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III. Né praxis né poiesis: il concetto di inoperosità in Giorgio Agamben

2. In principio era l’argia

2.2 La risposta di Agamben

Se la risposta di Aristotele alla domanda circa l’esistenza di un’attività specie- specifica dell’uomo è affermativa, lo svolgimento del quesito da parte di Agamben conduce a una presa di posizione in senso negativo. Ecco come Leland de la Durantaye (2009, pp. 6-7) introduce la questione:

Do we have a specific task to complete, a select activity exercise, set work we must do or works we must accomplish? Agamben’s philosophy of potentiality evolve as an answer to this question. In its simplest form, his response is no […] To answer Aristotle’s question with a no is to see our past and present, our history and our philosophy, in a new, and strange, light.

Astraendo dalle figure particolari del suonatore di flauto, dello scultore, del falegname e del calzolaio, ma anche del medico, dell’architetto e dell’amministratore domestico, Agamben si misura col genere umano e sceglie l’ipotesi in base alla quale l’umanità sia priva di un compito operativo che la

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contraddistingue. Nella raccolta Il fuoco e il racconto, che anticipa di qualche mese l’uscita di L’uso dei corpi, l’autore dichiara apertamente di dissociarsi dall’antropologia di orientamento aristotelico e, dunque, di propendere verso la teoria dell’uomo inoperoso: «Naturalmente Aristotele lascia subito cadere l’ipotesi che l’uomo sia un animale essenzialmente argos, inoperoso, che nessuna opera e nessuna vocazione possono definire. Vorrei invece proporvi di prendere sul serio quest’ipotesi e di pensare conseguentemente l’uomo come il vivente senz’opera» (Agamben, 2014b, p. 56).

La mancanza di uno specifico ergon dell’uomo non vale soltanto rispetto alle operazioni concrete svolte in determinati ruoli sociali, ma consegue la sua piena verità anzitutto in relazione alla storia naturale delle specie viventi. È in questa prospettiva che Agamben (2005, pp. 373-374) può affermare:

La domanda non ha solo un carattere retorico […] Il problema ha, cioè, un significato più ampio, e investe la stessa possibilità di identificare l’energheia, l’essere-in-opera dell’uomo in quanto uomo, indipendentemente a al di là delle figure sociali concrete che egli può assumere. Anche se in forma di una domanda paradossale, l’idea di un’argia, di un’inoperosità essenziale dell’uomo rispetto alle sue occupazioni e operazioni concrete è avanzata senza riserve […] Più in generale, in questione in questa domanda è la natura stessa dell’uomo, che si presenta come il vivente senz’opera, cioè privo di una natura e di una vocazione specifica.

La concezione di un’umanità senza opera, ovvero priva di una funzione specie- specifica, pare quindi revocare in dubbio lo schema di derivazione aristotelica secondo cui la vita umana è il prodotto da un lato dell’esclusione dei vegetali e del divino e dall’altro del processo di selezione all’interno della biologia animale. La vita attiva, caratterizzata dalla prassi linguistica e dal fare manipolativo finalizzato alla produzione, emerge come elemento di rottura e di differenza nella storia naturale dell’evoluzione. Viceversa, la vita inattiva o inoperosa istituirebbe una soglia di indistinzione tra vegetali, animali e divino e darebbe luogo a un regno nuovo, che col vocabolario di Agamben potremmo nominare regno degli esseri

eccezionali, di coloro che dimorano in uno stato d’eccezione permanente.

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Bartleby54, i detenuti nei campi nazisti e gli odierni migranti apolidi sono solamente alcune delle figure cui egli ricorre per esemplificare la sua proposta. Si tratta di personaggi residuali, inscrivibili nella tradizione degli oppressi, di veri e propri resti delle epoche storiche, che, secondo Agamben, nell’età del postmoderno e della fine della storia, assurgono a criterio di ricerca della politica che viene. Sul tema, alludendo alle Tesi sul concetto di storia, è del tutto pertinente l’osservazione di Salzani (2013, p. 64) che sottolinea come «il riferimento è, ovviamente, al messianismo di Benjamin, che aspira alla redenzione di tutti gli eventi gioiosi che avrebbero potuto essere ma non si sono realizzati, che vuole salvare ciò che non è mai stato, l’insalvabile».

Nell’indagine di Agamben il prototipo è l’homo sacer (Agamben, 1995), l’uomo che nel diritto romano è uccidibile senza commettere omicidio e che, al contempo, è insacrificabile; come tale l’homo sacer non è conforme né alla legge degli uomini né a quella del divino, le eccepisce entrambe collocandosi in un’area di indeterminazione tra zoé e bios. Il sacer porta in superficie la nuda vita secondo una modalità in cui essa non è finalizzata ad alcuna forma particolare, a nessuna identità, a nessun genere, a nessuna vocazione, a nessun ergon. In questa inedita forma-di-vita – «col termine forma-di-vita intendiamo […] una vita che non può mai essere separata dalla sua forma, una vita in cui non è mai possibile isolare e mantenere disgiunta qualcosa come una nuda vita» (Agamben, 2014a, p. 264) – si svuotano di senso le coppie essenza ed esistenza, soggetto e oggetto, trascendenza e immanenza e acquista significato l’idea di un’esistenza non formulabile secondo lo schema umano/non-umano, ma che è fin dall’inizio un tertium: «Si tratta, cioè, di rendere inoperosi tanto il bios che la zoè, perché la forma-di-vita possa apparire come il tertium che diventerà pensabile soltanto a partire da questa inoperosità, da questo coincidere – cioè cadere insieme – di bios e zoè» (Ivi, p. 287).

Nella parte finale di Agamben (2014a), in particolare nel capitolo intitolato

Opera e inoperosità, i concetti di forma-di-vita e argia esibiscono la loro unitaria

struttura ontologica e aprono il varco alla contemplazione55 intesa come modus

vivendi:

54 Sul personaggio di Melville cfr. Agamben (1993).

55 Respingendo la praxis e la poiesis Agamben sembra riscattare l’altra sfera che nel modello di Aristotele definisce la tripartizione dell’esperienza: la vita teoretica. Del paradigma che distingue

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Ciò che chiamiamo forma-di-vita non è definito dalla relazione a una prassi (energheia) o a un’opera (ergon), ma da una potenza (dynamis) e da una inoperosità. Un vivente, che cerchi di definirsi e darsi forma attraverso la propria operazione, è, infatti, condannato a scambiare incessantemente la propria vita con la propria operazione e viceversa. Si dà, invece, forma-di-vita solo là dove si dà contemplazione di una potenza (Ivi, p. 313).

Il punto di fuga di questa modellizzazione della forma-di-vita inoperosa è l’immanentismo di radice spinoziana cui Agamben (2014a) fa riferimento almeno una decina di volte nell’arco della sua esposizione e che inequivocabilmente invoca chiusura dell’ultima pagina del suo libro: «La Soddisfazione di sé è Gioia nata dal fatto che l’uomo contempla se stesso e la propria potenza di agire» (Spinoza 1661, III, def. XXV). Sono questi i termini in cui nella teoria agambeniana dell’inoperosità si darebbe l’eu zen, la buona vita, la felicità: non già nella relazione tra agire pratico e fare produttivo, ma nella contemplazione della potenza di non fare e di non agire.