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Seconda obiezione: quale valore euristico nell’analisi del tardo capitalismo?

IV. Sul divenire poiesis della praxis: lo schema omologico della produzione in Ferruccio Rossi-Land

2. Per una critica alla tesi di Rossi-Land

2.2 Seconda obiezione: quale valore euristico nell’analisi del tardo capitalismo?

Venendo alla seconda obiezione va rilevata l’inadeguatezza dello schema omologico della produzione nell’illustrare i mutamenti subiti dal lavoro nel capitalismo attuale.

Ha ragione Rossi-Landi a mettere in luce la relazione tra linguaggio e lavoro e a concepirla come un tratto antropologico di fondo, ma ha torto allorché trasferisce l’omologia dal campo dell’antropogenesi a quello della struttura logica dei due elementi, assegnando al linguaggio un’indole produttiva; ancora maggiori sono le difficoltà quando s’intende studiare l’operosità umana nel XXI secolo adoperando la categoria di lavoro linguistico.

L’alleanza tra linguaggio e lavoro non è un prodotto storico (e men che mai naturale) del capitalismo, essa al contrario è un attributo della natura umana. Meglio: è il principale elemento del processo di umanizzazione, parole e strumenti contribuiscono in maniera decisiva a istituire la soglia che separa l’umano dal non umano. Merito del capitalismo nella sua fase contemporanea è di estrapolare l’intreccio tra linguaggio e lavoro dal fondo della condizione comune agli uomini e di portarlo alla superficie della storia. La posta in gioco è dunque escogitare il modello epistemologico più coerente con la forma storicamente determinata assunta dalla relazione tra parole e opere nell’epoca detta del postfordismo. L’ipotesi è che l’immagine del linguaggio come lavoro sia incapace di rendere conto del movimento profondo che presiede alle trasformazioni in atto nell’ambito della produzione capitalistica odierna. Anziché optare per il tema

linguaggio che produce – che come già osservato ha oltretutto lo svantaggio

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l’argomento in base al quale è la produzione che parla e includere in esso il primo tema. Vale a dire: solamente in seguito al divenire linguistico del lavoro, il linguaggio introietta nei suoi processi numerosi aspetti tipici della poiesis.

Per svolgere le argomentazioni insite in questa seconda obiezione leggiamo alcuni passaggi tratti dalle pagine iniziali di Ponzio (2008) in cui lo studioso esalta il valore euristico della tesi sul linguaggio come lavoro in relazione all’ultima, epocale ristrutturazione economica:

a) ciò che Rossi-Landi indicava come “lavoro linguistico”, stabilendo una connessione che all’epoca poteva risultare semplicemente metaforica tra produzione linguistica e produzione materiale e tra linguistica ed economia […] oggi si chiama “risorsa immateriale”, “capitale immateriale”, “investimento immateriale”, fattore centrale della “crescita, della competitività e dell’occupazione” nella “knoweldge society”

(Ivi, pp. 9-10);

b) il libro di Ferruccio Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato […] risulta oggi di grande attualità perché anticipa e affronta con lucidità e lungimiranza problematiche centrali della fase attuale della forma capitalistica, in cui la comunicazione si presenta come il fattore costitutivo della produzione, e il cosiddetto “lavoro immateriale” come la principale risorsa (Ivi, pp. 13-14);

c) ne risultano nel libro del ’68 i lineamenti di una semiotica generale che comprende e congiunge la linguistica e l’economia, come le altre scienze sociali, secondo una visione unitaria dell’operare umano, mostrando pioneristicamente l’insostenibilità delle diverse forme di separatismo, che la comunicazione-produzione, nella fase della globalizzazione, rende ormai anacronistiche (Ivi, p. 15).

Si tratta solamente di un saggio della modalità con cui Rossi-Landi è oggi usato come autore di riferimento nell’analisi sulla logica economica e culturale del tardo capitalismo. In una direzione affatto contraria a quella di Augusto Ponzio, la categoria rossilandiana di lavoro linguistico sembra poter conservare un valore euristico allorché sia inglobata all’interno dell’altro paradigma, ovvero del modello diametralmente opposto che concerne il divenire linguistico del lavoro.

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La metamorfosi del capitalismo nella sua fase più avanzata risponderebbe così a motivi che non sono contenuti nello schema omologico della produzione, ossia la base del tardo capitalismo non consisterebbe nel divenire poiesis della praxis, bensì appare più verosimile optare per il movimento contrario, dunque, per il divenire praxis della poiesis. Il vantaggio teorico offerto da quest’altra opzione sta nel mettere a fuoco l’autentico soggetto della trasformazione: il lavoro. La coerenza concettuale del lavoro, che è conforme alla poiesis, si ritrova invasa dai tratti salienti dell’agire linguistico il cui concetto si identifica con la praxis: «la

poiesi ha incluso in sé numerosi aspetti della prassi» (Virno, 2002a, p. 38).

L’immagine del postfordismo diventa perspicua laddove si colga la differenza tra le proposizioni ‘linguaggio che produce’ e ‘lavoro che parla’. Attribuendo un’attitudine produttiva al linguaggio, Rossi-Landi non solo isola un unico aspetto del nostro medio comportamento comunicativo – quello della poiesis a discapito della praxis – facendolo passare per un fatto nuovo, storicamente inedito, ma scambia il soggetto della trasformazione – ossia il lavoro – col predicato che provoca il mutamento – ossia il linguaggio – e non fa altro che pronunciare a più riprese il primo dei due enunciati. Egli sembra difettare nel cogliere la struttura sintattica originaria del processo in cui, diversamente dalle sue tesi, è il lavoro a omologarsi ai comportamenti linguistici.

È certamente possibile essere d’accordo con chi scorge nell’indagine di Rossi- Landi un tentativo pioneristico per una teoria linguistica del lavoro contemporaneo, salvo però restringere il campo ad alcuni fenomeni circoscritti, per esempio agli effetti e alle conseguenze dell’uso strumentale dei codici linguistici nei luoghi di lavoro, in fabbrica come in ufficio – ordini, istruzioni, frasi gergali, trasmissione di informazioni, formattazione di conoscenze –, che poco dicono sulle dinamiche trasformative del lavoro stesso.