue gli uomini dagli animali non umani e istituisce la soglia antropogenetica nel luogo in cui il linguaggio evolve in connessione col lavoro: «alla radice dei due ordini di artefatti, o meglio degli sviluppi che portano a essi, c’è una comune radice antropogenica sia in senso filogenetico sia in senso ontogenetico» (Rossi-Landi, 1968, p. 151). L’operazione consiste nell’applicare le prerogative della produzione ai fatti linguistici, dunque, nel concepire il linguaggio uguale al lavoro – e non, viceversa, omologo all’attività o praxis – anche per ciò che concerne la sua struttura logica. Secondo Rossi-Landi il transito avviene dall’opera alla parola: «l’estensione della nozione di artefatto che stiamo considerando va appunto dal materiale, dove è già diffusa, al linguistico, dove costituisce una novità» (Ivi, p. 149).

Questa lettura del pensiero rossilandiano trova conferma in uno dei suoi più autorevoli studiosi: «La tesi che Rossi-Landi sostiene a partire circa dalla metà degli anni Sessanta è che il linguaggio è lavoro e che le diverse lingue sono il prodotto di tale lavoro, per cui è possibile studiare i fenomeni del linguaggio

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mediante l’impiego delle categorie della scienza economica» (Ponzio, 1988, p. 63). Più di recente Ponzio (2008, p. 15) è tornato sulla questione restituendola in questi termini:

L’assunto del libro del 1968 di Rossi-Landi è che la produzione linguistica è uno dei fattori fondamentali della vita sociale, e come tale è omologa alla produzione di utensili e di artefatti. In questo quadro – complementarmente all’applicazione di nozioni e strumenti elaborati nello studio del linguaggio ad altri campi – risultano introducibili nel campo del linguaggio nozioni e strumenti concettuali formatisi altrove, come quelli di consumo, lavoro, capitale, mercato, proprietà, sfruttamento, alienazione, ideologia: diremo che si danno un consumo linguistico, un lavoro linguistico, un capitale linguistico, un’alienazione linguistica, e così via.