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III. Né praxis né poiesis: il concetto di inoperosità in Giorgio Agamben

2. In principio era l’argia

2.3 La replica di Aristotele

Riassumendo le battute del dialogo immaginario tra Agamben e Aristotele intorno all’argomento dell’opera dell’uomo risulta che:

tra praxis, poiesis e theoria, Agamben conserva il terzo termine ponendolo nell’al di là dell’azione e della produzione, salvo però svilupparlo in chiave impersonale, nella direzione della potenza del pensiero che non inerisce all’uomo singolo ma alla moltitudine. Al solipsismo del bios theoreticos subentra, evocando l’averroismo, la multitudo in quanto immancabilmente connessa con un pensiero mai esauribile in una somma di operazioni intellettive. Decisivo per comprendere il profilo di questo pensiero non solitario ma che fin dal principio dimora nei molti è la mossa con cui Agamben lo distingue dal marxiano cervello sociale del celebre Frammento sulle macchine. Laddove tutto lascia presagire una similitudine fra il pensiero in potenza della moltitudine e il general intellect dell’individuo sociale, l’autore scrive: «Il discrimine fra la semplice, massiccia iscrizione del sapere sociale nei processi produttivi, che caratterizza la fase attuale del capitalismo, e il pensiero come potenza antagonista e forma-di-vita, passa attraverso l’esperienza di questa coesione e di questa inseparabilità» (Agamben 2014a, p. 271). Agamben, a ragione, coglie nell’ingresso delle capacità intellettuali nella produzione la vera novità del capitalismo contemporaneo, ma rinuncia a scorgervi il modello per un pensiero pubblico che non ha nel processo produttivo controllato dal capitale la sua forma di realizzazione più propria. Anziché sviluppare la contraddizione insita nella messa al lavoro del sapere sociale, egli la trascende e chiama in causa la potenza del pensiero immanente alla forma-di-vita, alla vita cioè già posta oltre l’agire e il fare, inoperosa per definizione.

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a) nel Libro I dell’Etica Nicomachea Aristotele pone la domanda circa l’esistenza di un ergon umano specie-specifico e risponde in maniera affermativa asserendo che «la specie-specificità (ἔργον) dell’anima umana è attività in relazione al linguaggio e comunque non senza linguaggio» (EN, 1098a7-8);

b) Agamben svolge il quesito e prende posizione in senso negativo dichiarando: «Aristotele lascia subito cadere l’ipotesi che l’uomo sia un animale essenzialmente argos, inoperoso, che nessuna opera e nessuna vocazione possono definire. Vorrei invece proporvi di prendere sul serio quest’ipotesi e di pensare conseguentemente l’uomo come il vivente senz’opera» (Agamben, 2014b, p. 56).

L’ipotetica conversazione non si esaurisce qui e sembra ammettere una replica da parte di Aristotele, che, Agamben, nel suo studio sull’Etica Nicomachea, non considera affatto. La replica avviene sul finire del Libro I del trattato aristotelico, allorché l’autore introduce l’immagine del sonno (ὕπνος) intendendolo come quello stato dell’esperienza che si alterna alla veglia e che è comune al ciclo biologico degli organismi viventi, dunque, non solamente degli animali umani. Nel sonno, osserva Aristotele, decade la differenza tra vita felice e vita infelice, nel sonno infatti non è più in questione l’opera il cui compimento determina l’eu

zen perché «il sonno è inattività (ἀργία) dell’anima» (EN, 1102b8). Nelle righe

seguenti Aristotele aggiunge che l’inattività o l’inoperosità dell’anima è precisamente quella del sonno senza sogni (cfr. Ivi, 1102b9-8). Al sonno e ai sogni lo stagirita dedica alcuni dei brevi trattati di filosofia della natura, raccolti nel corpo di opere noto col titolo Parva naturalia: uno di questi scritti è conosciuto come Il sonno e la veglia. In questo testo il sonno è definito «privazione della veglia» (SV, 453b26) e il vocabolario che lo descrive è improntato al lessico della potenza di non agire e di non fare, ovvero al lessico dell’«impossibilità (ἀδυναµία)» (Ivi, 454b5). Nelle righe finali Aristotele fornisce l’immagine conclusiva del sonno come «impossibilità di essere in atto» (Ivi, 458a29)56.

56 Nel Dizionario di psicologia Galimberti (1992, p. 896) definisce così il sonno: «Stato fisiologico caratterizzato da un’interruzione dei rapporti sensoriali e motori che legano l’organismo al suo ambiente, e passibile di modificazioni in seguito a stimolazioni adeguate». In ambiente

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Questi pochi cenni sul sonno sembrano indurre a riaprire la discussione sull’opera dell’uomo in una chiave naturalista o anche materialista. Secondo Aristotele l’inoperosità non sarebbe una modalità di esistenza che revoca in questione la vita attiva ma, al contrario, l’inattività costituirebbe una sfera della vita operosa e precisamente quello stadio in cui l’esperienza vigile, scandita essenzialmente da comportamenti comunicativi e comportamenti strumentali, nonché da pulsioni e affetti, si addormenta. In questo orizzonte antropologico l’inoperosità non andrebbe ricercata al di là dell’opera, bensì essa è, nel sonno, il contrassegno del provvisorio periodo durante il quale la vita umana attiva trova riposo, chiude gli occhi e si ristora. Richiamando il quesito posto nel Libro I dell’Etica Nicomachea appare del tutto ragionevole affermare che esiste un’inoperosità dell’uomo e che essa equivale proprio alla fase biologica del sonno; occorre però aggiungere, con Aristotele, che nel ciclo biologico di una forma di vita capace di dormire non è il sonno il fine ma «il fine, tuttavia, è la veglia» (Ivi, 455b23).

Recentemente l’immagine del dormiente è stata posta al centro di un libro di Jean-Luc Nancy (2007). Il filosofo francese, che nell’ambito di questa ricerca è stato già citato perché autore di La comunità inoperosa (1983), coglie nel sonno il contrario della veglia e contestualmente lo elogia conferendogli ogni priorità sul soggetto attivo e vigile. Rovesciando la linea tracciata poc’anzi sulla base del materialismo di scaturigine aristotelica, Nancy sembra individuare nel sonno l’aldilà della vita attiva, tanto da rievocare nelle sue argomentazioni il topos della cultura occidentale che sovrappone sonno e morte57. Proprio il sonno inteso come

anglosassone Corsini (1994) nell’Encyclopedia of Psychology, soprattutto grazie alla tecnica dell’elettroencefalogramma, sottolinea che il sonno è un «active process» durante la fase REM – Rapid Eye Movements – ossia durante lo stadio in cui il dormiente sogna.

57 Da Omero a Dante è un gesto consolidato quello di apparentare il sonno e la morte. In origine, nella Grecia arcaica, sono diverse le testimonianze, a cominciare da Iliade (XIV, 231), in cui Hypnos e Thanatos sono considerati fratelli gemelli. Rossella Prezzo, che firma la postfazione all’edizione italiana di Nancy (2007), rievoca diversi luoghi dell’opera di Platone in cui emerge il rapporto tra sonno e morte. Sono citati il Simposio, le Leggi e la Repubblica e tuttavia manca inaspettatamente il riferimento ad Apologia (40d) in cui Socrate parla della morte come di quello stato in cui ogni sensibilità e ogni fare e agire si estinguono come nel sonno senza sogni. Lo stesso Nancy (2007, p. 71) propone un parallelismo di questo tipo: «come la morte, il sonno, e come il sonno, la morte ma senza risveglio». Peraltro già dal titolo del libro nell’originale francese, Tombe de sommeil, Nancy sembra giocare col doppio senso della parola tombe che se da un lato significa ‘io cado’, dall’altro può voler dire anche ‘fossa’. Secondo Agamben ‘dormire’ è un tipico esempio di verbo nella forma media, come ‘nascere’, ‘morire’, ‘soffrire’, ‘giacere’, ‘parlare’, ‘godere’. Si

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fine, ovvero termine e scopo della vita umana operosa, è il luogo privilegiato per una teoria dell’emancipazione dell’uomo secondo l’interpretazione di Nancy, che osserva: «A dormire non è una parte di me, né un aspetto, né una funzione. È quell’altro tutto intero che io sono una volta sottratto a tutti i miei aspetti e a tutte le mie funzioni, salvo a quella di dormire, che forse non è nemmeno una funzione; o meglio, il cui funzionamento sta unicamente nel sospendere ogni funzione» (Nancy, 2007, p. 20). Nel sonno pensato da Nancy sta la controreplica ad Aristotele e si riaffaccia l’idea di un’inoperosità pervasiva dell’esistenza, l’idea di un’argia estesa alla vita nella sua interezza: non più il sonno come inoperosità circoscritta a una determinata porzione dell’esperienza, lo stadio provvisorio di recupero fisiologico volto al risveglio, bensì il sonno come prototipo di una nuova vita da vivere nottetempo, che allude alla morte, che è senza attività, una vita che dimora eternamente in una potenza oltre l’atto.

tratta di forme né attive né passive in cui il soggetto non transita in un oggetto, ma esso è interno al processo designato dal verbo (cfr. Benveniste, 1950, pp. 200-209). La voce verbale ‘dormire’ non indica qualcuno che compie un’azione su qualcosa o nei confronti di qualcun altro, tanto che per rendere il verbo nella forma attiva è necessario trasformarlo e dire: «“egli fa dormire, addormenta”, in cui il processo, non avendo più il suo luogo nel soggetto, viene trasferito transitivamente in un altro termine che ne diventa l’oggetto. Qui il soggetto posto fuori dal processo, lo sovrasta ormai come attore e l’azione deve prendere conseguentemente come fine un oggetto esterno» (Agamben, 2014a, p. 52). È significativo che Agamben osservi come anche il verbo greco chrestai, da cui chresis, ovvero ‘uso’, appartenga anch’esso alla stessa famiglia di ‘dormire’: «si chiarisce anche, in questa prospettiva “mediale”, perché l’oggetto del verbo chrestai non possa essere all’accusativo, ma sia sempre al dativo o al genitivo. Il processo non transita da un soggetto attivo verso l’oggetto separato della sua azione, ma coinvolge in sé il soggetto, nella misura stessa in cui questo si implica nell’oggetto e si dà a esso» (Ivi, p. 53; cfr. gli esempi riportati in Ivi, p. 49). Recentemente Agamben (2016), interrogandosi sul concetto di esigenza, sembra approfondire la somiglianza di famiglia tra uso inoperoso, sonno e morte. Con esigenza s’intende una categoria modale non conforme né alla modalità del necessario né alla modalità del possibile, bensì equiparabile alla potenza oltre l’atto, che in Agamben, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, è il fondamento logico-metafisico dell’inoperosità: se x esige y, allora y non esaurisce le possibilità contenute in x. Carica di esigenza destinata a conservarsi nella sua inattualità è, secondo l’autore, la figura dell’amata contemplata dall’amante: «Essa è là – ma come sospesa da tutti i suoi atti, involuta e raccolta in se stessa. Come l’idea, c’è e, insieme, non c’è. Sta davanti al nostro sguardo, ma perché ci fosse veramente occorrerebbe destarla e, così facendo, la perderemmo» (Ivi, p. 56). Da qui Agamben tira le somme e afferma: «L’idea – l’esigenza – è il sonno dell’atto, la dormizione della vita. Tutte le possibilità sono ora raccolte in un’unica complicazione, che la vita andrà poi man mano spiegando – ha già, in parte, spiegato. Ma, di pari passo al procedere delle spiegazioni, sempre più s’addentra e complica in sé inesplicabile l’idea. Essa è l’esigenza che resta indelibata in tutte le sue realizzazioni, il sonno che non conosce risveglio» (Ibidem).

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