• Non ci sono risultati.

II. Lo sviluppo delle forze produttive e la vita della mente messa a valore Alcuni studi di economia, sociologia e

1. La fine del lavoro in Gorz e Rifkin: l’omissione della poiesis

1.3 Jeremy Rifkin

Nel suo studio Accornero (1997, p. 199) osserva: «Rifkin, che ha trovato il cattivo nella tecnologia mangiaposti, placa le ansie di vendetta e il bisogno di lavoro additando la terra promessa del terzo settore in quanto promozione dal basso di un lavoro utile, gratificante e autoreferenziale che necessita appena una stimolazione dallo Stato o dai governi». Rifkin stabilisce un rapporto di causa ed effetto tra lo sviluppo delle forze produttive e la scomparsa del lavoro; in apertura del suo libro più famoso La fine del lavoro (1995) – per una bibliografia più completa bisogna perlomeno aggiungere i titoli più recenti relativi a Rifkin (2000; 2011; 2014) – l’economista statunitense pone la questione:

Oggi, per la prima volta, il lavoro umano viene sistematicamente eliminato dal processo di produzione […] Una nuova generazione di sofisticati computer e di tecnologie informatiche viene introdotta in un’ampia gamma di attività lavorative: macchine intelligenti stanno sostituendo gli esseri umani in infinite mansioni, costringendo milioni di operai e impiegati a fare la coda negli uffici di collocamento o, peggio ancora, in quelli della pubblica assistenza (Rifkin, 1995, p. 23).

Rifkin come Gorz, richiamandosi implicitamente al Marx del Frammento sulle

macchine, teorizza la fine del lavoro attribuendone le cause alla trasformazione

dello strumento operaio in sistemi robotizzati e informatizzati di macchine ma, diversamente dal tentativo del filosofo e sociologo francese, rimuove dalla sua analisi ogni riferimento alla metamorfosi del lavoro vivo umano: «l’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate, con i conseguenti guadagni in termini di produttività, comporta che l’economia globale riesca a produrre sempre più beni e servizi impiegando una porzione sempre minore della forza lavoro disponibile» (Ivi, p. 36). In questa prospettiva Rifkin fa completamente collassare la poiesis sul lavoro e decretando la fine di quest’ultimo espelle l’attitudine a produrre dalla sfera della vita attiva. Nel suo pronostico la via d’uscita dal capitalismo è rappresentata dal terzo settore, cioè da quel campo in cui, secondo la classica immagine di derivazione marxiana, sono inscritte le attività improduttive tanto di opere quanto di plusvalore:

89

In generale, i lavori di cui si fruisce in quanto servizi e che, pur potendo essere sfruttati direttamente in modo capitalistico, non si trasformano in prodotti separabili dai lavoratori e quindi esistenti al di fuori di essi come merci autonome, rappresentano delle grandezze infinitesime rispetto alla massa della produzione capitalistica. Non sono perciò da prendere in considerazione, ma da trattare solo a proposito del lavoro salariato che non è, nello stesso tempo, lavoro produttivo

(Marx, 1933, p. 67).

Il terzo settore comprende insegnanti, medici, ballerini, artisti, preti; certamente esso può essere organizzato capitalisticamente e diventare fonte di profitto se per esempio un cantante è ingaggiato da un impresario con cui scambia lavoro contro capitale. Tuttavia il terzo settore, il settore dei servizi, è caratterizzato da modelli di operosità che perlopiù non si concretizzano in prodotti esterni e perciò non creano valori di scambio, per tali attività non si investe né si produce capitale ma si spende solo reddito:

Il prodotto è inseparabile dall’atto del produrre. Anche qui il modo di produzione capitalistico gioca solo in limiti ridotti e, secondo la natura della cosa, in singole sfere […] Per esempio negli istituti di cultura gli insegnanti possono essere puri e semplici salariati dell’impresario della fabbrica del sapere. Casi simili, a fronte dell’insieme della produzione capitalistica, sono tanto insignificanti da poter essere trascurati (Ivi, p. 71).

Rifkin guarda al terzo settore nel segno dell’economia sociale post-capitalista, l’unica vera alternativa alla disoccupazione e alla guerra civile che ne potrebbe scaturire. La proposta dunque prevedrebbe di sancire un nuovo patto con lo Stato così da sostenere attività come «nutrire gli indigenti, fornire servizi basilari di assistenza sanitaria, educare i giovani, costruire abitazioni a prezzi controllati e conservare l’ambiente» (Rifkin, 1995, p. 195). Più in generale il punto che egli mette a fuoco è il seguente:

Il successo della transizione verso l’era del post-mercato dipenderà in larga misura dalla capacità di un elettorato nuovamente attivo, che agisce attraverso coalizioni e movimenti, di trasferire efficacemente quanta più parte possibile dei guadagni di

90

produttività dal settore privato al terzo settore, in modo da rafforzare e approfondire i legami sociali e le infrastrutture locali. Solo riuscendo a costruire comunità locali forti e in grado di autosostenersi, la gente di tutte le nazioni potrà affrontare le forze dello spiazzamento tecnologico e della globalizzazione dei mercati che stanno minacciando il benessere – se non la stessa sopravvivenza – di buona parte del consorzio umano (Ibidem).

Il terzo settore o è, come per Rifkin, il rimedio alla fine del lavoro oppure nel postfordismo diventa il luogo privilegiato da cui la totalità del lavoro produttivo di plusvalore preleva e include in sé i caratteri peculiari delle attività senza opera atti a mediare la poiesis delle macchine. Quest’ultima è un’ipotesi che revoca in dubbio il profilo con cui Marx descrive il terzo settore nella misura in cui nel tardo capitalismo si assiste a una progressiva terziarizzazione del lavoro, a partire dai settori primario e secondario; ciò significa che proprio l’attività ritenuta improduttiva di opere e di plusvalore diventa il principale criterio di strutturazione dell’impresa capitalista:

Si tratta di un nuovo modo di organizzare e gestire l’impresa industriale, nella quale le funzioni di servizio si avviano a essere la prima linea del sistema mentre quelle produttive diventano le retrovie, e nella quale l’integrazione verticale su cui si basava l’autosufficienza viene soppiantata dall’integrazione orizzontale con cui si va in cerca dell’eccellenza (Accornero, 2002, p. 320).

Per un tentativo di affondo sull’egemonia dei servizi nel XXI secolo si rinvia all’ultimo capitolo di questa ricerca.