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Nous, praxis e poiesis nel Frammento sulle macchine

V. Sul divenire praxis della poiesis: il marxismo italiano di tradizione operaista

1. Filosofia del linguaggio e della mente a partire dall’ultimo Mar

1.1 Nous, praxis e poiesis nel Frammento sulle macchine

«Il raccolto è magro, ma non proprio nullo», così esordisce Jean-Jacques Lecercle (2004, p. 104) nelle pagine dedicate a Marx ed Engels del suo volume sulla filosofia marxista del linguaggio73. A questa osservazione dello studioso francese si può aggiungere che, oltre a collezionare pochissimi riferimenti, il raccolto in questione si compone di annotazioni sul linguaggio che non sono articolati in un discorso strutturato, ma compaiono come schegge sparse in alcuni luoghi del corpus marxiano, anzitutto nelle opere giovanili e assai meno negli scritti della maturità. Si tratta, tuttavia, di frammenti che colgono elementi e fenomeni tutt’altro che secondari in relazione alle abilità linguistiche e cognitive dell’animale umano – il rapporto tra parola e pensiero, l’essere sociale del parlante, la materialità del linguaggio – e che, come non manca di notare Lecercle, costituiscono un valido anticorpo nei confronti della filosofia del linguaggio dominante: contro il cognitivismo di Chomsky, che assegna all’interazione linguistica un posto ancillare rispetto alle competenze mentali innate in ogni singolo individuo; contro il razionalismo trascendente di Habermas, che

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concepisce un’etica del discorso separata dai comportamenti materiali legati alla lotta per la sopravvivenza e alla produzione (cfr. Ivi, pp. 31-87).

Qui di seguito riportiamo due passaggi, celebri e molto commentati, con cui saggiare la profondità delle isolate riflessioni di Marx ed Engels sul linguaggio e sulla mente. Il primo è tratto dall’Ideologia tedesca:

Fin dall’inizio lo spirito porta con sé la maledizione di essere infetto dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me; l’animale non ha rapporti con alcunché e non ha affatto rapporti. Per l’animale, i suoi rapporti con altri non esistono come rapporti. La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini (Marx,

Engels, 1846-1847, pp. 20-21).

Il secondo passaggio è una citazione dal manifesto metodologico di Marx, noto come Introduzione del 1857, che apre i Grundrisse:

L’uomo è nel senso più letterale un ζῶον πολιτιχόν, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solamente nella società può isolarsi. La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società – una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale possiede in sé potenzialmente le capacità sociali – è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivono insieme e parlino tra loro (Marx, 1857-1858,

p. 5).

Da questi due rapidi accenni si comprende come l’attenzione di Marx ed Engels sia rivolta al carattere intersoggettivo del linguaggio, che è lungi dall’essere equiparato a uno strumento di comunicazione di pensieri pre-costituiti e che rappresenta, invece, la capacità propriamente umana attraverso cui la teoria si connette con la prassi e il cui esercizio rende sinonime le antiche definizioni di animale linguistico e animale politico. Certamente il linguaggio e i suoi usi non

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sono oggetti neutri, bensì nella prospettiva del materialismo storico costituiscono fenomeni ambivalenti, che possono significare ideologia e comando oppure pensiero critico ed emancipazione.

Rispetto al quadro delineato con l’ausilio di Lecercle, l’operaismo74 italiano si colloca in una posizione in cui da un lato eredita i rilievi di Marx ed Engels sulla natura pubblica e non strumentale del linguaggio e dall’altro, oltrepassando Marx e il marxismo, individua in un testo estrapolato dai Grundrisse un nucleo essenziale di filosofia del linguaggio e della mente, che sia finalmente all’altezza dei problemi posti dall’epoca postmoderna e anche – o forse proprio perché – in controtendenza rispetto alle linee di ricerca mainstream, comprese quelle già evocate di Chomsky e Habermas.

Il brano che è qui oggetto di analisi è noto col titolo redazionale Frammento

sulle macchine, assegnatogli dalla rivista Quaderni Rossi che ne pubblicò la prima

traduzione italiana nel numero 4/1964, alle pagine 289-300, nella versione elaborata da Renato Solmi. Il Frammento occupa gli ultimi fogli del quaderno VI e l’inizio del quaderno VII dei Grundrisse e secondo la lettura operaista costituisce «l’apice della tensione teorica di Marx nei Grundrisse» e «una conclusione anche dal punto di vista logico» (Negri, 1978, p. 187) dell’intera ricerca del filosofo di Treviri. Senza nessuna pretesa di tipo filologico e, anzi, usando il testo al fine di andare oltre la lettera, il tentativo è quello di illustrare tre temi che informano l’argomentazione marxiana: l’intelletto, o nous; la produzione, o poiesis; l’azione linguistica, o praxis. Una volta presentati questi tre campi tematici, col preciso scopo di mostrare come in Marx cadono i tradizionali confini tra pensare, agire e fare, sarà più agevole trattare tre delle più feconde linee di indagine della tradizione operaista interessate alla relazione tra linguaggio e lavoro, quelle di Paolo Virno, Christian Marazzi e Sergio Bologna.

Intelletto. Diversamente dall’immagine individuale, solitaria e inoperosa che

una lunga tradizione di pensiero, riconducibile ad Aristotele e rinverdita nel

74 Sull’operaismo intesto come corrente teorica e politica del marxismo italiano del secondo dopoguerra, in polemica col gramscismo e con il togliattismo e quindi col movimento operaio ufficiale, cfr. la voce omonima contenuta nell’Enciclopedia del pensiero politico, redatta da Mezzadra (2000). Per inquadrare anche storicamente il fenomeno si rinvia a Wright (2002); Borio, Pozzi, Roggero (2002; 2005); Negri (2007); Trotta, Milana (2008). Su operaismo e pensiero italiano contemporaneo è utile il volume di Gentili (2012). Per quanto concerne il legame dell’operaismo con la filosofia del linguaggio una valida base di partenza è Mazzeo (2015).

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Novecento da Arendt, fornisce della vita della mente, nel Frammento sulle

macchine Marx consegue un concetto di nous pubblico e operativo. Questa tesi ha

il suo fulcro nell’alleanza tra l’intelletto e la produzione, che si stringe nella fase del capitalismo avanzato allorché la produzione immediata transita dal lavoro dell’operaio singolo al processo automatico delle macchine. Il tipo di intelletto, che Marx propone, ha la caratteristica di un concetto astratto che diviene concreto perché penetra nei meccanismi che concernono la creazione della ricchezza, il rapporto di ricambio organico tra uomo e natura e le relazioni tra uomini. Il

general intellect75, questo il termine usato dall’autore, equivale anzitutto e perlopiù, per Marx, al sapere sociale della tecno-scienza oggettivato nei composti

hardware-software dei più sviluppati e ormai assai diffusi congegni del capitale

fisso:

lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso (Marx, 1857-1858, p. 403)

Seguendo l’interpretazione di Illuminati (1996; 2003), un modo coerente di leggere l’intelletto generale marxiano sta nell’inscriverlo nel filone eretico inaugurato dal filosofo cordovano di cultura islamica Ibn Rushd, detto Averroé76,

75 È da attribuire all’operaismo italiano il merito di aver diagnosticato la grande portata teorica dell’espressione marxiana che solamente una volta affiora nei Grundrisse, sul finire del capitolo dedicato alle macchine. Il Frammento, come già ricordato, è stato pubblicato nel 1964 da Quaderni Rossi, ma già nel 1961, scrivendo sulla stessa rivista, Raniero Panzieri anticipava alcuni ragionamenti di là da venire nel saggio intitolato Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo. Nel 1990, un’altra rivista di ispirazione operaista, Luogo comune, ha realizzato un’edizione «semicritica» del Frammento, interpolando il testo marxiano con brani tratti da documenti del movimento degli studenti e con citazioni da logici, epistemologi, sociologici e filosofi; oltre a questi stralci figurano anche i commenti di Virno, Giannoli, Berti, Vecchi, Caminiti, Bascetta, Piperno, Modugno, Piccinini. Istruzioni preziose sull’elaborazione della categoria di general intellect possono essere reperite nelle successive riviste Derive Approdi (1992-2005, 25 numeri) e Forme di vita (2004-2007, 6 numeri), sempre collegate con la tradizione operaista, e nella raccolta di Zanini e Fadini (2001). Un utile strumento per inquadrarne il significato è la voce general intellect, corredata da alcuni ottimi riferimenti bibliografici, comparsa in Historical Materialism (2010, n. 18, pp. 209-216). Più di recente si può consultare la raccolta di saggi sui Grundrisse, curata da Bellofiore, Starosta e Thomas (2013), e in particolare il contributo di Tony Smith espressamente dedicato al tema dell’intelletto generale.

76 Il Gran Commento di Averroé al De Anima di Aristotele è una delle opere più travisate e attaccate della filosofia fino al punto di essere bandita tanto in ambiente occidentale-cristiano quanto in quello orientale-islamico. Per le finalità di questa ricerca ci affidiamo allo studio di

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ille maledictus come lo soprannominò la Scolastica. La proposta di Illuminati è

interessante perché colloca Marx in una tradizione alternativa a quella del pensiero moderno di ispirazione cartesiana e kantiana, che dopo Averroé trova in Dante e in Spinoza i suoi epigoni77. L’idea consiste nell’intendere il general

intellect nel segno dell’unicità dell’intelletto appartenente non al singolo

individuo bensì alla specie, o all’individuo sociale, e concepibile come il complesso delle capacità mentali generali non interamente traducibili in prestazioni puntuali. Per questa via nell’intelletto generale confluiscono il linguaggio, l’attitudine ad astrarre e correlare, l’abduzione, la memoria e ogni regola o schema di pensiero intrinsecamente verbali che non sono esauribili da un particolare atto cognitivo, di parola, di astrazione e correlazione, dalla formulazione di una nuova ipotesi e da un’operazione mnemonica, compiuti da un ‘io’ atomico.

Una tale concezione dell’intelletto, che lo colloca fuori dai confini personali dell’individuo, rompe con la dottrina teologico-politica e con quella del cogito o

Illuminati (1996), che antologizza e analizza alcuni frammenti dell’autore. Per un’introduzione alla vita e all’opera di Averroé è utile consultare Campanini (2007).

77 Oltre che da Illuminati una genealogia simile è ricostruita anche da Esposito (2013). Con l’obiettivo di criticare la teologia politica nel tentativo di renderne inconcepibile il presupposto che l’autore individua nel concetto latino e poi cristiano di persona, Esposito ritorna all’averroismo perché è lì che scorge la prima testimonianza a favore dell’intelletto impersonale, situato fuori dal soggetto, un «luogo comune» (Ivi, p. 163) al genere umano sulla cui base è possibile dissolvere le antinomie mente/corpo, soggetto/oggetto, persona/cosa, sovrano/popolo. Oltre a Dante e Spinoza sono averroisti, secondo Esposito, altri autori come Bruno, Schelling, Nietzsche, Bergson, Deleuze. Marx è omesso, neanche un accenno al concetto di general intellect. Conviene, invece, precisare le posizioni di Spinoza e Dante. Esposito (Ivi, pp. 174-183), di Spinoza, rievoca la filosofia dell’unicità della sostanza, di cui il pensiero, oltre all’estensione, figura come attributo impersonale, e da qui sottolinea la connessione sul terreno politico non con una collezione di soggetti atomici bensì con la massa dei molti che proprio nel pensiero transindividuale trovano il loro Uno, anziché consociarsi in nome del rapporto di comando e ubbidienza fissato dal sovrano. Ma è Dante «il più grande tra gli averroisti» (Ivi, p. 163), di cui Esposito cita alcuni passaggi tratti dal De Monarchia in cui Alighieri riprende esplicitamente il commento averroista al De Anima di Aristotele: «la più alta facoltà dell’umanità è la facoltà o potenza intellettiva. E poiché tale potenza non può essere tutta quanta simultaneamente tradotta in atto da parte di un solo uomo o di qualcuna di quelle società particolari […], occorre necessariamente che nel genere umano vi sia una moltitudine di uomini, ad opera dei quali quella potenza venga totalmente attuata, così come è necessaria una moltitudine di cose generabili affinché tutta la potenza della materia prima sia sempre attuata, altrimenti esisterebbe una potenza separata [dall’atto], il che è impossibile. Con tale giudizio concorda Averroé nel suo commento al De Anima» (Dante, De Monarchia, I, cap. III). Continuando il suo ragionamento Dante giunge a estendere le finalità della potenza dell’intelletto oltre gli scopi contemplativi per abbracciare anche funzioni operative, del genere della praxis e della poiesis: «Quella potenza intellettiva di cui sto parlando non è orientata solo alle forme universali o specie, ma, per una certa estensione, anche alle forme particolari, per cui si usa dire che l’intelletto speculativo per estensione diventa pratico e, come tale, ha per fine l’agire e il fare» (Ibidem).

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dell’Io penso che difendono, con interessi più o meno convergenti, la centralità del soggetto pensante che, per conseguire una relazione con gli altri suoi simili, tende verso l’Uno rappresentato da Dio o dallo Stato. Al contrario, il general

intellect, poiché punta fin dall’origine sul monopsichismo della specie, è esso

stesso la premessa unificatrice dei molti, quel principio che accomuna gli individui senza essere l’attributo di ciascuno preso per se stesso. L’intelletto generale è transindividuale e precede l’individuo individuato che, sotto questa luce, ottiene la propria singolarità come frammento o deviazione (clinamen) dell’unico nous; dovrebbe essere chiaro che in nome del general intellect è impossibile per i molti confluire in una volonté generale tesa a unificarli nella promessa dell’Uno statale/divino.

Il punto che Illuminati (1996) sottolinea è che la tradizione maledetta, che da Averroé arriva a Marx, ha la medesima origine dell’altra prospettiva, quella dominante, che assegna un ruolo privato e inappariscente all’intelletto. L’origine comune è Aristotele, la sua classica tripartizione tra theoria, praxis e poiesis, contenuta in opere decisive come l’Etica Nicomachea e la Metafisica. Il motore del negativo messo in atto da Averroé, senza perciò raggiungere nessuna sintesi superiore ma solamente evidenziando un’ambivalenza interna alla proposta aristotelica capace di dare luogo a una diversa raffigurazione dell’intelletto, ha il suo campo di applicazione nel De Anima, e precisamente nel commento dei capitoli 4 e 5 del Libro III. In questi luoghi, in accordo con la teoria della potenza separata e insieme collegata all’atto, Aristotele distingue il nous dynatos (De

Anima, 429a23) dal nous poietikos (Ivi, 430a16): il primo è in potenza le forme

del pensiero, il secondo le traduce in atto «come la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto» (Ivi, 430a17-18). L’averroismo eredita la coppia aristotelica e la unifica, superando, dunque, l’opposizione potenza/atto interna alla mente e attribuendo all’intelletto potenziale in continuità con quello produttivo un’indole impersonale:

La grande mossa strategica entro una filosofia così protetta verso l’esterno è la messa in campo dell’unicità ed eternità dell’intelletto potenziale o materiale al pari dell’agente […] La novità sta nel rilievo transindividuale conferito all’intelletto materiale […] La mossa strategica consiste invero nel sottrarre l’intelletto materiale

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alla corruttibilità e nell’oggettivare scienza e immortalità in un corpo collettivo sovraindividuale ma non trascendente (Illuminati, 1996, p. 58).

Nel Frammento, come già accennato, l’intelletto generale comune alla specie prende le sembianze del sapere sociale scientifico e tecnologico coagulato nelle macchine: «l’invenzione diventa una attività economica e l’applicazione della scienza alla produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa (Marx, 1857-1858, p. 399). Nel capitalismo del XXI secolo la nozione di general intellect non può, tuttavia, risiedere per intero nella tecno- scienza applicata ai robot, ma è chiamata a estendersi alle cognizioni e ai saperi sociali – l’averroista acuto direbbe gli intellegibili – formali e meno formali, intessuti di comunicazione linguistica. Nei contesti di lavoro del tardo capitalismo, nell’industria culturale così come in quella delle automobili, non vige solamente l’alleanza tra intelletto e produzione macchinica, ma anche quella tra intelletto e poiesis umana. Se l’intelletto si connette col lavoro vivo, allora il nous non è più scienza oggettivata ma è pensiero in generale che infetta il lavoro umano, introiettando al suo interno il linguaggio, la capacità di astrarre e correlare, l’abduzione, la memoria e ogni schema o regola della mente astratta. La

poiesis si intellettualizza, incorpora in sé le generiche proprietà del nous e si

modifica dall’interno assomigliando sempre meno a un processo che ha nell’opera la sua unità di misura per familiarizzare sempre più con comportamenti virtuosistici, performance, insomma per diventare parente prossima della praxis.

Produzione. Nel capitolo sulle macchine è possibile distinguere tre figure della

produzione, che ricapitolano l’intero sviluppo del capitalismo, proprio nella misura in cui l’analisi della struttura più avanzata getta luce su quella anteriore, «per esempio – osserva Illuminati (1996, p. 94) – l’anatomia dell’uomo spiega quella della scimmia».

La prima figura della poiesis è quella che attiene al comportamento dell’individuo singolo, ovvero al lavoro vivo umano parcellizzato, attività monologica finalisticamente determinata e mediata dallo strumento. Con l’avvento delle macchine questo tipo di produzione è destinato a diminuire fino a estinguersi perché assorbito dai robot:

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il processo di produzione ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo soverchi come l’unità che lo domina […] frantumato, sussunto sotto il processo complessivo delle macchine, esso stesso solo un membro del sistema, la cui unità non esiste negli operai vivi, ma nel macchinario vivente (attivo), che di fronte all’operaio si presenta come un possente organismo contrapposto alla sua attività singola e insignificante (Marx, 1857-1858, p. 391).

A causa della metamorfosi del mezzo di lavoro da strumento in macchina si trasforma la sintassi della poiesis: il soggetto della produzione diretta è adesso il mezzo di lavoro, mentre l’attività umana si pone come termine medio tra il mezzo e l’oggetto di lavoro. Così Marx:

la macchina non si presenta sotto nessun rispetto come mezzo di lavoro dell’operaio singolo. La sua differentia specifica non è affatto, come nel mezzo di lavoro, quella di mediare l’attività dell’operaio nei confronti dell’oggetto; ma anzi questa attività è posta ora in modo che è essa a mediare soltanto ormai il lavoro della macchina, la sua azione sulla materia prima – a sorvegliare questa azione e ad evitarne le interruzioni (Ivi, p. 390).

Le macchine fungono, quindi, da «premessa rispetto alla quale la forza valorizzante della singola forza-lavoro scompare come qualcosa di infinitamente piccolo» (Ivi, p. 392). Tale trasfigurazione si accompagna con una contraddizione che, secondo Marx, pone le «condizioni per far saltare in aria» (Ivi, p. 402) l’intero sistema; il cortocircuito sta nel rapporto inverso tra riduzione del tempo di lavoro umano necessario e conservazione del tempo di lavoro come unità di misura dei rapporti di produzione e di creazione della ricchezza: «il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza» (Ibidem).

Della seconda figura della produzione contenuta nel Frammento abbiamo in parte già detto, parlando del nous. Si tratta, infatti, del processo regolato dall’alleanza tra scienza e poiesis, ovvero dall’applicazione del general intellect, in quanto tecno-scienza, al capitale fisso. È, in altri termini, il tipo di produzione

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di cui sono soggetti attivi le macchine, una volta che hanno sostituito il lavoro dell’uomo singolo:

nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa loro la produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione (Ivi, p. 400).

La macchina, diversamente dallo strumento, ha in sé il principio del movimento, «è essa stessa il virtuoso, che possiede una propria anima» (Ivi, p. 390). La trasformazione dello strumento in macchina è, sottolinea ancora Marx, la realizzazione della tendenza necessaria del capitale e cioè «l’aumento della produttività del lavoro e la massima negazione del lavoro necessario» (Ivi, p. 391). Le macchine rappresentano, dunque, «la forma più adeguata del capitale fisso» (Ivi, p. 392), ma, Marx avverte, ciò non implica che «il rapporto sociale del capitale sia il rapporto sociale di produzione ultimo e più adeguato per l’impiego delle macchine» (Ivi, p. 394). Con una certa dose di realismo si potrebbe affermare che la macchina realizzata dal capitale è quella nel cui destino c’è la