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Definizione di inoperosità secondo la potenza

III. Né praxis né poiesis: il concetto di inoperosità in Giorgio Agamben

3. Elementi per un’ontologia della potenza oltre l’atto

3.1 Definizione di inoperosità secondo la potenza

Com’è stato già anticipato nel § 1.1. di questo capitolo l’inchiesta genealogica di Agamben penetra l’argia per ricondurla al concetto di potenza. La categoria di inoperosità costituisce l’aldilà della praxis e della poiesis perché anzitutto registra il divorzio della coppia potenza/atto. L’inoperosità inaugura una dimensione ontologica in cui il rapporto tra l’essere in potenza e l’essere in atto è immesso in una soglia di indistinzione e da qui è neutralizzato. Si configura così una forma- di-vita interamente collocata entro i confini della dynamis, il cui tratto peculiare consiste nel conservarsi oltre l’energheia. Ogni traduzione della potenza in atto dà come risultato non già un’attività, ma un resto che diverge rispetto all’essere di una praxis o di una poiesis, la performance di un pianista o la produzione di scrittore, poiché, in entrambi gli atti, ciò che vale – ciò che resta – è la loro potenza di non suonare e di non scrivere58.

Col vivere inoperoso Agamben intende assegnare una realtà empirica alla coerenza concettuale della potenza, concepita secondo la definizione fornita da Aristotele. Nello schema tracciato nel Libro IX della Metafisica lo stagirita designa l’atto come «l’esistere della cosa» (Met., 1048a31) e la potenza come ciò

58 La letteratura critica, preciso in quest’ottica è lo studio di de la Durantaye (2009), concorda sul fatto che il concetto di potenza sia l’idea guida di tutto il pensiero di Agamben. Fondamentale è in questo senso il saggio La potenza del pensiero, originariamente il testo di una conferenza tenuta a Lisbona nel 1987 e poi incluso nell’omonima raccolta del 2005. Sulla delicata relazione tra potenza e atto come sede dell’inoperosità Salzani (2013, p. 63) osserva: «Il punto fondamentale è che il passaggio all’atto non annulla né esaurisce la potenza, ma questa si conserva nell’atto come potenza di non». In The Agamben Dictionary, curato da Murray e Whyte (2011), i termini potentiality e impotentiality sono discussi all’interno della medesima voce al fine di sottolineare, nella teoria di Agamben, la coesistenza di potenza e potenza di non: «The inherently two-sided structure of potentiality–impotentiality means that in the passage to act, impotential- ity must set itself aside, suspend and turn back upon itself, and yet not be totally destroyed or left behind, making actuality not just the realisation and fulfilment of the potentiality-to-be (i.e. being), but also the privative negation (and fulfilment) of the potentiality-to-not-be: the potentiality not to not be (i.e. not not-being)» (Ivi, pp. 161-162). Agamben ricava la coappartenza di potenza e impotenza, cui nel Dictionary si fa riferimento, dal brano della Metafisica di Aristotele in cui si dice: «Una cosa è potenza se il tradursi in atto di ciò di cui essa è detta aver potenza non implica alcuna impossibilità» (Met., 1047a24-25). In La potenza del pensiero Agamben (2005, pp. 292- 294) interpreta la doppia negazione – outhen estai adynaton – non come un modo per annullare la potenza, ossia in una sorta di impossibilità o di ‘non poter non essere’, ma come la negazione privativa interna alla potenza, ovvero il ‘poter non non-essere’.

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che oltre a essere «può non essere» (Ivi, 1050b12). A differenza dell’atto, lo statuto logico della potenza fa perno sulla «privazione» (Ivi, 1046a30)del proprio poter essere, quindi, sul poter non essere.

Agamben svolge la tesi che mantiene la potenza in relazione originaria con la propria impotenza o potenza di-non (adynamia) e arriva a interrompere la comunicazione tra i poli della diade. In un passo59 già citato in apertura di

capitolo, tratto dal primo volume di Homo sacer, egli può affermare: «Il solo modo coerente di intendere l’inoperosità sarebbe quello di pensarla come un modo di esistenza generica della potenza, che non si esaurisce in un transitus de

potentia ad actum» (Agamben, 1995, p. 71).

Il gesto di Agamben consiste nel penetrare all’interno della coppia potenza/atto e di disattivare il rapporto finalistico che collega i due elementi. Introducendo il tema dell’inoperosità l’autore getta le basi per un’ontologia della potenza oltre l’atto, per una teoria dell’essere e dell’uomo che riposa in una concezione non teleologicamente orientata di dynamis. Egli intende così prendere le distanze dalla metafisica aristotelica che teorizza la priorità dell’atto sulla potenza, perché assegna al primo termine il ruolo di telos del secondo: l’atto è, scrive Aristotele in

Metafisica 1050a7-9, «anteriore perché tutto ciò che diviene procede verso un

principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. È il fine è l’atto, e in grazia di questo si acquista anche la potenza».

In L’uso dei corpi Agamben appone il sigillo sulla questione: «Ciò che disattiva l’operosità è certamente un’esperienza della potenza, ma di una potenza che, in quanto tiene ferma la propria impotenza o potenza di non, espone se stessa nella sua non-relazione all’atto» (Agamben 2014a, p. 349). Nella forma ormai matura del suo pensiero il filosofo italiano conferma le ipotesi formulate vent’anni

59 Per illustrare i tratti salienti di questa categoria è forse istruttivo notare come il tragitto che conduce all’inoperosità abbia origine in uno scolio. Lo scolio è un luogo del testo che si colloca oltre se stesso, che sta al di là dell’opera e che, come tale, caratterizza la prosa dell’autore. Il contenuto semantico del concetto fa qui tutt’uno con la forma della sua espressione, significato e significante si indeterminano, entrano in una soglia di indistinzione in cui ogni dualismo è revocato in dubbio. Se è così, allora è legittimo inferire che già la semiotica del testo di Agamben contiene in nuce gli elementi essenziali della sua teoria nella misura in cui essa, la teoria, è inseparabile dalla scrittura.

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prima, individuando nella categoria metafisica di potenza il luogo proprio dell’inoperosità. Egli dunque assegna l’inoperosità alla potenza intesa nella sua costitutiva inattualità, nella sua intima impotenza, in cui ogni tentativo di traduzione in atto è sospeso.

Nella sua essenziale capacità di disattivare la teleologia che innerva la relazione tra potenza e atto, configurando così un’ontologia intrinsecamente oltre il fine, nel duplice senso in cui Aristotele definisce i fini in Etica Nicomachea 1094a3-6 – «alcuni sono attività (energheiai) altri sono opere (erga)» –, l’inoperosità apre il varco alla forma-di-vita propriamente umana. Questa nuova antropologia si situa al di là delle sfere della praxis e della poiesis con cui la filosofia occidentale ha tradizionalmente articolato l’esperienza degli umani. L’inoperosità sfugge alla poiesis perché ripudia l’attività finalizzata alla realizzazione di prodotti esterni (lo scrittore cui si accennava), ma si sottrae anche alla praxis, sebbene questa definisca l’agire che non dà luogo a opere, perché rifiutando il finalismo respinge anche l’attività che ha il fine in sé (il pianista cui pure si faceva cenno). Già all’inizio de L’uso dei corpi Agamben sostiene decisamente l’impossibilità di classificare l’inoperosità secondo lo schema dell’Etica aristotelica: «L’uso del corpo» – che come abbiamo compreso è una categoria coestensiva a inoperosità – «non è, nei termini aristotelici, né poiesis né

praxis, né una produzione né una prassi» (Agamben 2014a, p. 46).