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La domanda di Aristotele in Etica Nicomachea 1097b25-

III. Né praxis né poiesis: il concetto di inoperosità in Giorgio Agamben

2. In principio era l’argia

2.1 La domanda di Aristotele in Etica Nicomachea 1097b25-

L’antropologia conseguita da Agamben a conclusione del programma Homo

sacer attribuisce all’inoperosità il ruolo di arché, ovvero di elemento originario da

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antropogenetica fondata, da Aristotele in avanti, sulla vita attiva scandita dalla

praxis e dalla poiesis. Nella storia del pensiero occidentale sono celebri due

espressioni con cui ci si riferisce ad altrettanti esemplari di arché capaci di spiegare il mondo, compresi gli affari umani. Da un lato il motto evangelico attraverso cui Giovanni assegna l’origine al Verbo, alla parola, in greco al logos; dall’altro l’esternazione contenuta nel Faust di Goethe in base alla quale l’effettualità dell’azione, in tedesco tan, è l’origine di tutte le cose. Agamben partecipa a un simile dibattito introducendo un argomento affatto divergente rispetto a Giovanni e a Goethe; egli infatti riformula il luogo dell’origine, rifiutando tanto la centralità del logos quanto quella dell’agire e del fare, e disloca l’arché su un piano in cui la vita attiva è costitutivamente disattivata. Secondo Agamben il principio della vita umana non è né il Verbo né l’Azione, bensì l’argia, da aergos, cioè privo di ergon, dunque, una vita senza nessun caratteristico compito di tipo operativo.

Come sottolinea Agamben (2005, pp. 373-374) il problema dell’argia dell’uomo ha il «suo fondamento logico-metafisico» all’inizio del Libro I dell’Etica Nicomachea allorché Aristotele espone il seguente quesito:

Come per un flautista, per uno scultore, per ogni artigiano, e in generale per coloro che hanno un proprio operare (ἔργον) e agire (πρᾶξις), il bene e il successo sembrano consistere nell’opera stessa, così si può credere che ciò valga anche per l’uomo, se è vero che anche l’uomo ha un qualche operare suo proprio (τι ἔργον αὐτον). Ma è dunque possibile che vi siano opere e attività proprie di un falegname e di un calzolaio, e dell’uomo non ve ne sia nessuna, ed egli sia inattivo (ἀργὸν) per natura? (Aristotele, EN, 1097b25-30).

L’argomento dell’ergon dell’uomo che qui è in questione si inscrive nel problema più generale circa la definizione della felicità. Nella filosofia aristotelica la felicità, l’eudaimonia, è lo scopo verso cui tende la vita umana, che, nel famoso passo della Politica (1252b30), consiste precisamente nell’eu zen. Come sottolinea Ackrill (1973, p. 20), nel brano dell’Etica Nicomachea sopra citato «Aristotle seeks to discover what is the good for man by determining his specific

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function»; l’indagine sull’ergon svolge dunque un ruolo assai rilevante perché è propedeutica alla determinazione della felicità: «per dare un contenuto alla felicità, definita come quel “vivere e agire bene” che appartiene solo all’uomo, bisogna allora preliminarmente chiedersi se esiste una funzione specie-specifica dell’uomo» (Lo Piparo, 2003, p. 7). Secondo Aristotele la risposta a questa domanda prevede una frase affermativa che si racchiude nella formula espressa in

Etica Nicomachea (1098a7-8) e qui proposta secondo la traduzione di Lo Piparo

(2003, p. 8): «La specie-specificità (ἔργον) dell’anima umana è attività in relazione al linguaggio e comunque non senza linguaggio»53.

Aristotele svolge il quesito attraverso un procedimento tipicamente induttivo, esordendo con l’esaminare alcuni casi particolari, come il suonatore di flauto e lo scultore, il falegname, il calzolaio oppure, altrove (EN, 1094a6-10), il medico, il costruttore di navi, l’amministratore della casa. Da qui, per astrazione ed esclusione, egli individua il compito che caratterizza la specie umana e che non è riducibile a nessuna delle funzioni particolari precedentemente censite, bensì tutte le precede e ognuna la rende possibile. Così commentano Gauthier-Jolif (1970, pp. 55-56):

Cette façon de poser le problème est caractéristique de l’humanisme aristotélicien, tel qu’il s’affirme dans l’Éthique à Nicomaque. Il va de soi alors pour Aristote, - et c’est tellement évident pour lui qu’il ne songe même pas à justifier sa démarche, - que la tâche de l’homme est en dehors et au delà de toutes ces tâches particulières qui font la trame quotidienne de la plupart des existences humaines. Le menuisier, le cordonnier et en général tous les travailleurs, du paysan et de l’ouvier au commerçant, exercent un métier: ils ne font pas leur métier d’homme. Le métier d’homme est en dehors et au delà. Ils exercent leurs yeux, leurs mains, leur pieds, leur corps tout entier, mais ce n’est pas là l’homme. L’homme est en dehors et su delà.

Il termine francese tâche traduce il greco ergon; Baker (2015) sottolinea come in Aristotele esistono almeno due significati della parola ergon: in un senso essa sta per il prodotto esterno a un’attività, precisamente l’opera cui dà luogo la

poiesis, in un altro senso la parola indica l’attività specie-specifica, ossia quella

53 Nella lingua di Aristotele: «εἰ δ᾽ἐστιν ἔργον ἀνθρώπον ψυχῆς ἐνέργεια κατὰ λόγον ἢ µὴ ἄνευ λόγου».

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che lo studioso più volte chiama la «proper activity» di una forma di vita. In questa ottica l’ergon dell’uomo discusso in Etica Nicomachea 1097b25-30 coincide con il compito operativo conforme all’animale umano, dal cui adempimento dipende la buona vita, l’eu zen: «l’ἔργον d’un être, sa fonction ou sa tâche propre, c’est donc l’opération pour laquelle il est fait, et qui, étant sa fin, définit aussi son essence; tout être qui a une tâche à accomplir existe en effet pour cette tàche et c’est à l’accomplissement de cette tâche qu’on reconnaît qu’il est vraiment ce qu’il est» (Gauthier-Jolif, 1970, pp. 54-55).

Sotto questa luce appare ancor più evidente il motivo per cui perseguire l’ipotesi dell’argia, come fa Agamben, non significa solamente postulare l’assenza di opere, nel senso di prodotti esterni a un comportamento attivo del genere della poiesis, bensì significa concepire una forma di vita intrinsecamente inattiva, ossia una vita che non possiede un compito proprio da realizzare né nel senso del fare produttivo né nel senso dell’agire secondo la praxis.